Assenza della coscienza e conoscenza di sé in Plotino e Hegel – 1^ parte – Giandomenico Casalino
Per poter comprendere il discorso che ci accingiamo ad esporre è necessario compiere un notevole sforzo intellettivo al fine di tentare di uscire dalla gabbia mentale della cultura moderna: la Tradizione Classica greco-romana non ha conosciuto il concetto di coscienza e quindi nemmeno la parola che potesse corrispondere allo stesso. Basti pensare che tutti gli autori sia greci che romani, nelle loro opere, non hanno quasi mai usato la parola “io” ma sempre il “noi”! È questa verità che è necessario affrontare e… “digerire” onde tentare di avvicinarsi alla immensa e coincidente sapienza, su tale fondamentale tema, sia di Plotino quanto di Hegel. In buona sostanza, va detto, in via propedeutica, che per gli Antichi, la fisima tutta moderna intorno alla centralità del pensiero personale o dell’opinione, non esiste assolutamente: per loro la “coscienza” è qualcosa di intermedio tra l’Intelligibile, che è sovracosciente ed il sensibile che è incosciente (Plotino, Enneade, V, 9,5). La cosiddetta coscienza, pertanto, per il mondo classico, è strumentale, è come un accessorio dell’anima, esso si accompagna all’Idea mentre la stessa discende e si allontana dall’Intelletto, quindi è qualcosa di inferiore ad una Realtà ad essa superiore. Pertanto vi è coscienza, vigile, desta, intenzionale, nel significato moderno del termine, solo quando c’è una diminutio dal Nous, un procedere verso il basso che è decadenza, che corrisponde ad un allontanarsi dal contemplare, che in greco è detto theorèin e che significa vedere il Dio e cioè conoscere il Dio in quanto lo stesso è pensato ed è, quindi, il pensiero puro, nòesis, che coincide con il nòeton che è il pensato. In ciò è del tutto assente il dualismo, frutto dello stato coscienziale moderno che consiste, infatti, nella coscienza che, in tanto è tale, quale sentirsi dell’Io in quanto esso si contrappone dualisticamente all’oggetto che è il Mondo.
Plotino, infatti, persegue, come tutta la Sapienza greca, il fine di realizzare la condizione effettuale atta a conoscere se stessi ed egli ribadisce che ciò non è possibile se non vi è coincidenza assoluta e necessaria di ciò che conosce con ciò che è conosciuto: la conoscenza resta sempre imperfetta anche se c’è nell’anima la sola impronta dell’Idea che è il pensiero (Plotino, Enneade, V, 3, 49). Al fine di realizzare la massima apollinea che è il Gnòthi sautòn , è necessario essere iniziaticamente e quindi come ascesi, un Principio semplice tale che si possa giungere alla conoscenza dell’identità del soggetto (pensiero puro pensante) con l’oggetto (pensiero puro pensato); che sarà, ellenicamente, la fondamentale quaestio della sapienza di Hegel, come vedremo più avanti…; tale principio, ontologicamente semplice, non può che essere il Nous cioè l’Intelletto, che è la dimensione calma, serena e divina della parte superiore dell’anima, non certo la sensazione che è esterna né la diànoia, che è l’intelligenza discorsiva la quale è dispersiva ed analitica poiché, direbbe Nietzsche, è “umana troppo umana” e va dall’accumulo delle sensazioni alla materializzazione delle Idee e, quindi, mai può giungere alla identità con ciò che vorrebbe conoscere, essendo incapace di pensarlo e cioè di intuirlo. Non si può che concludere, insegna Plotino, che la conoscenza di se stessi è reale solo per l’Intelletto, che è, al contempo, Intuizione (Nòesis) e realtà intuita (Nòeton) e pertanto coincidenza semplice e necessaria dell’Eterno con se stesso, del puro con se stesso, confermando l’insegnamento del suo maestro Platone, così come esplicitato nell’Alcibiade Maggiore (133,c).
È questa la ragione per cui, oggettivamente, la coscienza è una diminuzione: finché essa è pensiero puro l’anima non è cosciente, ma quando essa cade nel corpo, sostituisce all’eternità del pensiero la continuità nel tempo e nello spazio ed è la coscienza, cioè è un declassare dalla contemplazione (che in Plotino è creatrice), per la semplice causa della sua natura intrinseca: essa è simpatia, unione simpatetica (sunàisthesis) delle parti di un essere tra loro, essendo quindi una moltitudine; e tale sintesi è il supporto principale della intelligenza discorsiva (diànoia) che è costretta a cercare nel Nous l’Idea che possa essere simile in immagine alla sensazione, come impressione, che ha ricevuto. La coscienza è, pertanto, sensus sui, come dicevano i Romani, cioè un sentire se stessi come comunicazione delle parti dell’anima tra loro, anche se molte delle quali sfuggono o sono precluse allo stato di veglia: insomma è l’anima che usa la coscienza come una potenza in suo possesso. Plotino precisa che lo status di intermediazione dell’anima, tra l’Intelletto e il sensibile, consente alla stessa, e quindi alla coscienza, un’opera di unificazione delle impressioni e delle sensazioni che vengono dal basso, dal corpo e questo è propriamente quello che noi moderni chiamiamo coscienza che è anche il fare scendere verso il basso le Idee che provengono dall’alto cioè dall’Intelletto; però, precisa Plotino, noi pensiamo sempre, siamo sempre nel pensiero puro ma non ne abbiamo coscienza poiché, afferma,una cosa è il pensiero, altra cosa è la coscienza del pensiero! Qui si entra nel cuore della quaestio, poiché il grande neoplatonico, suggellando lo scrigno della sapienza classica, chiarisce che affinché si abbia la unione della coscienza con il pensiero, avendo coscienza dello stesso, è necessario, alla luce di tutto il suo insegnamento, che l’atto puro del pensiero, il suo logos, venga riflesso sulla superficie dello specchio dell’anima, producendo così la percezione cosciente del pensiero, che è la facoltà di forgiare immagini speculari, quasi sensazioni e di porle sotto il controllo della coscienza medesima; ed è il Mundus imaginalis di Corbin e del grande mistico platonico persiano Sohravardi, mondo intermedio tra l’Intelligibile ed il Sensibile. Ora in tutto tale processo, che è discensionale e non ascensionale, essendo diretto verso il sensibile e non verso l’Intelligibile, come può l’uomo conoscere se stesso se il “se stesso” è una molteplicità complessa di simpatetiche parti dell’anima che con l’Intelligibile, che è l’Intelletto ed è il principio semplice, in quanto pensiero-pensante che è tutt’uno con il pensiero-pensato, non ha nulla in comune essendo ontologicamente dissimile poiché inferiore allo stesso? Plotino, infatti, proclama (Enneade I, 4, 10) che, quella che noi chiamiamo coscienza o stato coscienziale non solo non è necessaria, ma anzi è dannosa al pensiero, alla virtù ed alla felicità essendo la coscienza dell’atto, impedimento, nell’azione, alla energia dello stesso in quanto: prendere coscienza è sempre un restare al di fuori di ciò che si coglie! La coscienza infatti si produce quando il pensiero puro si divide, come se cadesse su di uno specchio; è proprio per il fatto di essere cosciente che l’anima è superiore al corporeo ma inferiore al pensiero puro.
E tutto ciò non è, in guisa impressionante, l’eguale discorso, la stessa sapienza espressa dal giovane samurai (nel recente film L’ultimo samurai) nel suggerire a colui il quale sta apprendendo l’arte della spada, con l’esercizio della stessa, di farlo “senza mente” il che vuol dire: senza coscienza dell’atto o degli atti che sta compiendo? Plotino, infatti, come lo stesso Platone, afferma che per comprendere il Bello, la Bellezza è necessario il semplice essere tutt’uno con il Bello medesimo, in una reale unione intima, una autentica identificazione, un essere la cosa “compresa”: non è sufficiente, infatti, avere l’immagine cosciente del triangolo situata nel tempo e nello spazio, si deve fare astrazione dalle immagini particolari per poter passare all’Idea pura, è necessario uscire dalla coscienza, non essere più io e coincidere con l’Intelligibile; ciò significa essere il principio dell’Idea che le anime, nel Fedro (249, c 6) vedono dall’Iperuranio e conoscono nella sua autentica e quindi divina natura. Pertanto, tutto quello che si trova sotto il “governo” della coscienza sono le cose a noi più estranee e quindi meno nobili, mentre della cosa che è la nostra vera natura e quindi quella nobile in quanto divina, ed è il Pensiero, di questa siamo incoscienti, epperò tale assenza di coscienza ci consente, afferma Plotino, di tenere in nostro possesso tutto ciò che essenzialmente ci appartiene, facendo coincidere il nostro autentico essere con la scienza di noi stessi (Enneade, IV, 4, 28); anzi Plotino conclude che “si può possedere incosciamente qualcosa meglio che se si sapesse; poiché se lo si sapesse si possederebbe come una cosa estranea, mentre, ignorando si tende a fare tutt’uno con ciò che si possiede …). Quindi, per Plotino e per tutta la Tradizione classica, la coscienza implica sempre l’esteriorità del soggetto rispetto all’oggetto ed infatti la realtà psichica dell’Io come coscienza che si pone di fronte al Mondo, opponendosi allo stesso in quanto ad esso estranea, si manifesta per la prima volta, come fatto inaudito per la cultura elleno-romana, solo con il solipsismo di Agostino d’Ippona ed il suo dualismo cristiano. L’assenza di coscienza dell’Idea da parte dell’uomo, in buona sostanza, consiste nel fare astrazione e cioè distacco, in qualsiasi circostanza, da tutto ciò che può riportare la nostra attenzione su noi stessi, da tutta la molteplice causa della nostra instabilità psichica che ci rigetta verso noi stessi, da tutte le immagini che dell’Idea si sono riflesse sullo specchio della nostra coscienza, da tutta questa congerie di stati d’animo che ci inchiodano in uno stato di esteriorità nei confronti dell’Idea: l’uomo, se così procede nell’ascesi filosofica, che è il Rito interiore del Sapere, può giungere a coincidere con la stessa Idea, sarà un tutt’uno con la sua eternità, non sarà più Io in quanto saprà che tale fantasma non è mai esistito, anche e soprattutto perché, incosciente di ciò e di quanto l’Idea stessa sia il puro pensiero, egli non fa che pensare e, quindi, conoscere se stesso, e ciò è il Gnòthi sautòn! Per l’Intelletto infatti, pensare ed essere sono la stessa cosa e l’Intelletto, non ha coscienza poiché non ha percezione né sensazione, il Nous è il Kòsmos noetòs, il mondo Intelligibile, dove vi sono, come divine realtà, tutte le Idee ed ogni Idea è un nòeton, cioè un “oggetto” di pensiero. Tale divina dottrina, forse, è più comprensibile per la forma mentis moderna, atteso il precipitare verso la oscura materialità di quest’ultima, se si pensa alla esperienza del sogno, dove lo stato degli “attori” nello stesso è quello dell’inconscio, ma non in un’accezione negativa, come sempre la modernità induce a pensare, ma come una presenza immediata a sé, presenza a sé dove è radicalmente assente ogni precipitare riflessivo, trattandosi di una “coscienza” senza Io.
Ed è bene rammentare, al colto ed all’inclita, che lo stato del sonno e del sogno, che è la vita dell’anima in tale stato, coincide con il massimo di distacco dell’anima dal corpo, che è come dire, in termini ermetico-alchemici, del mercurio ignificato da quello lunare, che si possa realizzare in vita, essendo la morte la separazione più lontana nonché definitiva ed irreversibile dell’Invisibile dal visibile. Ed in ciò sussiste la essenza iniziatica della Filosofia come Ascesi, cioè esercizio del morire, del distacco, di cui fa insegnamento il Divino Platone nel Fedone (64, a). Non possiamo non ritenere, giunti a questo punto, che Aristotele, nel famoso frammento n. 15, tràdito da Simplicio, della sua perduta opera giovanile Perì philosophias, consistente in un giudizio abbastanza eloquente sulla natura del processo spirituale dei Misteri: “ouk mathèin allà pathèin”[1], dove è chiaro che lo Stagirita sta definendo l’esperienza dei Misteri come assolutamente estranea al “mathèin” che è il Sapere, l’Intelligibile, ma tutta (allà) compresa nel e relativa al “pathèin”, che è la dimensione animico-emotiva, abbia fatto riferimento, in virtù della sua visione del mondo, proprio a quanto poi giunse ad esplicitare Plotino medesimo, qualche secolo dopo, di cui abbiamo dianzi trattato, indotto, forse, dalla crisi spirituale della Civiltà classica e del suo oggettivismo gnoseologico, insidiata, infatti, dalle prime avvisaglie di quel pathos soggettivistico, irrazionale e sentimentalistico che, provenendo dalla cultura medio-orientale, si presentava con le sembianze, peraltro molto simili a quelle degli antichi Misteri, e della setta cristiana quanto di quella gnostica, essendo le stesse, nella loro perniciosa essenza, proprio quel “pathèin” di cui aveva parlato Aristotele. Egli aveva tracciato, infatti, il confine autentico tra lo spirito indoeuropeo e quindi sapienziale del vero Mistero che è la Filosofia quale Sapere assoluto che è l’essere il Divino e l’intero mondo dei Misteri, estraneo da sempre sia alla spiritualità ed al culto olimpico tradizionali che alla successiva sapienza filosofica che da quel culto proveniva, essendone la dimensione esoterico-iniziatica[2]; nella stessa guisa e nel medesimo tempo storico (la crisi assiale del VII – VI sec. a.C.) in cui nell’India Vedica apparvero le Upanishad, che erano l’insegnamento iniziatico avente ad oggetto la Conoscenza cosmica già contenuta negli arcaici e primordiali Inni Vedici.
Note:
[1] ARISTOTELE, De Philosophia, I, fr. 15, Rose, Roma 1963.
[2] K. ALBERT, Vom Kult zum logos, Hamburg 1982; P.A. FLORENSKIJ, Primi passi della Filosofia, Milano 2021.
(fine prima parte)
Giandomenico Casalino