Brevi note su Giulio Cesare Vanini – Giovanni Damiano
Pur nella sua sommarietà, credo sia giusto dedicare un breve scritto a un filosofo non tra i più conosciuti, ma non per questo tra i meno importanti. Nato a Taurisano nel 1585, Giulio Cesare Vanini verrà bruciato sul rogo a Tolosa il 9 febbraio del 1619 per “ateismo, bestemmia, empietà e altri eccessi”. Prima di essere strangolato e poi consegnato alle fiamme, gli venne strappata la lingua. Prima ancora, stando a una testimonianza, scendo dal tribunale che lo aveva appena condannato a morte, avrebbe pronunciato in italiano queste parole: “andiamo, andiamo allegramente a morire da filosofo”. Morirà con fermezza, senza abiure o tentennamenti. Le uniche sue opere sopravvissute, ovvero l’Anfiteatro dell’eterna provvidenza e I meravigliosi segreti della natura, sono state pubblicate, in un unico volume, per i tipi della Bompiani nel 2010 col titolo di Tutte le opere.
Per quanto concerne ciò che i posteri hanno detto su di lui, pochi esempi bastano per valutarne la grandezza: Hölderlin gli dedicherà una celebre lirica, intitolata appunto Vanini; Hegel lo includerà nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia (vol. III, tomo 1, La Nuova Italia, 1985, pp. 229-235), collegandolo a Bruno e sottolineandone il comune “naturalismo” e la stessa volontà di opporre “la cosiddetta rivelazione” alla “ragione”; Schopenhauer, infine, annovererà Vanini tra i suoi “predecessori” (e non meri precursori) nella Libertà del volere umano (Laterza, 2011, pp. 115-116), aggiungendo il feroce commento che “il vero e solido argomento dei teologi”, come nel caso di Vanini, era appunto quello di mandare al rogo i loro avversari, così come nei Parerga e paralipomena (vol. II, Adelphi, 1998, p. 483), affermerà che per i teologi “fu più facile bruciare Vanini che riuscire a confutarlo”, mentre nell’Arte d’invecchiare (Adelphi, 2006, p. 90), scriverà: “prima di mettere al rogo l’acuto e profondo Vanini gli hanno strappato la lingua perché con quella aveva bestemmiato Dio. Confesso che quando leggo cose del genere mi viene quasi voglia di imprecare contro questo Dio”.
Ora, sempre Schopenhauer, e sempre nella Libertà del volere umano, notava come Vanini, per poter divulgare le sue vere tesi, avesse fatto sistematicamente ricorso allo stratagemma della dissimulazione, consistente nel mascherare abilmente gli attacchi alla religione fingendo di confutare posizioni che in realtà condivideva, così da riuscire persino a ottenere l’imprimatur per la stampa dei suoi libri. Si trattava di un tipico procedimento libertino, adottato ad esempio anche da La Mothe le Vayer, che aveva come scopo appunto quello di diffondere dottrine in contrasto con la religione, mascherandole accuratamente, anche se poi, come nel caso dello stesso Vanini, ciò non era servito per proteggere il loro autore; ed ecco perché, sia detto di sfuggita, proprio il Seicento sarà il secolo della nascita delle cosiddette filosofie clandestine, destinate a circolare anonime e in forma manoscritta a causa dei loro contenuti irreligiosi, su cui ha scritto anni fa un bel libro Gianni Paganini.
Inoltre, alla luce di quanto detto sinora, non credo desterà sorpresa scoprire che anche a Vanini sia stata falsamente attribuita la paternità del De tribus impostoribus, cioè di quel trattato, massimamente empio, che accusava d’impostura i tre fondatori delle grandi religioni monoteiste, vale a dire Maometto, Mosè e Gesù. Purtroppo non è qui possibile dilungarsi sulla storia di questo testo affascinante (edito dalle Ar nel 2009, per la cura di Francesco Ingravalle), per la quale rimando alla ricostruzione, assai accurata, di Georges Minois, Il libro maledetto (Rizzoli, 2010), dove l’autore (pp. 135-137), parla anche di Vanini e della sua vicinanza alle tesi del De tribus impostoribus. A conferma, mi soffermerò almeno su alcuni passi dei Meravigliosi segreti della natura (cfr. G.C. Vanini, Tutte le opere, cit., p. 1363), dove vengono denunciate, sempre seguendo la tecnica della dissimulazione, appunto le imposture perpetrate dai “sacerdoti” e dai “principi” ai danni del “rozzo popolino”, sottomesso al timore divino per meglio essere indotto all’obbedienza. E puntualmente Vanini, al riguardo, riprende il noto motto latino “Primus in orbe deos fecit timor”, pur attribuendolo erroneamente a Lucrezio (in effetti la frase ricorre in Petronio e Stazio, mentre in Lucrezio è, per così dire, implicita), per leggerlo in chiave imposturale, così come avverrà per altri esponenti dell’ambiente libertino francese come La Mothe le Vayer e Naudé.
Ma l’aspetto a mio parere davvero fondamentale dell’opera vaniniana sta nella sua filosofia della natura. Contestualizzando un minimo: alle spalle di Vanini c’è la filosofia della natura rinascimentale con i suoi grandi protagonisti (Telesio, Bruno, Campanella), mentre davanti a lui c’è la nuova visione galileiana della natura. Sarebbe quindi fin troppo facile individuare in Vanini una sorta di tappa intermedia, un momento di passaggio tra le due diverse immagini della natura, magari utilizzando, come criterio dirimente, la categoria di modernità. E in effetti non pochi interpreti si sono mossi proprio in questa direzione; vale ad esempio per Telesio, tant’è che Guido Giglioni, nel suo La filosofia naturale di Bernardino Telesio (in AA.VV., La filosofia del Rinascimento, Carocci, 2019, p. 257), scrive che il filosofo cosentino, pur avendo “dato inizio a una nuova forma di naturalismo” con la messa in discussione della vecchia concezione aristotelica, comunque non avrebbe anticipato “lo sperimentalismo della rivoluzione scientifica o l’empirismo moderno”; alla stessa stregua, se Mario Carparelli nel suo Giulio Cesare Vanini (Liberilibri, 2021, p. 26) sottolinea tutta la distanza che passa tra gli elementi magico-ermetici della filosofia bruniana e “la visione proto-meccanicistica e materialistica della realtà” rintracciabile in Vanini, Francesco Paolo Raimondi nel suo saggio introduttivo al volume di opere di Vanini già citato, afferma (p. 234) che la filosofia vaniniana sembra appunto “collocarsi in una fase di transizione tra una concezione magico-animistica dell’universo rinascimentale e quella quantitativo-meccanicistica della scienza secentesca”.
Insomma, il vizio d’origine di tali letture sta nell’interpretare queste filosofie in chiave evoluzionista, nel senso di un progressivo avvicinamento alla scienza dei moderni; detto in breve, in tal modo si finisce per svalorizzare radicalmente i filosofi della natura cinque-seicenteschi, riducendoli al ruolo, quanto mai angusto e svilente, di semplici precursori, chi più chi meno, del pensiero compiutamente scientifico.
Tutt’al contrario, bisogna pensare questa filosofia della natura davvero iuxta propria principia, per riprendere la notissima formula telesiana. Per cui, per rimanere a Vanini, l’aspetto decisivo della sua filosofia della natura non sta tanto nel misurarne ossessivamente la modernità, quanto piuttosto nel capire che ci si trova di fronte a un recupero della physis all’interno di un processo, indubbiamente moderno, di emancipazione dalla teologia. Ecco perché in tal modo si dà un nuovo inizio dell’origine, ossia di quella physis che è stata al centro del più arcaico pensiero greco (e che, per inciso, è al centro anche del lavoro da tempo portato avanti da Giovanni Sessa). Mi sembra, insomma, che si adatti bene anche a Vanini il giudizio su Telesio espresso da Andrea Suggi nel suo recentissimo La filosofia del Rinascimento (Carocci, 2023, p. 263), ovvero quello di essere stato “prezioso anello di congiunzione tra gli ‘antichi’ – i presocratici che hanno vissuto nelle poleis greche delle coste del Sud Italia – e i ‘moderni’ che anche grazie al suo lavoro hanno riportato a nuova luce il pensiero degli antichi sapienti restituendo impulso e originalità alla riflessione filosofica”. Per una physis mediterranea e meridiana, sensoriale e vitalista, continuamente rinnovantesi nella sua immanenza, lontanissima dal freddo grigiore delle smorte, astruse astrattezze di qualsivoglia scolastica.
Giovanni Damiano