Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Black Parthenope – Luigi Angelino
Black Parthenope è il titolo di una pellicola cinematografica del 2021, quasi interamente ambientata nella Napoli sotterranea, una delle estensioni territoriali nelle viscere della terra più estese dell’intero pianeta e che può vantare un’età di circa cinquemila anni, almeno nell’ambito del periodo storico accertato. Lo stesso titolo del film intende unire la tradizione alla modernità, un aggettivo inglese che accompagna l’antica denominazione della metropoli campana, così intrisa di rievocazioni classiche e mitologiche (1). La pellicola, prodotta da Alessandro Giglio, nonostante alcune critiche sulla difficile caratterizzazione dei personaggi, è stata premiata come miglior film thriller e miglior fotografia al HIFF- Heart International Italian Film Festival nel 2021 ed ha avuto l’ambizione ed il merito di scegliere una location di primissimo piano, facendo scoprire al grande pubblico internazionale le meraviglie ed i misteri della Parthenope sommersa.
Quando parliamo di “Napoli sotterranea”, in linea generale, ci riferiamo ad una rete labirintica di cunicoli, cavità, grotte e vicoli che si trovano nel sottosuolo, formando un’altra vera e propria città, quasi si trattasse dello “specchio oscuro” dell’agglomerato urbano situato in superficie. Il cuore della città sotterranea si estende al di sotto dell’intero centro storico, rappresentando una progressiva stratificazione di diverse epoche culturali, a cui appartenevano i miti e le leggende, successivamente modificati e trasfigurati nelle credenze popolari. Ovviamente soltanto una parte della città sotterranea è accessibile ai visitatori e gli archeologi ritengono che via sia un’estesa area ancora del tutto inesplorata. Al giorno d’oggi si ritiene che le cavità conosciute misurino circa 900.000 metri quadrati, di cui soltanto una modesta porzione è di origine naturale, senza l’intervento cioè dell’ingegno umano (2). La doverosa valorizzazione artistica degli ultimi anni ha creato i presupposti per l’apertura di diversi percorsi d’accesso agli ambienti sotterranei, compresi gli ex ricoveri antiaerei drammaticamente frequentati durante la seconda guerra mondiale. Tra queste oniriche vie d’accesso, spiccano gli ingressi che si trovano in Piazza Trieste e Trento ed in Piazza San Gaetano, dove si può visitare l’acquedotto greco-romano ed il rifugio in Via Sant’Anna di Palazzo nel quartiere Chiaia. Il materiale roccioso che compone il sottosuolo partenopeo deriva da una tra le più violente eruzioni vulcaniche mai verificatesi nel Mar Mediterraneo. Si pensa che questa terribile eruzione sia avvenuta circa 39.000 anni fa, chiamata “caldera dei Campi Flegrei” (3) oppure “eruzione dell’ignimbrite campana”. Lo scoppio fu così imponente che alcune ceneri sono state ritrovate perfino nel Mar Egeo e nel Mar Nero. In più, si ritiene che l’apocalittica eruzione avesse interrotto il ciclo vitale nel raggio di oltre 100 Km, determinando anche perturbazioni climatiche di vasta portata.
Le prime tracce di scavo risalirebbero ad un’epoca davvero remota, quasi preistorica, più o meno 5000 anni fa. Tuttavia, gli studiosi hanno appurato che i primi cunicoli di notevoli dimensioni furono costruiti in epoca ellenica, intorno al III secolo a.C.. Gli scavi erano favoriti dalla particolare duttilità della roccia che si prestava ad essere adoperata come materiale di costruzione. In età romana, la Napoli sotterranea visse un periodo di grande sviluppo, grazie alla costruzione di un’imponente rete di acquedotti che, in gran parte, possono ancora essere ammirati. Grazie a questi antri sotterranei, le fontane e le abitazioni del ceto più ricco potevano attingere direttamente all’acqua potabile. Durante i lavori di manutenzione, sono state notate perfino alcune tracce di intonaco idraulico che i Romani, con una tecnica quasi moderna, usavano per rendere più efficienti le condotte d’acqua.
Tra le meraviglie della Napoli sotterranea, vi è un luogo di grande interesse archeologico: si tratta di una porzione del Teatro Greco Romano, a cui fa riferimento, in una delle sue lettere, anche il poeta latino Stazio. Ad evidenziare la presenza dei resti del teatro nel sottosuolo, percorrendo via Anticaglia, si possono scorgere due imponenti arcate che, in epoca romana, servivano come rinforzi esterni del luogo di spettacolo. In più, in Vico Cinquesanti, nei pressi dell’antico foro, diventata oggi giorno Piazza San Gaetano, si ammira una piccola parte del precitato teatro, ovvero uno spazio di 150 metri che comprende ciò che rimane della “summa cavea” della struttura, ossia l’anello superiore della gradinata che ospitava il pubblico (4).
La fantasia partenopea ha creato nel sottosuolo i cosiddetti “orti ipogei”, un’iniziativa maturata durante l’Expo 2015, nell’ambito di un progetto complessivo dedicato alle risorse del nostro pianeta. A circa 35 metri di profondità sono state collocate piccole coltivazioni di diverso genere, in un ambiente che potrebbe sembrare, a prima vista, del tutto inospitale ma che, trovandosi lontano dalle polveri e dallo smog della superficie, riesce a svilupparsi in maniera rigogliosa. Gli orti sono visibili ai visitatori ed offrono, nello stesso tempo, a studenti e botanici la possibilità di verificare la crescita delle piante, in assenza di luce naturale. Per sopperire alla mancanza dei raggi solari, sono state posizionate specifiche lampade in grado di stimolare la fotosintesi clorofilliana (5). Un’altra interessante espressione del progresso scientifico, osservabile nel sottosuolo partenopeo, è rappresentata dalla stazione sismica “Arianna”, dove vengono registrati i frequenti movimenti tellurici con una frequenza di circa tre minuti, in una zona in cui il rischio di terremoti è fra i più alti di Europa.
Percorrendo il lungo “tunnel borbonico”, riscoperto solo di recente, nel 2005, si attraversa la collina di Pizzofalcone, passando dal Palazzo Reale situato in Piazza Plebiscito fino a Piazza Vittoria. La grotta costituisce un vero e proprio percorso strategico ideato dal re Ferdinando IV di Borbone (6), che doveva servire come veloce via di fuga per le truppe. Le cavità del tunnel furono adoperate come rifugi per proteggersi dai bombardamenti, nel corso della seconda guerra mondiale. I visitatori possono ancora ammirare i resti di alcune autovetture d’epoca, statue ed oggetti di valore che le persone impaurite portavano con sé durante gli attacchi esterni. In epoca cristiana, molte zone del sottosuolo furono adibite al discusso e controverso uso di “catacombe”, come quelle di San Gennaro e di San Gaudioso che si trovano sotto al Rione Sanità e che risalgono al II secolo d.C.. Molte immagini del Cristianesimo primitivo sono ancora ben visibili: mosaici, graffiti ed affreschi, tra cui la celebre raffigurazione chiamata “la morte vince tutto”che, secondo alcune voci popolari, avrebbe ispirato Antonio de Curtis, meglio conosciuto come Totò, nella composizione della “Livella”. Di grande impatto è l’osservazione degli scolatoi, cioè le nicchie dove i becchini, chiamati “schiattamuorti” facevano in modo che i cadaveri perdessero i liquidi, per consentire loro un’adeguata sepoltura. E sempre sotto al vasto Rione Sanità, il cuore di Napoli, sono venuti alla luce notevoli ipogei della necropoli ellenistica che stupiscono gli studiosi per l’integro stato di conservazione e che, tuttora, si impongono come uno degli esempi più significativi di complesso tombale greco dell’intero bacino del Mediterraneo (7).
Tra i percorsi più suggestivi, vi è senza dubbio quello che attraversa il Cimitero delle Fontanelle che rivela, in maniera originale ed inequivocabile, il profondo legame tra i cittadini di Napoli e la dimensione dei defunti (8). La denominazione del luogo evidenzia la presenza, in un lontano passato, di fonti d’acqua che erano collegate con la superficie. Il cimitero conserva i resti di circa 40.000 persone, di cui la maggior parte sarebbe stata vittima delle terribili epidemie di peste nel 1656 e di colera nel 1836. Ma, secondo gli studiosi, sotto all’attuale piano di calpestio, vi sarebbero ossa per almeno altri 4/5 metri di profondità, disposte in maniera sistematica dai becchini professionali che si sono succeduti nei secoli. Questo luogo inquietante è noto, in particolare, perché veniva praticato un rituale derivante dal folclore popolare, chiamato delle “anime pezzentelle” che prevedeva una sorta di scambio di protezione: il soggetto si prendeva cura, con apposita sistemazione, di un cranio (la cosiddetta “capuzzella”), a cui corrispondeva una presunta anima abbandonata, appunto chiamata “pezzentella”. Il culto delle “anime pezzentelle” è stato motivo di imbarazzo per la Chiesa Cattolica che considerava feticista e pagano il rapporto di venerazione che si instaurava tra i fedeli ed i crani rinvenuti. E’ superfluo ricordare che, invece, i rituali di carattere “feticista”, almeno nella pratica popolare, sono stati sempre incoraggiati dalla Chiesa, come dimostrano gli innumerevoli esempi di esposizione delle presunte reliquie di santi e di beati. Negli anni Sessanta, il cardinale di Napoli, il tradizionalista Corrado Ursi, su iniziativa del parroco della chiesa delle Fontanelle, ottenne un decreto del Tribunale ecclesiastico che proibì il culto individuale delle “capuzzelle”, disponendo che fosse celebrata una messa ogni mese a favore delle anime del purgatorio e che fosse eseguita, all’interno del cimitero, una processione annuale nel giorno della commemorazione dei defunti, il 2 novembre. Viene da pensare che la preoccupazione principale della curia locale fosse diretta a motivazioni legate al controllo sociale dell’area. Tuttavia, il graduale abbandono del culto non è tanto da addebitare all’intervento ecclesiastico, quanto alla modernizzazione dei costumi da parte delle nuove generazioni. Il cimitero fu sistemato nel 2002, ma riaperto al pubblico in sporadiche occasioni, come durante le manifestazioni, ormai divenute consuete, del Maggio napoletano. Circa otto anni dopo, nella primavera del 2010, l’Amministrazione comunale si è decisa a riaprire questo misterioso ed affascinante sito, dopo un’occupazione, peraltro pacifica, da parte degli abitanti del Rione Sanità. Da quel momento, il Cimitero delle fontanelle è diventato accessibile al pubblico, rappresentando uno dei simboli più enigmatici della Napoli nera.
Il rituale che si svolgeva nel Camposanto delle Fontanelle prevedeva un cerimoniale ben collaudato. Il cranio era pulito per bene ed adagiato su fazzoletti ricamati, vicino a lumini e a fiori di diverso colore. I fedeli, per lo più di sesso femminile, davano molta importanza al sogno, credendo che le anime dei teschi, oggetto di devozione, si potessero rivelare durante il sonno, manifestando gratitudine alla persona che le aveva scelte, magari suggerendo numeri della lotteria o segni in grado di risolvere gravi problemi. Ma, attenzione! Qualora l’anima prescelta non desse l’aiuto sperato, il devoto si sentiva autorizzato ad abbandonare il teschio e a rimpiazzarlo con uno dei tanti altri sparsi nel cimitero (9). Risulta evidente come la devozione napoletana, favorita dall’interpretazione dei sogni, si ponga in perfetta continuità con le esperienze mistico-oniriche del mondo antico. Nella cultura greca e romana la comprensione dei significati dei sogni, dei prodigi o di altri segni spettava ad aruspici o sacerdoti, così come a Napoli, nel corso del tempo, è stata affidata a “persone speciali”, ritenute capaci di decodificare il simbolismo onirico, come i maghi o le fattucchiere. Se nell’antichità il più conosciuto manuale per interpretare i sogni era stato il testo di Artemidoro (10), i testi canonici per i giocatori del “Lotto” napoletani diventarono la “Smorfia” ed il “libro dei sogni” dove si ritiene che si possano trovare tutte le chiavi di lettura utili per tradurre le immagini o le situazioni sognate in numeri, seguendo quasi un procedimento di natura cabalistica.
Sui teschi conservati nel cimitero, si raccontano innumerevoli leggende, ma una in particolare ha attratto la mia attenzione, durante l’ultima visita. Si tratta di “donna Concetta”,meglio conosciuta come ‘a capa che suda. Il teschio, oggi conservato in una teca, ha meritato questa fama, per la particolarità del suo aspetto “lucido”. A differenza degli altri crani che presentano sempre strati di polvere, quello di Donna Concetta appare liscio, forse perché si adatta meglio all’umidità del luogo. Gli antichi devoti avrebbero attribuito questa caratteristica al “sudore delle anime del Purgatorio”. L’oscuro sito comprende anche una chiesa interna, dove si trovano gli unici due scheletri pressoché integri del cimitero, con indosso ancora i vestiti d’epoca. Le spoglie sono attribuite a due nobili del diciottesimo secolo, i duchi di Maddaloni, Filippo Carafa conte di Cerreto e sua moglie, Donna Margherita. Sulla signora, il cui cranio si è conservato mummificato, la dicerìa popolare ha tramandato che fosse morta, perché soffocata da uno gnocco, come la bocca aperta potrebbe lasciar intendere. Nella chiesa, inoltre, vi è l’interessante statua di “Cristo deposto”, una raffigurazione che intende quasi imitare il più famoso Cristo velato eseguito da Giuseppe Sanmartino, che costituisce l’attrazione principale dell’esoterica Cappella di Sansevero.
Il thriller citato in apertura, Black Parthenope, nell’incubo che imprigiona i protagonisti nelle viscere della terra, tra folklore e denuncia della spregiudicata speculazione edilizia, porta sul grande schermo il mito del “munaciello”, rendendolo visivamente una variante un po’ confusa della versione originaria. Nella tradizione napoletana, ‘o munaciello , traducibile in “piccolo monaco”, è una specie di spiritello, con intenzioni sia benefiche che malefiche, solitamente rappresentato come un giovinetto basso e deforme, abbigliato con un saio, a cui si aggiunge il particolare delle fibbie argentate sulle scarpe. Gli storici fanno risalire la leggenda del “munaciello” a due tradizioni principali (11). La più seguita è quella riportata dalla grande scrittrice Matilde Serao nel suo libro “Leggende napoletane”(12). Secondo la Serao, l’origine del racconto del “munaciello” si legherebbe ad un personaggio realmente esistito alla metà del quindicesimo secolo, quando a Napoli regnava Alfonso d’Aragona. Si narra di un amore impossibile e fortemente osteggiato tra una certa Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante, ed un povero garzone Stefano Mariconda. Durante uno degli incontri clandestini dei due amanti, il garzone fu assalito da sconosciuti e gettato nel vuoto, proprio sotto gli occhi della giovane fidanzata. Caterinella, che era in stato interessante, pregò affinchè l’accogliessero in un convento della zona, dove però partorì, al termine della gestazione, un bambino piccolo e deforme. Le condizioni del bambino peggiorarono con la crescita, nonostante la madre avesse chiesto alla Madonna la grazia di rendergli una salute analoga a quella dei coetanei. Per continuare a sperare in un miracolo, Caterinella, in maniera superstiziosa, iniziò a vestirlo con un abito da monaco, suscitando il disprezzo e la volgare ilarità di quelli che lo osservavano aggirarsi per le strade del quartiere del porto. Dopo la morte della madre, la sorte del “munaciello” peggiorò ancora di più, in quanto gli vennero attribuite le cause delle principali sciagure della città, assurgendo al ruolo di totem di sfogo del malcontento del popolino. Quando scomparve misteriosamente, fu perfino diffusa la voce che era stato portato via dal diavolo. Ma Matilde Serao, in maniera più realistica, sostenne che tempo dopo furono ritrovate in una cloaca alcune ossa che potevano corrispondere a quelle di un soggetto di bassa statura, da identificare, con ogni ragionevole probabilità, col “munaciello”. Probabilmente, secondo la scrittrice, i parenti della madre decisero di farlo assassinare per evitare ogni motivo di imbarazzo con i concittadini. L’altra ipotesi vuole che il “munaciello” fosse l’antico gestore dei pozzi d’acqua che, grazie alla sua piccola statura, riusciva ad intrufolarsi nelle case passando mediante i canali che servivano a calare il secchio. Questa è grosso modo la versione sposata dagli ideatori del film Black Parthenope e che lega la leggendaria figura al sottosuolo napoletano. Si narra che spesso i “pozzari” non venivano pagati dai loro committenti e che si vendicassero, introducendosi nelle loro dimore per rubare oggetti preziosi che poi donavano alle loro amanti. Da qui la tradizione del “munaciello” che a volte ruba e a volte dona. In linea generale, comunque, si può dire che il “munaciello” è indicato come un esperto della Napoli sotterranea, una sorta di spirito guida che tende ad esorcizzare le paure dell’ignoto e dell’imprevedibile.
Alla enigmatica ed oscura tradizione del “munaciello”, si opponeva, in un certo senso, la leggenda della “bella ‘mbriana”, che svolgeva il ruolo di proteggere un luogo, una casa, una famiglia e, talvolta, un individuo. La figura è senza dubbio derivante dalle consuetudini delle società arcaiche, quando era diffusa la credenza dell’esistenza dei “Numi tutelari”, dai Romani denominati “Lari”, “Penati”, o “Mani”, a seconda della specifica funzione di protezione svolta ma che, comunque, tendevano ad impersonare gli spiriti dei defunti, in particolare quelli degli antenati (13). La “bella ‘mbriana” è, secondo la tradizione, uno spirito benefico, ma esige rispetto e venerazione, nonché controlla, in maniera intransigente, l’ordine e la pulizia del luogo che protegge: una mancata osservazione delle regole può comportare che per ripicca si vendichi, provocando la morte di una persona cara. La denominazione dello spirito in questione richiama la meridiana, simbolo del sole e, pertanto, in maniera traslata si riferisce al calore domestico ed ai valori familiari.
La Napoli sotterranea, una città sotto la città, appare davvero come una realtà impressionante, un fittissimo labirinto di minoica memoria, formato da cave, gallerie. ipogei, canali, acquedotti e passaggi ancora inesplorati. Osservando con attenzione le pareti di questi oscuri antri, non limitandoci alla superficiale cura dei turisti occasionali, è possibile notare, incisi nella pietra, i caratteristici segni degli antichi “pipernieri”, detti anche “tagliamonti”, che appartenevano ad un’antica confraternita, la cui esistenza è attestata ancora in epoca barocca. Queste incisioni appaiono, a prima vista, come il disegno di una picozza, di cunei, o di altri strumenti adoperati per ricavare le pietre dalle pareti rocciose, ma spesso si mostrano come geroglifici di complessa decifrazione. Entrando nel sottosuolo napoletano dall’ingresso di Sant’Anna di Palazzo, in cima alla scaletta che si inabissa nelle viscere della terra, si nota un segno, disseminato anche in altri luoghi, che evidenzia una stella che brilla su un monte triangolare. Nella metropoli partenopea, questi segni, che potremmo definire “lapidici”, quasi esprimessero ideali ed enigmatiche tracce di un alfabeto iniziatico, sono incise anche in superficie, come si può scorgere sugli imponenti massi di pietra delle vetuste mura cittadine, ancora oggi in Piazza Bellini o nei pressi di Piazza Cavour. L’usanza dei “lapidici” risale ad una pratica messa in atto dai “Liberi Muratori” che si occuparono dell’edificazione delle chiese romaniche e delle cattedrali gotiche, ma si eclissò progressivamente tra il tardo medioevo e l’inizio dell’età moderna. A Napoli, invece, questa usanza sopravvisse anche dopo, come dimostra in maniera inequivocabile la facciata della Chiesa del Gesù Nuovo, con i segni ritrovati sulle bugne a punta di diamante, lavorate nella seconda metà del quindicesimo secolo. Queste bugne facevano parte originariamente del palazzo dei principi di Sanseverino, confiscato e venduto ai Gesuiti nel 1577 (14) che lo fecero demolire per costruire la loro chiesa. Analizzando con attenzione le bugne, si nota che su ciascuna di essa è inciso uno strano segno, reso ancora più suggestivo quando il sole illumina la facciata della chiesa. Secondo gli studiosi, questi segni (circa una ventina) potrebbero comporre i caratteri di un alfabeto sconosciuto, con significati magici ed alchemici (15).
La Napoli sotterranea si estende ben oltre i perimetri cittadini, allungando le proprie ramificazioni nelle più disparate direzioni, soprattutto verso nord, cioè verso l’affascinante zona dei Campi Flegrei. Fu nell’epoca di Augusto che gli intrepidi ingegneri Romani realizzarono la Crypta Napoletana, collegando la città ai Campi Flegrei, nonché scavando la Grotta di Seiano e le gallerie che univano l’Acropoli di Cuma al lago d’Averno ed al lago Lucrino. Nel progetto di certo pesarono esigenze di carattere strategico e militare, ma non si possono trascurare gli stimoli derivanti dalla profonda suggestione di quella realtà oscura che si contrapponeva all’aspetto solare e ridente della superficie. Secondo la leggenda, il lago d’Averno costituiva l’ingresso per il mondo degli Inferi e qui, inoltre, era insediato il mitico popolo dei Cimmeri, un tenebroso “popolo delle nebbie” che non poteva tollerare la luce solare e che abitava in dimore costruite nella roccia nel sottosuolo, collegate fra loro da un complesso sistema di viuzze. La leggenda dei Cimmeri è strettamente legata al mito che vede nel lago d’Averno l’ingresso nel mondo dell’oltretomba, tanto è vero che si narra che questo popolo gestisse un santuario, dove anche gli stranieri potevano essere ammessi per consultare “l’Oracolo dei Morti” (16).
La Crypta napoletana, in particolare, chiamata anche “Grotta di Posillipo” o “Grotta di Virgilio” custodisce la tomba di Giacomo Leopardi e quella soltanto presunta di Virgilio. La leggenda vuole che la galleria sia stata realizzata dal poeta romano in una sola notte, grazie alle sue straordinarie doti magiche, credenza che favorirà nei secoli del medioevo un vero e proprio culto del popolo partenopeo nei confronti di Virgilio, considerato un mago con poteri soprannaturali. Petronio (17) testimonia che la crypta, nel I secolo d.C., era dedicata a Priapo, il dio della fertilità, di cui si cercava di propiziare i favori, organizzando cerimonie misteriche e riti orgiastici, sulla scia di rituali ancora più antichi in onore di Afrodite, attestati in età ellenistica, durante i quali spose infeconde venivano coinvolte in pratiche con componenti sessuali. Tuttavia, durante gli scavi avvenuti nel corso della dominazione spagnola, è emerso un bassorilievo che raffigura “Mitra Tauroctono” tra il sole e la luna, la cui esecuzione è datata tra il III ed il IV secolo d.C.. Oggi il bassorilievo è conservato presso il Museo archeologico nazionale di Napoli, uno dei centri di raccolta di oggetti antichi più famosi di Europa. Gli studiosi, pertanto, hanno ipotizzato che la “crypta” fosse utilizzata come “mitreo”, dove si procedeva a venerare Mitra e la divinità di origine egizia, a cui erano stati aggiunti elementi greco-romani, di Helios-Apollo-Sol Invictus. Ancora più sorprendente è il fatto che la galleria era orientata in modo che, agli equinozi, il sole fosse allineato in maniera simmetrica tra i due ingressi, sia all’alba che al tramonto. Lo spettacolo, che ciò comportava, assumeva caratteristiche oniriche: la grotta, di solito dominata da un buio totale, appariva luminosa e splendente alla luce del sole. Lo sviluppo del cristianesimo portò all’abolizione del culto di Mitra ed alla sostituzione dei simboli classici con quelli della nuova dottrina religiosa. Sul sacello di Priapo, si sviluppò il culto della “Madonna Odigitria”(18) che, ancora oggi, si conserva affrescata nella galleria. La devozione alla Madonna culminò con la costruzione della chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, proprio davanti all’ingresso della grotta. Fa quasi sorridere pensare che il culto di una “madre vergine” abbia sostituito la devozione di un dio “simbolo della fertilità”, le cui “piccanti” raffigurazioni scultoree sono ben note in ambito romano. I riti e le tradizioni, sinteticamente descritti, sono di certo alla base della cosiddetta “Festa di Piedigrotta”, una variante carnevalesca di matrice partenopea, diffusasi in età moderna, che si svolge con cadenza annuale nella prima decade di settembre.
Come per Cecile, giovane ereditiera protagonista del film Black Parthenope, un viaggio nella Napoli sotterranea ha un valore sia concreto che metaforico: per trovare una via d’uscita da quel luogo surreale, formato da spazi impenetrabili dove non filtrano mai i raggi del sole, è necessario confrontarsi con la propria personalità scavando nel più profondo inconscio. Ma nel buio resta sempre in agguato una misteriosa figura incappucciata, che rappresenta l’ineluttabilità del destino cui si va incontro, sospesa tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra il bene ed il male, tra il sacro ed il profano, nella migliore tradizione sincretica partenopea.
Note:
1 – Il film è uscito nelle sale cinematografiche nel mese di giugno dell’anno in corso;
2 – V. Alberini ed A. Baldi, Napoli il Sottosuolo, Ed. ABC, Milano 2008;
3 – Gli studi recenti sul “radon” emesso dal sottosuolo dei Campi Flegrei ha rivelato che l’area occupata dal “supervulcano” è molto più estesa di quanto si pensasse in precedenza;
4 – A.E. Piedimonte, I segreti della Napoli sotterranea. Storia e misteri della città parallela, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2017;
5 – Il microclima degli orti sotterranei è monitorato in maniera costante e messo in relazione con i parametri di rilevazione esterni;
6 – Ferdinando di Borbone è stato re di Napoli, con il nome di Ferdinando IV, nella seconda metà del diciottesimo secolo e nel primo scorcio del diciannovesimo;
7 – Giovanni Liccardo, Napoli sotterranea, New Compton Editori, Roma 2019;
8 – A.E. Piedimonte, Il cimitero delle Fontanelle. Il culto delle anime del purgatorio e il sottosuolo di Napoli, Edizioni Electa, Napoli 2003;
9 – M. Nola, Il Purgatorio a Napoli, Meltemi editore, Milano 2003;
10 – Artemidoro, a cura di Dario Del Corno, biblioteca Adelphi, Milano 1975;
11 – C. Allocca e G. Enrico, ‘O Munaciello, Storia e storie di uno spiritello napoletano, Ed. Pironti, Napoli 2003;
12 – Il libro fu pubblicato nel 1881;
13 – S.E.F. Hobel, Misteri Partenopei. Dei e culti antichi nella città del sole e della sirena, Stamperia del Valentino, Napoli 2004;
14 – Il palazzo fu confiscato, quando Ferrante di Sanseverino fu esiliato, perché fermo oppositore della dominazione spagnola;
15 – Per “bugna” si intende quel tipo di pietra che viene lasciata sporgere da un muro, per scopi ornamentali o di rivestimento;
16 – L’antico mito, secondo cui i Cimmeri dimorassero nei pressi del lago d’Averno, è riportato da Strabone e confermato da Plinio;
17 – Petronio, Satyricon, XVI;
18 – Per “Madonna odigitria”, si intende “colei che mostra la giusta via” o “che guida” (dal greco-bizantino odòs-via ed àgo-guidare).
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense ed un master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nei primi mesi del 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 7 volumi (Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio). In precedenza con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; i thriller filosofici “La redenzione di Satana I-Apocatastasi” e “La redenzione di Satana II- Apostasia”; il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers” ; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”; una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Di recente è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.