AUCTORITAS: la parola, l’origine, il suo significato nella cultura giuridico – religiosa romana – Giandomenico Casalino
Il pensiero non è qualcosa di astratto, lontano dall’antropologia e dalla storia né dal linguaggio: si pensa in una lingua e per conoscere il pensiero ivi espresso è necessario conoscere quella lingua. Pertanto siamo della convinzione che i principi di una indagine scientifica, che sia di natura storico-religiosa o filosofico-giuridica, devono appartenere tanto al campo filologico quanto a quello semantico ed etimologico. Quindi studio e conoscenza del testo (filologia), significato ed origine delle parole (semantica ed etimologia) devono essere poste alla base anche del discorso che ci accingiamo a sviluppare e che ha per oggetto la parola autorità. Certamente non mancherà chi osserverà che questo termine, nel significato posseduto nell’area delle lingue dell’occidente (tutte di derivazione indoeuropea), sembra non aver da porre molti problemi, sotto il profilo storico-giuridico, allo studioso che vi dovesse riflettere. É di dominio comune, infatti, che la parola significhi: potere, fonte del comando. È necessario però evidenziare un fatto singolare, e cioè che essa deriva dal latino Auctoritas e quindi, tutte le lingue dell’occidente l’hanno ereditata dalla lingua dei Romani. Qui risiede la causa della apparente unicità e semplicità semantica della stessa. Così non è per le origini! E così non è nemmeno, a ben riflettere, per il termine nella sua contemporanea attualità. La cultura europea, in senso lato, ha infatti ricevuto tale parola dal latino, con tutta la sua carica di significato, ma ciò è restato qualcosa di non pensato o di inesprimibile quale arcana imperii o mistero del potere. L’origine potrà, forse, svelarci qualcosa intorno a tale “mistero”!
Il celebre filologo classico Richard Heinze nel 1925 pubblicava un saggio dal breve titolo Auctoritas (in Hermes, 60, 1925, pp. 348-366) dove indagava, per la prima volta in quei termini, la singolarità e la unicità della parola nella lingua latina e la sua effettuale intraducibilità nelle altre lingue alla stessa contemporanee, in primis la greca. Infatti lo Heinze evidenziava la esistenza di una singolare circostanza: la lingua greca non possiede un termine paragonabile al latino auctoritas. Ciò nonostante, noi oggi traduciamo dal greco credendo di riscontrare quel termine, commettendo pertanto un errore culturale di enorme gravità. Infatti, così facendo, priviamo la nostra capacità di comprensione di accedere alla nozione fontica della nostra stessa esistenza storica. Dobbiamo chiederci, infatti, qual è il significato del fatto che auctoritas fosse (ed è!) intraducibile in greco? Perché la lingua greca, che è l’altra fonte, insieme al latino, della intera cultura europea, non possiede un termine con l’analogo semantema di quello latino? Tutte le nostre scienze, da quelle umanistico-filosofiche a quelle fisico-biologiche nonché matematiche esistono e vivono in virtù della linfa che proviene loro dalla lingua, dalla cultura e dalla straordinaria spiritualità Greca. Vi è però un’altra colonna su cui l’esistenza culturale dell’Europa poggia da oltre duemila anni ed è quella Romana, è quella del campo semantico del linguaggio giuridico-religioso dei Romani che ci è pervenuto in eredità, malgrado la nostra incurante conoscenza dello stesso e quindi la totale assenza di cura nei suoi confronti (la parola cura è da intendersi nel significato dato alla stessa dalla riflessione dello Heidegger, cioè nel senso di “attenzione del pensiero”, “conservazione rispettosa della essenza della cosa [sache], lasciandola essere ciò che è…”).
I greci traducevano e “tradivano” la parola auctoritas servendosi di due parole, l’una è exousìa e l’altra è axìoma. Mentre quest’ultima (che è l’assioma italiano) è più vicina al latino dignitas e, pertanto, è altro tanto dal nostro autorità quanto da auctoritas, l’analisi dell’origine della prima è più interessante. Infatti la parola risulta composta da ex e da un sostantivo astratto che è ousìa, derivato da oùsa, participio femminile del verbo eimì, che significa “essere”. La ousìa è pertanto “l’essenza”, in combinazione con ex assume il significato di “risorsa”, “possibilità”, “facoltà”. Da ciò si può concludere che la parola vuol dire in greco: “avere la possibilità”, “vi è la facoltà”, insomma esprime l’idea dell’ “è possibile” (vedi Platone, Simposio, 182 c: “exousìa ò nòmos, dèdoke…”, “la legge dà la possibilità”; Demostene, Sulla corona, 18, 44: “epì tè tès eirènes exousìa”, “in base alla possibilità offerta dalla pace”). In latino tutto ciò può essere tranquillamente versato nella formula “copia est” nel significato: “vi è facoltà, possibilità” di compiere una certa azione (vedi Plauto, Epidico, 162: “Non enim nunc tibi dormitandi neque cunctandi copia est”, “adesso non hai la possibilità né di dormicchiare né di esitare”) (1) . Siamo, quindi, assolutamente lontani dall’essere anche tangenzialmente entrati nel significato della parola auctoritas, che, come è noto, vuol dire altra cosa… È giunto il momento di tentare di rispondere al quesito posto innanzi e cioè quale sia la ragione, la causa di tutto ciò? Se si riflette, e lo facciamo alla luce di tutti i nostri studi che negli ultimi anni abbiamo pubblicato intorno alle tematiche relative alla cultura giuridico-religiosa romana, la risposta ai quesiti di cui sopra è infatti ivi evidente. Avendo il Romano creato il diritto come scienza, anche quello che noi chiamiamo “Pubblico”, è conseguenziale la sussistenza del fatto linguistico, che è sempre espressione di una visione del mondo, relativo alla esclusiva ed originaria natura insita nella parola auctoritas, nel mondo romano. La peculiarità e la unicità della stessa sono analoghe a tante altre presenti nel linguaggio giuridico-religioso romano, anch’esse intraducibili o poco traducibili, per esempio in greco, quali: Res Publica, Imperium, Fas, Ius, Lex, Potestas, Jurisdictio ed altre. Il mondo spirituale romano è, pur appartenendo alla comune famiglia indoeuropea, radicalmente diverso da tutti gli altri, per la semplice ragione che il Romano, a differenza dei suoi cugini (Greci, Germani, Celti, Indiani, Slavi) ascolta, vede e per l’effetto agisce nei termini in cui la legge è la natura ordinata in cosmo (per tutta la restante famiglia indoeuropea, invece, il principio spirituale è: la natura è la legge ordinata in cosmo) (2). Pertanto il Romano pensa in termini giuridici! Anche se per tentare di comprendere tutto ciò, oggi, è necessario che si abbia in mente che quello che noi chiamiamo Diritto per il Romano è il complesso di formule (Ius), secondo i Riti degli antenati (mores majorum), che si poggiano su di una assise mistico-religiosa (Fas) e che tanto la Lex quanto lo Ius civile e la Res Publica sono realtà sacre e giuridiche al tempo stesso, distinguibili ma non separabili, cioè realtà giuridico-religiose. “…Il sacro primeggia sul politico, lo precede e lo fonda… ma al tempo stesso, i sacerdoti e gli Déi sono subordinati al potere dei magistrati… limitandoci ad osservare come il politico non fosse assolutamente autonomo rispetto al religioso…” (J. Scheid, La religione a Roma, Bari 1983, pp. 58 ss.)
La forma mentis alla base di tale cultura è magica (3), nel senso che il comando (imperium), la parola, la formula, il rito, la lex publica, la “potenza” mistica di cui sono portatori un’istituzione, il magistrato o un collegio sacerdotale, creano la realtà in guisa tale da essere così voluta dal Romano, la caricano di una forza (Virtus) generatrice di legittimità. In altra sede (4) già abbiamo posto la differenza tra la visione greca che è quella del dato come voluto e quella romana del voluto come dato. Infatti, se la spiritualità romana è attiva, cioè entra nel mondo agendo ritualmente (rito giuridico-religioso) per ordinarlo secondo quanto prescrivono il Fas (la base religiosa del Diritto), il mos majorum (i riti degli antenati), il Jus civile, la Lex Publica (il Jussus [comando] del Popolo convocato rite et auspicato nei Comitia) è conseguenziale il fatto storico, a noi evidente, che la Romanità abbia creato il concetto stesso di Civitas che è anteriore e superiore, sia in termini logici che ontologici, nei confronti del Civis; diversamente dal mondo greco dove la politèia e la pòlis (l’ordinamento politico e lo Stato) sono concetti derivati da polités (il cittadino). In altri termini, il romano vede e riconosce innanzitutto ed anteriormente a tutto, la Civitas, che è l’insieme degli Jura e dei Mores nella loro intrinseca pubblica sacralità, essendo il Civis ed i Cives realtà derivate dalla stessa e costituite, create da essa.
Qui risiede la ragione per cui la Civiltà Romana ha elaborato ed attuato, con straordinario successo per oltre mille anni e con il consenso genuino di sterminati popoli, la più sofisticata ed al contempo elastica dottrina dello “Stato”, e dell’ordinamento politico (che è sempre giuridico-religioso). Di conseguenza il Romano ha visto ciò che gli altri popoli non hanno nemmeno immaginato che potesse esistere: non il semplice “potere” (che è nozione elementare, posseduta da sempre dall’uomo quale animale sociale…), ma la cura magico-giuridica e carismatica dello stesso come accrescimento-arricchimento della sua esplicazione ed effettualità coattiva nella Civitas, che trasferisce e dona alla stessa ed ai suoi istituti la potenza legittimante e la capacità di essere secondo l’ordinamento. Tutto ciò noi, in guisa limitativa e deviata, lo definiamo: intelligenza politica, senso dello Stato, culto della legge, concezione organica della comunità a cui è riconosciuta la primazia assoluta sui componenti della stessa, ma che con i medesimi si identifica in termini radicalmente concreti: Res Publica = Res Populi! (5). Noi, dunque, arriviamo ad affermare solo quanto sopra ed è già tanto! Memori però dell’insegnamento di un Maestro quale Emilio Betti(6), in termini propri di corretta ermeneutica del sentire giuridico-politico della cultura romana, è necessario che, con l’ausilio delle nostre attuali categorie intellettuali, si cali tutto il discorso di cui sopra in un contesto essenzialmente cultuale, cioè rituale e, quindi, religioso, dove sappiamo che per il Romano ciò che noi definiamo “religione” è sostanzialmente: attenta e rispettosa osservazione dei segni che provengono dagli Dèi (Pietas) e scrupolosa esecuzione dei Riti giuridico-religiosi così come la Tradizione degli antenati (Mos Majorum) ha disposto che fossero eseguiti (colere Deos). Che tale realtà sia tutt’uno tanto con il Politico, come officium (obbligo per il cittadino di…) per l’attuazione del bene comune, quanto con il Giuridico, come scienza e conoscenza degli Jura nei quali i Cives consensualmente si riconoscono, è precipuo e caratteristico di tutte le civiltà tradizionali o pre-moderne (7) , ma è, nella Romanità, sentita e vissuta come fondante la stessa Urbe e il suo destino, che risiede nella dimensione del Divino, del Sacro, quale virtus che dona benessere (anche economico), stabilità sociale, carica legittimante alla legge ed, in una parola, auctoritas alle istituzioni. Ed eccoci tornati a quella parola, in cui l’intero discorso testè fatto è racchiuso e conchiuso, come in uno scrigno che protegge il tesoro spirituale della intera Romanità!
Fino a quando non saremo in possesso dell’origine e del significato di quella parola, quello scrigno per noi resterà sempre chiuso, anche se, come avviene per il Diritto in senso lato (che è sempre e dovunque Romano), siamo presuntivamente soggetti che godono dei privilegi e della potenza insiti nella parola medesima. In realtà, al contempo, ne siamo oggetti inconsapevoli, perché è essa (la parola) che gestisce la nostra esistenza storica, nel momento in cui non ne comprendiamo, non facciamo nostra, nella coscienza in senso attivo e come grado di consapevolezza politico-culturale, la sua intrinseca natura e quindi essenza. Auctoritas deriva dal verbo augere [la radice indoeuropea è aweg], il quale coniugato risulta essere: augeo, auxi, auctum, augere. Esso ha il significato di accresco, aumento, da cui il tardo latino augmentum e l’italiano aumentare. Qual’è la relazione tra accrescere, aumentare, incrementare e l’autorità come noi la comprendiamo? Apparentemente nessuna!
Però, se poniamo mente alla frase latina, assai ricorrente nelle fonti, tanto giuridiche che letterarie, auctor sum, ed a quello che sempre segue a tale affermazione, iniziamo ad avere qualche cognizione dell’intera problematica. Auctor sum… di qualcosa, di un’azione politica, giudiziale, artistica, ecc. mentre ne sono autore (lo diciamo anche noi in italiano…!) e cioè il creatore, sono anche il curatore della sua felice esistenza e del suo proficuo esito. Sarebbe a dire che la persona in questione accompagna la sua creatura nel cammino che deve intraprendere, avendola fatta “nascere dal suo seno” (8), esercitando, pertanto, sulla stessa la sua auctoritas! Certamente, per noi è difficile comprendere il nesso che vi è per i Romani tra la nozione di “accrescere” e quella di “mettere in movimento qualcosa”. È necessario, pertanto, che sia presente alla nostra indagine una realtà spirituale che noi moderni abbiamo dimenticato!
Nelle culture tradizionali, cioè fondate e legittimate dal Sacro, ogni azione, ogni progetto, qualsiasi opera, affinché abbiano esito felice, cioè riescano bene poiché hanno il consenso degli Déi (Pax Deorum), devono essere intraprese, anzi naturalmente (senza obbligo alcuno…) sono intraprese dall’uomo (che può essere il contadino, come il guerriero o il re) possedendo un entusiasmo particolare (l’etimo di entusiasmo viene dal greco en Theòs = nel Dio…) sarebbe a dire una coscienza, uno stato d’animo (9) in stretta connessione con le Potenze cosmiche del Divino che, come fanno crescere abbondanti le messi, rigogliosi i frutti, sani e forti i figli, fanno essere e conservano santa e libera la Res Publica, onesti i cives, in quanto adempienti agli obblighi scaturenti ex juribus, così fanno nascere, accrescono, aumentano, ciò che l’uomo intende fare, se lo stesso è in grado di attivare in sé quelle Potenze, delle quali è già pregno, come uomo aperto ad esse e cioè al mondo, e quindi di essere tutt’uno con le stesse, che sono, in ultima analisi, la Vita in senso eminente, nella sua Forma (Cfr. K. Kerenyi, La religione antica nelle sue linee fondamentali, Roma 1952, testo splendidamente essenziale!). Allora quell’uomo, quell’istituzione, che è sempre nella Romanità insieme di uomini vivi: il Senato (auctoritas patrum), il Princeps (auctoritas principis), il padre (auctoritas patris), il tutore nei confronti della donna o del minore (auctoritas tutoris), sono pregni di auctoritas, cioè di quella Potenza mistica, il “pieno” (10) che è l’accrescimento magico-religioso il quale, nella comparazione indoeuropea (11) (vedi J. Gonda, Ancient Indian “ojas”, Utrecht, 1952, p. 75 ss.; nonché P. Catalano, Contributi allo studio del Diritto augurale, Torino 1960, pp. 30, 96 ss., 158 ss., 340 ss., 350 ss.) è sempre legato alla forza generatrice del Divino e quindi della natura.
Non sembri un caso, e non lo è, che dalla radice di augeo, siano tratte parole fondamentali per il Diritto sacro romano, come augurium (il presagio favorevole, quello con cui gli Déi decretano l’esito fausto di un’impresa sottoposta al loro giudizio tramite il Rito così come prescritto dal Diritto augurale); come augur (il sacerdote che esegue quel Rito, conoscendone la tecnica e le parole magiche e quindi necessitanti, tratte dai Formulari); come augustus che è il riconoscimento di uno stato di “grazia” per la presenza di un qualcosa di “santo” nei confronti di una persona o di un luogo; come auguratus che è l’effetto, la conseguenza dell’esecuzione del rito giuridico-religioso dell’auguratio (che è l’operare l’ingresso di qualcosa nel Sacro) o dell’exauguratio (che è il processo inverso: fare uscire qualcosa dal Sacro, privandola di quella Potenza…). È necessario, a questo punto, al fine di entrare sotto il profilo antropologico nella cultura romana, esaminare il linguaggio delle fonti, in cui tali convinzioni sono tanto presenti che la loro semplice esposizione può aiutarci a capire perché mai colui che “fonda”, “crea”, “inizia”, “persuade”, “garantisce” o, comunque, colui che mette in movimento un certo processo, debba essere, contestualmente, colui che “accresce”.
Nel 204 a. C., la seconda guerra punica volge al suo epilogo e Publio Cornelio Scipione si accinge a salpare da Lilibeo, in Sicilia, con la flotta romana, per condurre le sue legioni in terra africana onde colpire Cartagine al cuore del suo impero. Dopo che l’araldo, con il suono rituale, ha imposto il silenzio a tutta l’armata, Scipione dalla nave pretoria rivolge agli Déi una preghiera solenne: “Divi deaeque… maria terrasque qui colitis , vos precor quaesoque uti, quae in meo imperio gesta sunt, geruntur, postque gerentur, ea mihi… bene verruncent, eaque vos omnia bene iuvetis, bonis auctibus auxitis” “Déi e Dee… che abitate i mari e le terre, di questo vi prego, questo vi chiedo: che tutto ciò che si è fatto sotto il mio comando, che si fa, che in futuro si farà… possa volgersi a mio vantaggio, e che tutto ciò voi lo favoriate, e lo accresciate di buoni accrescimenti” (Livio, 29, 27). Due aspetti del passo liviano destano la nostra attenzione: la essenzialità e consequenzialità del linguaggio, che è presente tanto in invocazioni religiose come questa, come nei formulari del Diritto, e la presenza di quel “bonis auctibus auxitis”, che noi traduciamo “e lo accresciate di buoni accrescimenti”. E siamo davanti, ancora una volta, allo stesso enigma dell’aumentare e dell’accrescere.
La radice – aug – che è quella del verbo augere, qui è usata due volte, la prima nella forma di un sostantivo astratto (auctus da cui auctibus) e la seconda nella forma di un congiuntivo perfetto, molto arcaico, del medesimo verbo augere (auxitis, che poi diviene auxeritis nella forma meno arcaica). Si penserà che questo è un linguaggio vetusto, espressione di un prisco pensiero, riportato da Livio e dallo stesso ricavato, forse, dai formulari giuridici e religiosi custoditi dal Collegio dei Pontefici e che, nella cultura romana meno antica, non dovesse essere più usato. Invece tutto ciò, e cioè la medesima convinzione, lo stesso “enigma”, la stessa visione del Mondo la ritroviamo in Cicerone, cioè in un avvocato, grande oratore e studioso appassionato di filosofia greca, un uomo pertanto raffinato e di vastissima cultura, che ben rappresenta la società romana della tarda Repubblica, la quale ormai dovrebbe essere lontana (secondo alcuni “interpreti” moderni…) dalla sensibilità arcaica. Ebbene, Cicerone (Pro lege Manilia, p. 43 ss.) parlando di Pompeo e mettendo in evidenza il suo prestigio e la sua grandezza, cerca, con un lungo periodo, di definire questa misteriosa realtà che è l’auctoritas. Ad un certo punto, Cicerone, nel rammentare ai suoi concittadini la circostanza storica relativa a ciò che era accaduto quando a Pompeo era stato affidato il comando della guerra marittima, dice che “…da quel momento l’annona fu così a buon mercato –quantam vix ex summa ubertate agrorum diuturna pax efficere potuisset – quale non avrebbe potuto renderla neppure una lunghissima pace in un periodo in cui la fecondità dei campi fosse altissima”. Quindi, Cicerone sta affermando che l’auctoritas di Pompeo ha provocato un immediato ribasso dei prezzi ed una crescita ed abbondanza delle messi nei campi. Per la nostra cultura moderna e quindi non tradizionale, è difficile capire tutto ciò: che l’auctoritas fa crescere le messi e determina abbondanza e salute economica per il Popolo! Nel pensiero di Cicerone, però, possiamo tranquillamente constatare come sia presente, in guisa palmare ed alquanto naturale, proprio quella visione comune alle culture indoeuropee, su richiamata, che mette in relazione eziologica (di causa ed effetto) l’auctoritas e la “forza generatrice della Divinità e quindi della natura”.
Cicerone, infatti, è convinto, ed utilizza tale argomento come supporto probatorio di natura storica, che chi è auctor di “qualcosa” possiede realmente la capacità di produrre crescita e ricchezza, di sostenere la felicità dell’impresa, di garantire la buona vita dell’istituzione da amministrare. Tale visione del mondo, le medesime ragioni, le ritroviamo anche, per esempio, in Velleio Patercolo (2.40.4) e in Tacito (Historiae, 4.28) ed in altri autori latini. Siamo giunti, come è facile intuire, nel centro spirituale dell’atteggiamento Romano nei confronti del mondo e, precisamente, nella certezza dell’esistenza e della concreta manifestazione nel visibile di una “Potenza”, di una forza che è stata attivata nell’Invisibile, mediante il rito giuridico-religioso. L’auctoritas pertanto, avendo in sé quella “forza”, produce quegli effetti che, in tanto si riverberano nel visibile, mediante fatti di cui tutti possiamo essere testimoni (vedi gli argomenti di Cicerone…), in quanto nella sfera del mistico-religioso e del Sacro e quindi dell’Invisibile, la stessa forza di “crescita” è divenuta possesso di chi è auctor, identificandosi con esso, cioè con chi manifesta ed esercita l’auctoritas.
Non possiamo non rinviare, a questo punto, per il necessario approfondimento di tale aspetto fondamentale dell’intera forma mentis romana, ai nostri studi sulla efficacia creativa del nomen e del Rito (12) e quindi sulla potenza della Parola, del gesto o della “qualità” intrinseca ad una persona, che creano letteralmente la cosiddetta natura secondo la prescrizione giuridica e quindi rituale. D’altronde, per i romani, tutto ciò è talmente evidente che essi sono convinti che il sacrificio agli Déi “accresca” gli stessi, tanto che l’onore e la venerazione che essi ricevono li “rende grandi”. È la radice –mag– (da cui magnus) la base di tale pensiero; infatti il verbo tecnico del sacrificare è mactare, il cui significato letterale è: “rendere grande” (è d’uopo invitare, a questo punto, il lettore alla riflessione sul fatto che il termine italiano “mattatoio” è un derivato depotenziato e desacralizzato del latino mactare, in evidente connessione semantica con l’azione dell’uccisione violenta, prescritta e periodica dell’animale…). Arnobio dice, infatti, “honorari ab homine deus digitur et muneris alicuius oblatione mactari”, “si dice che il Dio viene onorato dall’uomo e viene ‘ingrandito’ (onorato, venerato) con l’offerta di un qualche dono” (Adversus nationes, 7.14: cfr. anche Cicerone, In Vatinium, 6. 14: “Cum puerorum extis deos manes mactare soleas…” Sul significato di mactare e il suo rapporto con – mag – di magnus, cfr. E. Benveniste, Il vocabolario, cit., II, pp. 453 ss.). Catone riferisce un’antica formula di preghiera: “harumce rerum macte hoc porco piaculo immolando esto”, “a motivo di queste cose, sii ‘accresciuto’ (onorato, venerato) dall’offerta di questo porco che immoliamo” (Catone, De agricoltura, 139, 132.1, 141.3; Servio, In Vergili Aeneidem, 9.641). Anche fuori dal campo strettamente religioso, Ennio dice che “Livius inde redit magno mactatus triumpho”, “Livio tornò da lì `ingrandito’ (onorato) con un grande trionfo” (Ennio, 299, Skutsch; cfr. anche Accio, Didascalica, fr. 8 Morel: “patera Nestorem mactavit aurea”; Cicerone, De Re Publica, 1.43 “eosque prìvatos… ferunt laudibus et mactant honoribus”…).
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È necessario ora, dopo quanto detto innanzi, che deve essere considerato un avviamento alla conoscenza dei presupposti e delle basi mistico-religiose della stessa realtà storica del Diritto Pubblico Romano, entrare nella fenomenologia delle istituzioni e della Costituzione della Res Publica, onde acquisire il riscontro concreto di quei presupposti, effettuale ad una riflessione che abbia per oggetto le fonti medesime. Crediamo che, per individuare la natura precipua dell’auctoritas, di cui abbiamo evidenziato i caratteri generali, e per porla in confronto distintivo con altre figure istituzionali del Diritto Pubblico Romano, quali per esempio potestas e imperium, non ci sia passo più carico di significati giuridico-religiosi e di arcaiche verità, come il cap. 34 delle Res Gestae Divi Augusti. Sappiamo che le Res Gestae sono una sorta di autobiografia politica e giuridica, di natura e finalità pubbliche che Augusto stese di suo pugno e che, impressa su tavole bronzee, fu diffusa in tutto l’Impero, con testo greco in oriente e latino in occidente, affinché fosse conosciuta da tutti gli abitanti dello stesso, che così si potevano riconoscere liberamente nei fondamenti della cultura giuridico-religiosa romana coniugandoli ed integrandoli con le loro tradizioni culturali e religiose. Al paragrafo 3 del citato cap. 34, ad un certo punto Augusto, per definire il potere di cui è investito, in relazione agli altri poteri della Res Publica, che egli, come dichiara, ha salvato e trasferito in “Senatus populique romani arbitrium” (Res Gestae, cap. 34, par. 1), afferma che “post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt”, “dopo di allora io superai tutti per autorità, ma non ebbi alcuna potestà maggiore degli altri cittadini che mi furono colleghi nelle magistrature”. È un passo di straordinaria bellezza stilistica e di rilevante importanza giuridica, sotto il profilo del diritto costituzionale romano, su cui hanno speso immense fatiche ermeneutiche intere generazioni di studiosi sia di Storia Antica che di Diritto Romano. La difficoltà principale è sempre consistita, infatti, nel cercare di capire: 1) cosa voglia effettivamente significare Augusto con la parola auctoritas; 2) quale rapporto vi sia tra questa e la potestas; 3) da dove provenga allo stesso Augusto l’auctoritas; 4) quali siano, infine, la natura e la funzione di Augusto medesimo nell’ordinamento che egli costituiva o, meglio, conservava e se la sua figura fosse istituzionale e quindi dentro l’ordinamento oppure fosse esterna allo stesso, pur essendo dal medesimo ordinamento prevista ed invocata. Come si può intuire, si tratta, in una parola, della vexata quaestio relativa all’essenza giuridico-politica del Principato: è una monarchia o una diarchia? E se non è ne l’una né l’altra (tenuta presente l’avversione spirituale e ideologica dei Romani nei confronti del concetto medesimo di regnum, considerato regime non da uomini liberi e quindi “servi” solo della Legge, ma regime di uomini servi della volontà di un altro uomo, tanto da prevedere la figura delittuosa dell’adfectatio regni) (13) si può affermare che la Res Publica è morta o Augusto è sincero quando dichiara che ha trasferito, cioè ha restituito la Res Publica dalla sua potestas nelle libere decisioni del Senato e del Popolo Romano? Siamo fermamente convinti che, come accennavamo all’inizio, l’esame etimologico e semantico delle parole dei testi sia assolutamente indispensabile al fine di penetrarne la logica e di evidenziare, quindi, la forma mentis che dagli stessi emerge. Non è possibile, pertanto, nemmeno tentare di rispondere a tutti i quesiti di cui sopra, se non si pone mente al fatto che il testo segue un percorso temporale che dello stesso fornisce la chiave di lettura. Infatti, la fonte dell’auctoritas (cioè da dove essa provenga ad Ottaviano) ed il suo rapporto con la potestas magistratuale, si trovano esplicitate più sopra e precisamente nel par. 2 dello stesso capitolo: “Quo pro merito meo senatus consulto Augustus appellatus sum”, “Per questo mio merito fui riconosciuto Augusto per senatoconsulto”. La legittimazione, quale fonte dell’auctoritas, risiede pertanto nel riconoscimento da parte del Senato della presenza della natura speciale di “Augustus” in Ottaviano (che da allora verrà, infatti, chiamato in quel modo… come tutti i Principi suoi successori. Cfr. P. Catalano, Contributi, cit., p. 546 nota 83; U. Coli, Scritti, Milano 1972, p. 408: R Fabrini, L’Impero di Augusto come ordinamento sovranazionale, Milano 1974, pp. 94-98). E da evidenziare, a questo proposito, che Augustus non è auguratus, sarebbe a dire che Ottaviano non è stato oggetto del rito giuridico-religioso eseguito dagli Auguri che lo abbiano reso tale, cioè lo abbiano “augurato” (come un tempio, un luogo, ecc.), bensì il Senato si è limitato a riconoscere una realtà già esistente, già presente nella persona di Ottaviano, essendosi evidenziata in tutto ciò che ha felicemente realizzato per il bene della Res Publica, prendendone atto formale e decidendo in tal senso, cioè in modo vincolante.
In buona sostanza, il Senato ha pensato e operato nella stessa guisa in cui pensava Cicerone nel passo sopra citato, a proposito dell’auctoritas di Pompeo e dei benefici effetti che la stessa aveva procurato alla Res Publica. Il giurista Sergio Panunzio (14) nel 1912, entrando nel vivo della problematica, è riuscito, per primo, ad individuare ciò che sta “fuori” dal Diritto e che senza di questo “qualcosa”, il Diritto medesimo non esisterebbe. Egli afferma, categoricamente: “togliete dal Diritto la coazione e quello che resta non è più Diritto”. Pertanto, per il Panunzio la “coazione” è costitutiva del Diritto, cioè lo Stato, che egli storicizza, è la condicio sine qua, non dell’esistenza del Diritto ma della sua obbligatorietà; in questo anticipando lo Schmitt delle Categorie del Politico e del concetto di “decisione” quale fonte e legittimazione dell’ordinamento, posta fuori dallo stesso (vedi H. Hoffmann, Legittimità contro legalità. La filosofia politica di Carl Schmitt, Napoli 1998). Dal concetto di coazione il Panunzio, servendosi di categorie filosofiche, ricava il concetto di autorità e conclude che “l’Autorità è il Potere che attua la coazione, essa non è organo ed ente storico-empirico e realtà sussistente accanto al Diritto, ma carattere e momento formale che integra ed esaurisce la nozione del Diritto, non tratto dalla esperienza, ma dedotto a priori dalla coazione”. Pertanto, l’Autorità “si identifica storicamente nel cosiddetto organo che attua il Diritto e lo Stato è appunto una determinazione storica dell’Autorità”.
Il Panunzio, con acuta intuizione, individua quindi la stretta relazione che vi è tra il concetto di coazione e quello dell’auctoritas romana, affermando esplicitamente che proprio l’etimo della parola auctoritas determina decisamente ciò che egli vuol dire con la parola “coazione”. La ricerca filologica avviata dallo Spinazzola (15) su augur sin dal 1891 aveva confermato tutto ciò quando veniva evidenziata la derivazione di augur da augeo, facendo ampi riferimenti ad auctor, auctoritas ed augustus. Panunzio utilizza tali risultati e scrive: “il concetto proprio di augur è quello di accrescimento; il significato originale di augur è infatti ampio, copioso, abbondante; da augur proviene, per la stessa radice, augustus e quindi la persona che incarna il massimo dei poteri, il culmen auctoritatis, l’Augustus imperator, il primo fra tutti, la primazia assoluta, Augustus è indicato nel senso di chi è dotato di un grande potere, per analogia dalla voce augur alla voce auctoritas, si giustifica la introduzione della parola auctoritas nel sistema del Diritto, poiché essa possiede l’attitudine ad esprimere quel potere preponderante e quella supremazia, superiorità e prevalenza che sono momenti necessari alla realizzazione della coazione e quindi del Diritto”.
Auctoritas, pertanto, è la qualità di chi è di più (auctor), chi vale di più, che promuove “qualcosa” e la crea, chi ha una potenza superiore a quella dei singoli cittadini e, pertanto, possiede la capacità di indurre questi al rispetto, alla sottomissione e quindi all’osservanza delle norme poste a fondamento dell’intero ordinamento, dal quale l’auctor è fuori poiché ne è l’autore, cioè il creatore e quindi il custode (vedi l’opera di Carl Schmitt, Il custode della Costituzione, Milano 1981; nonché P. De Francisci, Arcana imperii, Roma 1970, vol. III, tomo I. pp. 241 ss.). Era necessario riferire, anche per esteso, gli studi e le conclusioni del Panunzio, poiché essi appaiono lucidamente esaustivi ed esplicativi in ordine ai quesiti posti dai passi delle Res Gestae. Pertanto, possiamo, senza ombra di dubbio, ritenere che l’auctoritas di cui è titolare Ottaviano trova la sua fonte creativa nell’essere stato egli stesso riconosciuto Augustus dal Senato e cioè persona talmente carica di speciale santità (rammentando tanto il significato di augur da cui augustus, ambedue derivati da augeo quanto la traduzione greca di “Augustus” che è Sebastòs = colui che è Santo per designazione divina) da essere, per conseguenza auctor, cioè il primo, il più potente (sul piano dello spirito e della majestas – tanto che, in seguito, il crimen lesae majestatis previde come parte offesa non più il Populus Romanus ma il Princeps, cioè il primus inter pares) nei confronti dell’ordinamento, esercitando sullo stesso e sulle sue istituzioni la sua auctoritas. Ed in questa, dice Augusto, nelle Res Gestae, “fui superiore a tutti!”. Qui risiede la ragione per cui Augusto pone la sua auctoritas al di sopra di tutte le magistrature, nelle quali fu collega di altri magistrati essendo titolare della medesima potestas di cui sono investiti gli stessi, in ciò risiede pertanto, la ragione dell’essere l’auctoritas al di sopra di tutte le potestates magistratuali nonché dell’imperium dei consoli, vuoi perché egli è titolare di un imperium proconsulare majus et infinitum vuoi perché l’auctoritas non è un:”potere sovrano”, non è la qualifica di un’istituzione, né una mera preminenza politica, ma, in termini strettamente giuspubblicistici, è la forza ordinante, destinata a potenziare, integrare, accrescere (augere) e coordinare (constituere) i singoli poteri costituzionali (potestates) (16) . L’auctoritas Principis, in questo avvicinandosi molto all’auctoritas Patrum del Senato, che, con l’avvento del Principato, viene ad essere assorbita da quella del Principe, svolge nel novus status Rei Publicae, la funzione tipica di ordo ordinans nei confronti dell’ordo ordinandus e ordinatus, quindi essa è la matrice costituzionale della “norma, sarebbe a dire l’elemento generatore del contenuto precettivo ed obbligatorio dell’ordine giuridico” (17) ; e si ritorna all’intuizione del Panunzio in ordine all’elemento costitutivo del diritto che è la coazione quale essenza precettiva ed obbligatoria del medesimo!
Marco Tullio Cicerone
Pertanto, possiamo verificare ancora una volta la veridicità scientifica di tale intuizione. Infatti Augusto, contrapponendo auctoritas e potestas non ha posto uno di fronte all’altro due poteri dello Stato equivalenti ed equipollenti, ma ha evidenziato ed affermato la suprema e superiore funzione di coordinamento (auctoritas) del Princeps et Augustus nei confronti dei poteri costituzionali per compiti straordinari e ordinari. L’auctoritas, quindi, pone il Princeps al di fuori delle magistrature ordinarie e straordinarie (18). Ottaviano, pertanto, poiché è Augustus e quindi titolare dell’Auctoritas non è un magistrato; può esserlo quando, di volta in volta, assume, singolarmente o collegialmente, determinati poteri (consul, tribunicia potestas, ecc.). Tale è l’aspetto, apparentemente ambiguo del Principato, poiché Augusto, in quanto tale e quindi titolare dell’Auctoritas, è fuori dalla Res Publica, poiché egli è la forza mistico-religiosa che ne custodisce l’unità e quindi si identifica con la medesima Res Publica; in quanto invece magistrato che detiene la potestas (quando è investito di tale potere) è pars Rei Publicae, titolare di pari potestates con gli altri magistrati, essendo, in quel caso, egli stesso magistrato (19) . Tutto ciò non deve sembrare né singolare né tanto meno proprio alla sola esperienza storica romana, se è vero come è vero che sempre in ogni regime politico, specialmente nell’ambito premoderno o tradizionale, il Sovrano (il Re) è situato fuori l’ordinamento, in quanto incarnazione di una Potenza quasi Divina che, provenendo dall’Alto, è considerata simile al Sole intorno al quale ruota l’intero sistema sociale, restando egli fermo ed impassibile come l’asse della ruota (20).
D’altronde nel processo che i rivoluzionari dell’1789 intentarono a Luigi XVI, Saint Just, l’avvocato del Re, al fine di ottenere la dichiarazione di non promovibilità dello stesso procedimento a causa della invocata non imputabilità del Sovrano, sostenne la tesi che il Re non poteva essere processato poiché era al di sopra della legge e quindi fuori dal “contratto sociale” (utilizzando opportunamente la terminologia in voga in quel tempo …); Robespierre, che rappresentava la pubblica accusa, rispose che, proprio perché il Re era fuori dal “contratto sociale”, era da ritenere un fuorilegge e pertanto un nemico della società, di conseguenza doveva essere giustiziato! Robespierre era nell’errore, poiché non solo, così ragionando, rifiutava, da cattivo statista, un dato emergente da tutta la storia politico-giuridica dell’intera umanità (e questo atteggiamento mentale è frutto evidente dell’astrattezza utopistica della stessa ideologia razionalista ed illuminista della Rivoluzione Francese) ma, negando il vero significato della parola Sovrano (essa deriva dal francese arcaico soverain e significa: “ciò che sta sopra, in alto”) si poneva in netta contrapposizione con il medesimo ordinamento che egli intendeva instaurare (essendone in ogni caso auctor ed esercitando, anche se in guisa inconsapevole del suo intrinseco significato, l’auctoritas) rimanendo di conseguenza travolto dalla sua stessa logica come, in effetti, accadde quando egli stesso fu ucciso dalla medesima violenza di quel sistema. Pretendere, infatti, come fa il Kelsen, di dare una giustificazione giuridica del diritto – che è uno strumento – è come pretendere di spiegare la giustificazione dello strumento mediante lo strumento stesso e cioè a prescindere dallo scopo, sarebbe a dire da colui che sta al di sopra del diritto (il Sovrano), il quale decide (come ha insegnato C. Schmitt) per quali fini metagiuridici il diritto debba essere usato. Financo negli ordinamenti costituzionali attuali, è presente non solo il principio secondo cui la Sovranità è al di sopra del diritto (vedi l’articolo 68 della nostra Costituzione che sancisce l’immunità parlamentare), ma anche quell’ “ambiguità” di cui parlavamo innanzi, tanto che l’autorità che esercita la massima carica dello Stato, il Presidente della Repubblica, ( che svolge anche la funzione di indirizzo e di custodia della Costituzione, come è il caso italiano…) è fuori l’ordinamento sotto certi riguardi mentre ne è parte sotto altri; è da un lato irresponsabile mentre dall’altro è eccezionalmente imputabile solo mediante uno speciale procedimento d’accusa, mentre nei confronti degli altri poteri pubblici è indubbio che eserciti uno speciale potere di controllo, di coordinamento e di sovrapposizione anche vincolante, che si esplica sul piano dell’intervento formale e pubblico, di cui, in Italia, dottrina e giurisprudenza costituzionali, anche in comparazione con altri sistemi, hanno, da tempo, definito i contorni e la natura.
Questo significa che ogni ordinamento giuridico-politico, sotto qualsiasi latitudine ed in ogni epoca storica, anche nella presente, così drammaticamente caratterizzata da una profonda e terribile crisi spirituale, in cui sembra scomparsa la parvenza medesima sia del concetto che della realtà sociale di qualsiasi forma di autorità, deve essere contraddistinto dalla presenza originaria di un auctor che abbia creato e che detenga l’auctoritas secondo quanto abbiamo esposto innanzi? Siamo forse legittimati, quindi, ad affermare che non può esistere nessuna comunità politica, nessun ordinamento giuridico-costituzionale, senza, non solo l’auctoritas del suo fondatore-creatore (auctor) ma anche, nella continuità storica del medesimo ordinamento, senza quel “qualcosa” che Tacito definiva Arcana imperii e che, da sempre, è il mistero dell’auctoritas? Se possiamo ancora oggi, nonostante le apparenze ce lo vietino, pensare tutto ciò; allora l’auctoritas dei Romani, il discorso intorno alla loro cultura giuridico-religiosa, la loro consapevolezza dell’esistenza concreta della potenza che sta dietro e dentro quella parola, sono non solo presenti davanti alla nostra esistenza storica e quindi attuali, ma l’unica certezza ermeneuticamente acquisita, base indispensabile per la ricostruzione dalle fondamenta dell’ordine giuridico-religioso e, quindi, della Giustizia.
Note:
1 – P. CHANTRAINE, Dictionnaire Etymologique de la langue Grecque, I, Paris 1958, pp. 322.
2- G. CASAL1NO, Il Sacro e il Diritto, Lecce 2000, pp. 45 ss.
3 – Sulla natura magico-religiosa del Diritto Romano, cfr. oltre ai nostri, Riflessioni sulla dottrina esoterica del Diritto Arcaico Romano, in Arthos n. 19, febbr.- giugno 1979, Genova 1982, pp. 255 e Il Sacro e il Diritto, cit.; V. MACCHIORO, Roma capta. Saggio intorno alla religione romana, Roma 1928, pp, 250 ss.; C. FARALLI, Diritto e magia. Il realismo di Hägerstróm ed il Positivismo filosofico, Bologna 1992; H. WAGENVOORT, Roman Dynamism, Oxford 1947; W. CESARINI SFORZA, Diritto, Religione e magia, in “Idee e problemi di filosofia giuridica”, Milano 1956, p. 331 ss; R. SANTORO, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in “Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo”, vol. XXX, Palermo 1967: in cui la visione del Wagenvoort è sviluppata ed autorevolmente confermata ad iniziare dalle legis actio…; P. HUVELIN, Magie et droit individuel, in “Annèe Sociologique” , 10, 1907 e Les tablettes magiques et le droit romain, in “Etudes d’Historie du droit romain”, 1900, pp. 229 ss; A. HAGERSTROM, Das magistratische Ius in seinem Zusammenbange mit d. rom. Sakralrechte, Upsala 1929. (dove è esplicitamente detto che la forma mentis giuridica romana è sostanzialmente magica come d’altronde noi stessi, in altra sede, abbiamo sostenuto partendo da presupposti tradizionali). Ed infine si veda quel monumento di conoscenza e di intuizioni che è Primordia Civitatis di P. DE FRANCISCI, Roma 1959, in particolare pp. 199-406. L’opera dell’insigne romanista, però, indulge a confusioni “animiste” in ordine alla definizione di Numen. Per una distinzione dalle interpretazioni animistiche cfr. J. BAYET, La religione romana storia politica e psicologica, Torino 1959, pp. 45 ss. e 119 ss. Comunque, sul Numen in Roma cfr. J. EVOLA, Diorama filosofico, Roma 1974, pp. 67 ss. e P. PFISTER, voce: Numen, in Pauly e Wissowa, Real Encycl., vol. XVII, 2 coll. 1273 ss., Stuttgart 1893 ss. Cfr. anche F. DE COULANGES, La città antica. Firenze 1972: ove tutto il diritto pubblico e privato è ritenuto fondato sulla religione; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris”, vol. XIX, 1953, pp. 39 ss., in particolare la nota n. 22 a p. 43.
4 – G. CASALINO, Il Sacro e il Diritto, cit. pp. 50 ss.; IDEM, L’essenza della romanità, Genova 2014.
5 – Su tale identità cfr. G. CASALINO, Res Publica, res populi. Studi sulla tradizione giuridico-religiosa romana, Forlì 2004, pp. 101 ss…
6 – E. BETTI, Diritto, metodo, ermeneutica, Milano 1991 pp. 59 ss..
7 – J. EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno, Roma 1998; R. GUENON, La crisi del mondo moderno, Milano 1952; K. LOWITH, Uomo, Dio e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, Roma 2000.
8 – E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, 1972, vol. II, pp. 396-398.
9 – R. BLOCH, Le origini di Roma, Roma 1978, pp. 35; K. KERENYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia. Torino 1972, pp. 40 ss.
10 – G. DUMEZIL, Remarques sur “augur” “Augustus”, in Revue des etudes latines, 35 (1957), p. 144.
11 – A. ERNOUT, Augur, Augustus in “Memoires de la societé de linguistique” 22/5 (1921), pp. 234-38.
12 – G. CASALINO, Il Sacro e il Diritto, cit., pp. 19 ss.; IDEM, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2013.
13 – R. FIORI, Homo Sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, pp. 325 ss.; S. RODA, Profilo di storia romana, Roma 2001, pp. 24 ss.; S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, Milano 1981, pp. 126 ss; A. BURDESE, Manuale di diritto pubblico romano, Torino 1987, pp. 17 ss. Fondamentale resta sulla contrapposizione regnum-libertas, CICERONE, De Re Publica, 1.14.
14 – S. PANUNZIO, Il Diritto e l’Autorità. Contributo alla concezione filosofica del Diritto, Torino 1912,X.
15 – V. SPINAZZOLA, Dell’etimologia di augur e degli auguri, Atti della Reale Accademia di Archeologia, parte seconda, Estratto, Napoli 1894.
16 – P. CERACI, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, Torino 1996, pp. 180 ss; Lavoro pregevolissimo sulla tematica della fonte rituale (religiosa) della legittimità e quindi della legalità, su cui vedi pp. 142 ss.
17 – R. ORESTANO, Il problema delle persone giuridiche in Diritto Romano, Torino 1958, pp. 221.
18 – C. WIRSZUBSKI, Libertas. Il concetto politico di libertà a Roma tra Repubblica e Impero, Bari 1957, p. 110.
19 – P. FREZZA, Per una qualificazione istituzionale del potere di Augusto, in acc. Toscana la colombaria, (1956), p. 117.
20 – C. LEVALOIS, Principii immemorabili della regalità, Rimini 1991; M. McCORMICK, Vittoria eterna. Sovranità trionfale nella tarda antichità. Milano 1983; C. BONVECCH1O, Imago Imperii Imago Mundi. Sovranità simbolica e figura imperiale, Padova 1997.
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