Canti d’amore e di battaglia: le riflessioni di Mariù Safier sulla poetica di Dalmazio Frau
(per gentile concezione dell’autore pubblichiamo alcuni estratti dalle introduzioni al testo)
Dalmazio Frau presenta Canti d’amore e di battaglia – all’apparenza una raccolta di versi, vista l’impostazione grafica – dichiarando con consumata civetteria d’autore che non si tratta di poèsie, piuttosto di parole senza alcun senso. L’incipit spinge il lettore incuriosito, a sfogliare subito le pagine del libro, per indagare sull’affermazione, tanto perentoria quanto falsa. È vero, non basta spezzare una frase, cercare la rima, andare a capo, per definire una poesia, ma è altrettanto inoppugnabile che la cura, la scelta, l’invenzione di termini – cito nella composizione XI tintinnabulo, vocabolo onomatopeico che evoca il riso argentino della donna celebrata – è atto che compete certo allo scrittore, ancor più al poeta. Inutile dunque discettare: sono creazioni poetiche.
Il punto è altro. Riguarda la scelta del Canzoniere. Desueta. Sulla scia dei Troubadour della tradizione provenzale, i Canti sono Carmina, nell’accezione latina del termine, offerti da un moderno bardo, che dispone di maggiori conoscenze e destrezza di penna. Si rivolge al modello muliebre vagheggiato nei sogni, adottando la melodia di un antico menestrello: mescola strumenti astronomici e ippogrifi alati, dame e cavalieri, re e buffoni. Scrive di giocolieri, quando è lui il funambolo: sul filo che va dipanando, suscita la visione di castelli baciati dalla spuma del mare, isole fatate, giardini incantati, torri accessibili da scale di stelle. Astri lucidi come le pietre preziose di cui è cosparso il racconto.
Ha assimilato gli studi della santa mistica Ildegarda di Bingen, ricostruendo fra le righe vibrazioni che attirano, irradiano benefici, curano i mali del corpo e dell’anima: onice verde, granati di Samarcanda, cristalli, perle. Ma sono i fili d’oro e d’argento a tessere la trama, anzi la tela, nella quale avvolgere l’Amata cui è dedicato il verseggiare. Gli amanti si esprimono in un loro linguaggio, comunicano attraverso lo sguardo, un cenno, più di quanto le parole esprimano e siano intelligibili a chi li circonda.
Lei sa. Però – eterno femminino del Faust di Goethe – finge di non sapere. I versi sono fluidi come il vino rosso che ricorre, spesso metafora del sangue che pulsa nelle vene di antichi eroi, in lotta con mostri, simboli di potere assoluto: sembrano impedire il compiersi di un destino, che pure è scritto nella pergamena celeste, stabilito nel firmamento. Sebbene il narratore confessi la propria “incapacità di comprendere il mio stesso amore” (XXI) i Canti sono lo struggimento per questa virtuale incapacità e il tentativo di superarla, attraverso il fascino suscitato dall’affabulazione. Non è un caso che suggerisca:
“Ti racconterò una fiaba / una che finisce bene / dove tu sei la principessa / e io l’ultimo drago”.
È riuscito nel suo intento, Dalmazio Frau? Perché questo è “un dono per te, per fartene mantello e corona / e sedere ai tuoi piedi per sempre” (XVII). Solo lei saprà rispondere.
Mariù Safier
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So che vi domanderete, forse o forse no, per chi le ho scritte, ma questo resterà un segreto tra me e me, perché tanto lei lo sa e questo è più che sufficiente ad evitare l’invidia dei Numi e la gelosia dell’Acheronte.
Allora, se li leggerete, fatelo davanti a un calice di vino, mentre il sole declina e l’atmosfera si fa più dolce al ricordo e al sogno, evocando echi arcani di città perdute e terre lontane e misteriose, di vascelli in fiamme e fortezze inconquistate; per un po’ sospendete ogni vostra credenza e lasciate che sia soltanto l’anima errante a trascinarvi via sul dorso d’un serpente gigante lungo sette miglia.
Il resto mi è indifferente, il destino dei libri di poesie – e queste non lo sono, lo ripeto – è d’esser dimenticati in qualche remoto anfratto d’una biblioteca tra quei libri che stanno lì a far mostra di loro stessi, con le copertine sobrie, dai caratteri severi, invece sarebbe divertente se lo metteste tra i libri di fantasia – se li avete – quelli che parlano di Peter Pan o del Principe Felice, così forse tra molto tempo, dita curiose di qualcuno potrebbero sfogliarlo e sentire di non esser più così insolito tra i suoi simili.
Naufraghi di questa o di molte vite, relitti in cerca d’una spiaggia, navi da battaglia squarciate da balenanti tempeste eppure mai domi, in un eterno risollevarsi e rimettersi in piedi, ringhiando come lupi, ruggendo come pantere, questi ventisette canti non vogliono insegnare nulla a nessuno, non vogliono farvi né piangere né sorridere, ma soltanto accompagnarvi per un po’ lungo quei sentieri d’argento che s’intravvedono alla luce della luna, riflessi in una bottiglia ormai vuota nella quale ancora danza una fantasima scarlatta.
Non leggetele a Natale, non vi sono buoni propositi o proclamate virtù, semmai un gusto per una vita vissuta sino in fondo, nei vicoli e nei palazzi, tra gatti, pipistrelli e cani che spesso ci sono più fedeli compagni di tanti altri del nostro stesso sangue. Leggetela a maggio, quando viene primavera e soffia lo Zefiro, quando si accendono i fuochi sulle colline e si danza per il raccolto oppure al tempo della vendemmia, quando l’uva matura gocciola dai tralci come gemme di sangue, evocando Dioniso e Demetra.
E lei? Chiedete ancora? Lei è la donna che avrei voluto per esser chiamato con il mio nome segreto, bionda d’argento filato come l’oro degli Elfi, rossa come il rubino balasso di Golconda o mora come la notte più profonda, cosa importa… è sempre lei, eterna, che ritorna d’era in era, di mondo in mondo per ritrovarci e riconoscerci. Non cercate il suo nome tra le parole, spiando le frasi come un mistero da svelare, lasciate che ella sia non altro che lo splendore dell’avventura, la meraviglia di una speranza, la certezza di un sogno. Lasciatela vivere come vuole, se vi sembra triste non lo è, né crudele e dura, perché dietro quell’armatura lucente e ingioiellata palpita un cuore antico e bellissimo troppe volte squarciato.
Dalmazio Frau