Ascesa e caduta: le statue a Costantinopoli – seconda parte – Piervittorio Formichetti
(prosegue…)
Le statue che caratterizzavano Costantinopoli tra antichità e medioevo erano dunque parte integrante e non marginale di una concezione dell’urbanistica ispirata – come ha scritto lo storico Ennio Concina – ad «un vero e proprio programma di rappresentazione trionfale dell’idea imperiale, affidato a interventi di magniloquenza architettonica operati su piazze e crocevia», nel quale «le vie magnæ, maiores, perpetuæ e i Fori sono intesi come theatra maiestatis, luoghi deputati alla rappresentazione dell’idea imperiale, della vigile, superna sovranità di colui che si leva “come un altro Sole”: le statue si innalzano sopra la gente e il quotidiano […], su di uno spazio urbano che, per la natura del sito, è metafora del mondo». Per le stesse ragioni, le tensioni sociali e i conflitti politici e religiosi interni alla società bizantina si manifestavano soprattutto nei luoghi emblematici e più frequentati delle città: le terme, le chiese, le piazze, i porticati, «dove i passanti si accalcano, dove si svolgono feste e luminarie». Così alcune statue imperiali, raffiguranti Teodosio I e i suoi familiari, vennero abbattute ad Antiochia nel 387 dai cittadini insorti contro un aumento delle tasse; alla sommossa seguì però la paura per la reazione del potere imperiale, così il sacerdote cristiano Giovanni Crisostomo scrisse e pronunciò ben ventuno «Omelie sulle statue» per confortare i fedeli. A Costantinopoli, nel 404, proprio i sostenitori di Giovanni Crisostomo – nel frattempo divenuto patriarca della capitale – oltraggiarono le statue dell’imperatrice Eudocia, moglie di Arcadio, che gli era ostile. Con Giustiniano I, nell’anno 562 i libri e le immagini sacre degli «hellenes» (cioè i seguaci delle religioni pagane) furono bruciati pubblicamente nell’anfiteatro, così da inscenare lo «spettacolo della sconfitta e della morte degli dei». Nell’anno 609, il «rozzo e sanguinario» imperatore Focas, durante uno spettacolo ippico da lui organizzato all’ippodromo, fu insultato dai demi della fazione Verde; molti di essi, per questo affronto, «furono mutilati […], altri decapitati, altri ancora infilati nei sacchi e annegati nel mare». L’anno seguente, giunto sul trono Eraclio, nell’ippodromo venne bruciata la statua di Focas insieme allo stendardo degli Azzurri.
A partire dalla fine del lungo regno di Giustiniano, infatti, si manifestarono in modo evidente i segni di una crisi socio-economica che, già presente nei secoli precedenti, si aggravò in concomitanza con eventi bellici. Giustiniano dovette versare «moltissimi denari agli Unni che continuavano a fargli visita, per scopi politici; conseguenza ne fu che il territorio romano restò esposto a frequenti invasioni. E questi barbari, gustata la ricchezza dei Romani, non vollero più abbandonare la strada che portava qui» (Procopio di Cesarea, Anekdota, VIII, 5); l’imperatore fu poi costretto a continuare a pagare per evitare il peggio anche con i Persiani (Anekdota, XI, 5-12). Alle incursioni persiane si aggiunse la peste, che dal 542 al 544 si dice abbia fatto trecentomila vittime nella sola Costantinopoli, cioè circa metà della popolazione, provocando un calo demografico e riducendo, nelle campagne, i produttori di risorse primarie e il loro bestiame negli anni seguenti. Sommosse causate dalla scarsità di grano o di pane accaddero a Costantinopoli negli anni 409, 412, 431; nel 560 si sparse la falsa notizia della morte di Giustiniano e la popolazione assaltò le panetterie. Un’altra sommossa causata dalla penuria alimentare scoppiò nell’inverno 600-601, quando l’imperatore Maurizio, guidando una processione religiosa, attraversò un quartiere abitato da demi della fazione Verde che lo fecero bersaglio di una sassaiola. All’inizio del VII secolo, i Persiani guidati da Cosroe II varcarono il confine mesopotamico, coinvolgendo i Bizantini nella lunga guerra tra il 605 e il 626, fin quando l’imperatore Eraclio riuscì a salvare Costantinopoli dall’assedio. Dopo meno di vent’anni dalla vittoria, Eraclio dovette affrontare, sui confini meridionale e orientale, la minaccia degli Arabi, che «sotto la bandiera dell’Islam» in pochi decenni occuparono la regione siro-palestinese, e poi, in più fasi tra il 642 e il 708, l’Egitto e l’Africa settentrionale; la stessa Costantinopoli subì due assedi arabi, nel 668 e nel 717-718. La capitale si salvò, ma l’impero cristiano subì perdite territoriali enormi, e da questo momento, «di fatto, il sovrano bizantino cessò di essere il signore dell’ecumene». Il confine opposto, che coincideva con il Danubio, nell’ultimo terzo del VI secolo fu oltrepassato da popolazioni slave, soprattutto Àvari e Bulgari, che si stanziarono progressivamente nei Balcani e nella penisola greca. Dal 681, la zona balcanica divenne un regno bulgaro con insediamenti sia slavi sia bizantini a macchia di leopardo, nei quali una vita urbana era quasi inesistente. Nell’811-812 i Bulgari giunsero ad assediare Costantinopoli, e nei trent’anni successivi le campagne militari bizantine nei Balcani non riuscirono a respingerli fino alla metà del IX secolo, quando Bisanzio si riprese la Grecia; soltanto all’inizio del XI secolo Basilio II, «a costo di guerre incessanti», sconfisse i Bulgari riportando al Danubio il confine bizantino.
La Costantinopoli dei secoli VII e VIII divenne quindi una città in decadenza, in cui si potevano riconoscere gli spazi della grande capitale di Costantino e di Giustiniano, circondata e protetta dalle possenti mura di Teodosio II (che crolleranno sotto i colpi delle bombarde ottomane soltanto nel 1453, cioè mille anni dopo la loro edificazione), ma che appaiono «svuotati del loro significato e costituiscono ormai poco più che quinte sceniche isolate in vaste aree deserte» (Enrico Zanini). L’ultima colonna celebrativa sul modello degli antichi Romani era stata quella innalzata in onore dell’imperatore Focas, che regnò fino al 610. Tuttavia la presenza delle antiche statue continua a emergere.
Lo Strategion, una delle due agorà di Costantinopoli, divenne un ambiente in cui si svolgevano esercizi militari (dai quali verosimilmente la piazza prese nome) e attività come il mercato del bestiame e la lavorazione dei setacci; vi furono costruite cinque chiese, ma conservò gran parte delle statue collocate da Teodosio I, e probabilmente anche una sostenuta da una colonna in porfido fatta collocare da Costantino I, raffigurante il Fondatore stesso a cavallo che «sollevava, altissima, la Croce». Al contrario, le numerose statue che avevano ornato le Terme di Costantino (ancora esistenti all’inizio dell’VIII secolo, ma non più frequentate) erano andate distrutte, tranne – pare – una che rappresentava Perseo e Andromeda; tuttavia, nel X secolo, secondo una raccolta intitolata Patria (Memorie patrie) le terme «costantinianæ» non esistevano più e questa doppia scultura di soggetto mitologico era stata trasferita all’interno del Palazzo imperiale. Come la frequentazione delle terme, anche la recitazione teatrale scomparve, non a causa dei giudizi eccessivamente moralistici da parte delle autorità cristiane, ma perché, pur essendo «un’attività sovvenzionata, una manifestazione dell’evergetismo di Stato verso le città», dagli ultimi anni del regno di Giustiniano I in poi lo Stato preferì dirigere la propria attenzione e il proprio denaro soprattutto alle fondazioni religiose. Da un episodio raccontato nella Vita di sant’Andrea il Folle, sembra che anche l’antico anfiteatro di Costantinopoli, il Kynegion, non lontano dal Palazzo imperiale, fosse abbandonato, perché vi si accampava «la gente proveniente dalle province»; nel IX secolo divenne il luogo delle condanne a morte, e probabilmente già da tempo era usato come fossa comune per i condannati. Nonostante ciò, vi si trovavano ancora alcune statue che da secoli lo adornavano; da buona parte del popolo, però, erano percepite quali presenze non più emblematiche (come in epoca tardoantica) bensì inquietanti, magiche, se non addirittura maligne.
Nelle Parastaseis syntomoi chronikai, cioè «Brevi notizie storiche» – raccolta dovuta probabilmente a più autori entro la metà dell’VIII secolo – si racconta che durante il regno dell’imperatore Filippico (711-713) una di queste statue era crollata su un uomo uccidendolo; la reazione della comunità fu superstiziosa: «I parenti del defunto e gli amici dell’imperatore si recano allora al Kynegion e vedono la statua crollata. Un filosofo grida: “Per la provvidenza divina, io ho letto nelle opere di Demostene che un uomo illustre sarebbe stato ucciso da questa statua!”. L’imperatore ordina allora che la statua sia sepolta, e non distrutta, perché sarebbe troppo pericoloso, e l’autore [del racconto] conclude: “Prendete tutte le precauzioni, cari amici, quando osservate le statue, soprattutto quelle dei pagani!”». Le statue nella Costantinopoli alto-medievale, dunque, erano elementi perturbanti. Per calmare con un gesto spettacolare la «gente delle piazze, sediziosa e turbolenta», durante una sommossa l’imperatore Michele I (811-813) fece mozzare le mani a una statua, non a caso quella della «Tyché», la Fortuna di Costantinopoli. Tale decisione è, curiosamente, l’esatto contrario di ciò che avviene solitamente dall’antichità ai nostri giorni: anziché essere una parte del popolo a colpire la statua in quanto simbolo del potere, in questo caso è il massimo rappresentante del potere che, conoscendo la superstizione della maggior parte del popolo, deturpa una statua (pagana) per provocare uno shock momentaneo nella folla in tumulto.
Episodi come questi indicano che i costantinopolitani del nono secolo «avevano perduto ogni contatto con l’antichità» e «non comprendevano più la funzione dei monumenti»: traumatizzati dalle guerre che hanno ridimensionato e impoverito l’impero, «in una Costantinopoli mezza abbandonata vivono circondati dalle vestigia di una civiltà morta. Tutto appare loro stregato, carico di magia, ed essi attendono con terrore un destino ancora più terribile» (Cyril Mango), come se l’eco della paura provocata dai fatti avvenuti durante i cosiddetti «secoli bui», avesse riportato alla memoria dei cristiani bizantini «la presenza occulta e nefasta degli dèi-demoni appartenenti agli hellenes idolatri, che un tempo avevano abitato entro quelle stesse mura» (E. Concina). Non è impossibile, quindi, che anche per questa ragione (fra altre filosofiche e teologiche non meno importanti) la Cristianità greco-bizantina – estendendosi nei secoli da Costantinopoli verso nord-est e dando vita al Principato di Kiev, dal quale nascerà poi la grande Russia ortodossa – sviluppò il culto dell’immagine sacra nella forma bidimensionale delle inconfondibili icone, che raffigurano il Cristo, la Vergine Maria, i personaggi biblici e i santi antichi e recenti dipinti su tavole in legno e resi con uno stile pittorico nel quale il realismo e la tridimensionalità dei corpi e dei volti – caratteristiche costitutive e fondamentali delle statue – sono soltanto suggeriti, anziché esplicitamente espressi.
Riferimenti bibliografici
Bibliografia citata in Piervittorio Formichetti, La città bizantina, tesi di laurea triennale in Scienze dei Beni culturali, relatore prof. Mario Gallina, Università di Torino-Scuola di Scienze umanistiche, A. A. 2013-2014 (http://www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=48550).
Piervittorio Formichetti