Arturo Onofri – Primo sguardo – Stefano Eugenio Bona
Arturo Onofri – ovvero quando la poesia metafisica parla al di là del tempo, ma la ricezione critica l’ha solo intesa secondo la sua epoca, per parafrasare una celebre frase di Taulero su Maestro Eckhart: “Egli era venuto a parlare dal punto di vista dell’eternità e voi l’avete inteso secondo il tempo” (1).
Poeta schivo, disciplinato, non si curava che del proprio tempo interiore: ”Riuscite a negare il tempo, e troverete l’eternità. Ciò è facile, poiché tutto, pur nella trasformazione, è eterno e indistruttibile: noi siamo eterne metamorfosi; siamo sì nel tempo ma insieme al di fuori del tempo. Guai a coloro che vivono come fossero solo nel tempo!”.
Questo estratto dal diario inedito Selva (letto attraverso lo studio di Franco Lanza: Arturo Onofri, Civiltà Letteraria del Novecento, Mursia, Milano, 1973) non è un testo di un mistico medievale, ma un bagliore dell’Onofri-pensiero.
Andiamo agli inizi, agli esordi e alle sue prime pubblicazioni. Sarà un percorso nella sua biografia e vedremo l’evolversi di un linguaggio poetico unico, quindi la metamorfosi verso il Ciclo Finale, ove si manifesta una sacralità incomparabile ad altre affermazioni letterarie del Novecento…In Italia ma anche fuori…
Arturo Onofri nacque a Roma il 15 settembre del 1885, da Vincenzo e da Beatrice Shereider, polacca. Di buona famiglia borghese, trascorse tranquillamente l’infanzia, ricevendo stimoli culturali già in adolescenza, con notevoli spunti dalla cultura mitteleuropea, di cui sarà imbevuto in maniera anche superiore rispetto a quella propriamente italiana.
<<Gli appunti autobiografici>>, precisa Franco Lanza nella sua densa monografia <<ci hanno testimoniato anche la topografia dell‘adolescenza di Arturo, tra l‘una e l‘altra straducola del vecchio centro storico in cui di volta in volta la famiglia fissava la residenza: via degli Schiavoni, piazza dell‘Oca, via Mario dei Fiori, via Borgognona – Era la stessa conca scenografica delle avventure dannunziane, tra il Quirinale e il Pincio, ma osservata da tutt‘altra angolatura: la Roma barocca parlava a lui con luci di sperpero gaudente>> (2).
Gli Onofri alternavano la residenza nell‘Urbe al soggiorno estivo e autunnale a Castel Gandolfo. Il poeta, già inquieto e brillante, cercava una solitudine d’elezione fin dalla fanciullezza, e si trasportò nel nuovo secolo con disincanto, con quello sguardo magnetico riportato da diverse testmonianze, come quella di Sibilla Aleramo, che lo conobbe nel periodo della piena maturità: “Cari occhi celesti traslucidi di ineffabile bellezza…Nessuna aurora sul mare, nessuna discesa d’ala notturna sui monti mi ha mai, come quei due sguardi di Onofri, messa così di fronte all’indicibile…” (3). L‘esordio poetico di Onofri si compì a ventidue anni, nel 1907, con una raccolta di trentun liriche composte tra il 1903 e il 1906. Per tastare lo spleen della prima produzione è molto importante il torpore corazziniano. Ovvero la Roma trasfigurata, arsa di una luce che tutto avvolge in una triste musica d’organo di Barberia; eppure in Onofri il languore sparso in un crepuscolo romano, diviene subito un’apertura senza frasi esangui. Prendiamo le prime tre raccolte: Liriche, Poemi Tragici e Canto delle Oasi, è tutto un sommovimento per cercare una risoluzione alle ansie crepuscolari e decadenti. Vi è il senso d’oppressione nei confronti dei conformismi, e nel saggio della Dolfi (insieme al Lanza tra i pochi testi a donare una testimonianza critica di qualità) troviamo un inquadramento ficcante: << l’addio di Gozzano era stato mosso da desideri inespressi, da vaghe inquietudini destinate alla frustrazione, dalla dannazione e scelta di essere piccolo borghese intellettuale romantico, incapace di individuare un destino preciso o identificarsi con i ritmi di una dimensione vietata; il rimpianto di Gozzano è sempre proiezione a posteriori, ricorso all’aoristo e all’imperfetto, ricostruzione di un’aura di possibile felicità ostacolata da una sorta di fatale destino infelice; il commiato di Onofri è invece una scelta in rebus, consapevole rifiuto dei “piccoli palpiti”, per la vita da condursi in sogni primitivi, assolati, contrassegnati da eterna giovinezza; è il taglio netto opposto al passato, alla tentazione crepuscolare e borghese per l’adesione alla chimera di una partecipazione cosmica che possa allontanarsi dalla pascoliana poetica dell’oggetto, che possa scordare il valore singolarmente emblematico delle piccole cose. Una nuova era si profila nella propulsiva tensione all’invocazione evidente, al risveglio, alla rottura di un vecchio ordine; l’impegno interventistico iconoclasta contro gli idoli del vecchio mondo (Interludio propulsivo) si traduce in violenza verbale, in inno alla luce. La pascoliana lampada e la tematica pascoliana della fiamma, del calore e del desco, dei “bimbi giocondi”, degli “uomini mondi”, della “favilla notturna d’amore” si mescola alla fiduciosa speranza di un bagliore (Interludio della fede), di un segnale che conduca fuori dall’oscurità, che si offra all’affannoso invocare della solitudine: – Io veglio qui solo, affannoso invocando / i primi bagliori del sole>> (4).
Utile ascoltare il saggio della Dolfi anche sull’eredità dei “vecchi maestri”, dove si citano dei passaggi dai Poemi Tragici, tali perché sentono lontane le suggestioni e le soluzioni date dai conclamati maestri del panorama letterario italiano: << Come già agli scapigliati e ai crepuscolari, anche ad Onofri la lezione dei vecchi maestri offre false soluzioni, inadeguate sia al sogno di una mistica unione, sia all’impotenza del raggiungimento, alla delusione dell’inazione: – Io nulla so, ma so che voi mentite,/ pur non sapendo di mentire il vero // poi ch’è pur vera questa angoscia orrenda / cui l’Infinita eternità ci astringe. / A che tentare questa infame Sfinge / se giammai verità su noi risplenda? >> (5) .
Comunque ci si muovesse nella cultura italiana dell’epoca, le Tre Corone (Carducci, Pascoli, D’Annunzio) erano da tenere in considerazione, ma soprattutto l’anelito verso un’alta poesia d’impegno civile del Carducci è lontano e non soddisfa il giovane Onofri. Sul Pascoli avremo modo di seguire il suo risguardo dettagliato, mentre spiragli dannunziani sono presenti, pur fitrati via via, depurati dal dionisismo e dall’estetismo autoreferenziale.
Nel primo Onofri l’ardore è palpabile, oscilla tra sensibilità crepuscolare, adesione ad una cultura romantica (ma da post-romantico…), simbolismo, decadentismo pascoliano e qualche goccia di panismo dannunziano. La prima raccolta Liriche è più dannunziana e prometeica, la seconda Poemi Tragici decadente e pascoliana. Già Canti delle Oasi è un momento di quiete espressiva dopo i primi turbamenti. Come un’attesa prima di solcare altri mari.
In questi primi poemi la concezione della Natura è in versi d’una stilistica tensione dall’identificazione irrisolta, e la riduzione panica che configura Onofri non è certo allestita con la medesima convinzione pagana e affermativa del Vate pescarese. Così il moto animico alla fine dei Canti delle oasi:
– Per confondersi con la natura
Madre, ch’io mi dimentichi della mia forma umana
per confondermi in te, nella tua vita immensa;
ch’io rompa la strettoia della mia fosca tana,
ove sto nella triste obliquità che pensa:
per sentir nel mio sangue il brivido solare
della tua pura vita: ch’io chiuda in me la mattina,
dopo gli amori dell’alba nelle siepi di nocciuolo,
gli aromi tuoi più buoni: lo spigo, la cedrina,
e i tuoi profumi più dolci: le fresie, gli oleandri.
Ch’io oda in me il brusio dei teneri germogli
che erompono dagli orti cinti di caprifogli,
ed in fondo al mio cuore, come tu nei meandri,
io senta un fresco e tenue gorgoglìo di sorgenti.
Fa ch’io sappia nutrire delle mie fibre il grano,
e pur lo spino che ruba i biòccoli di lana
al gregge; fa che su me il maciullar degli armenti
sereno ascolti, tra il vago ronzio dei calabroni,
e il crepitio delle stoppie che, ardendo come un richiamo,
fugano qualche quaglia nelle notti d’agosto
profumate di timo! fa che fra ramo e ramo
il vento veloce che vibra mi strappi le foglie secche;
fa ch’io sia te, che tutto l’immenso tuo potere
e di mari e monti, di nevi e di primavere
sappia alfine calmare i miei sconfinati desideri.
Madre, ch’io mi dimentichi della mia forma umana
per confodermi in te, nella tua vita immensa;
ch’io rompa la strettoia dela mia fosca tana,
ove sto nella triste obliquità che pensa.
Dice la Dolfi: << Le quartine si variano e ripetono nella conferma chiastica della preghiera…Il testo conferma l’impossibilità dell’unione, mentre la dicotomia appare nevrotizzata dall’insistenza sui pronomi di prima e seconda persona…un io/tu che accresce la nevrosi della cupiditas…>> (6). È importante sottolineare come nel primo Onofri ogni forma ereditata dai “vecchi maestri” sia costrizione e gravame insopportabile, dalla “fosca tana” ci si solleverà pienamente nella fase finale, quando avrà trovato la piena espressione della propria verticalità (tutta la fase giovanile e poi quella successiva sono delle autochiarificazioni preparatorie). Non possiamo dimenticare per situare il primo Onofri certamente D’Annunzio e il decadentismo sì, ma quello altro, nella vicinanza d’animo che il poeta romano strinse con una sensibilità di stampo simbolista d’Oltralpe e non solo. Nel periodo di ricerca e d’irrequietezza, nello sperimentalismo della prosa d’arte e nei versi più ampollosi, si rintracciano somiglianze d’un determinato panismo nel tratto, nel colore riversato, fino all’aspetto sensibile: nell’estetica dei volti e nelle pulsazioni sottili in scena. La grande differenza è nel respiro di tali note incarnate dalla poetica: nel Vate la fase in cui si rilascia e si risolve l’anelito in un dramma erotico e financo aderente ad un immanentismo, in Onofri è il respirare il soffio della Natura; Pan inspira per connettersi con la visione unificante, in un Cosmo altresì come fosse la rifrazione in un leggìo naturale. Questo assume una forma scolpita in maniera implacabile, attraverso l’assunzione di un conio linguistico metodico e già fuori dal (suo) tempo, fin dai primi esperimenti.
Panismo mediato da una consonanza con un ritmo in levare della sua Natura, nel battere e levare goethiano presentito (pre periodo steineriano) egli sceglie comunque una forma di distacco necessario, nonostante i topoi decadenti della sua prima fase, in Onofri non c’è mai l’abbandono ipersensuale. Se mai la cifra erotica delle consonanze è all’interno di una visione aristocratica. La vita giovanile già come sforzo, ricerca, poliedrico miracolo da rintracciare in ogni manifestazione, tensione mai vitalistica ma spinta all’Unità. Anche l’accezione specificatamente erotica è comunque all’interno di un più-che languore, concreto atto eroico di potenza, ad esempio in Liriche del 1907: << Saprò soggiogarti, o Divina/che reggi il miracolo insigne? >>. Già nella prima raccolta, la legge dell’Essere si manifesta rivelando la vita come eterno svanire, necessitante di una spinta conoscitiva totalizzante. Lo status definitivo come raggiunta unità: << O Vita, che porti adunate/ le belle potenze dell’aspra/ Materia del Cosmo/ l’attuazione tu sei più recente/ (non già la postrema!)/ del Sogno magnifico dell’Infinito:/ la Perfezione Immutabile >>. Se si denomina “panismo”, è in una forma di stupore sottile…
Indice di grande personalità, di volontà attiva, sentore ipercritico d’inadeguatezza nei mezzi d’espressione, come un sacrificio da espletare non appena si licenzia il libro, così il lamento, l’esortazione (forse già preparando quel farsi da parte dell’elemento personale che sarà cruciale nella fase finale) dalla nota introduttiva di Onofri stesso a Liriche: << O mio libro, ti scaglio lontano da me. / Più non ti voglio, né più ti conosco per mia creatura. Troppo sei antico perché tu possa ancora cantare dell‘anima mia che si muta ogni giorno (oh quanto ora diversa da quella che cantò la più antica di queste liriche!). / Libro, io ti distruggo e ti getto. M‘è necessario sacrificarti sull‘ara della mia Volontà perché tu ceda l‘aria e la luce ad altre più belle creature che già m‘ho composte. / Non imito, io forse, in questo sacrificio l‘opera sempre nova dell‘eterna Natura? >>.
È come una dichiarazione d’insoddisfazione verso la cultura come stato meramente cerebrale, camposanto e ombra di un’azione necessitante “stati” superiori, prove da compiere in una rifrazione dal poeta al poema – dal poema al calice da porgere ad una comunità nuova, di Fedeli all’Amor di Parola. Nuovo calore e nuova Luce che già in questo periodo scorge con Novalis e i simbolisti francesi, ma anche loro sono i grandi maestri da superare, per cercare se stessi, la propria fissazione. Così come Corazzini, Poe, Leopardi e Pascoli (pur amati) sono vittime e bersagli di questo gesto: il primo libro come malnato, il bisogno di seguire l’eterno e incessante rimescolio eracliteo della Natura, unico faro.
Il bisogno di non bastarsi: dichiarazione d’esordio, in questo solco portarsi là dove solo la grande letteratura dei Pessoa, degli Yeats, degli Stefan George è giunta. In un precedente intervento avevamo accennato a questa dimensione, per cui << I movimenti di conservazione, di sfaldamento e di avanguardia nella moderna cittadella delle lettere non recuperano quello che conserva Onofri: un cammino rituale, nel quale la poesia viene stesa (e intesa) quasi giornalmente, come meccanismo al contempo di ricerca e di fedeltà alla propria natura. In una via di disciplina permeata da una “poesia come religione” che si avvicina, a mio avviso, ad una concezione simile a quella di Stefan George, autentico Poeta-Torre, mago della Parola. Tutto ciò non in nome dell’art pour l’art, ma di una concezione ben più severa ed austera >> (7) . Poesia esoterica che fa di Onofri “ il poeta italiano che più si avvicina all’uso del simbolo e del linguaggio anagogico quale si rintraccia in Yeats e Pessoa ” (8).
Nel volume giovanile Liriche si alternano malinconie e risoluzioni paniche, sensualità di un sapersi proiettato in infinito, il mistero, l’impegno eroico. Un’allure di sicuro superomismo dannunziano è pur presente in alcuni passaggi: “volgo turpe” (Esortazione), “orda plebea” (Dall’antro). Panismo è talvolta davvero manifesto, prendiamo Trionfo della vita: << Io sono l’ultimo fauno/bramoso che vuole creare/ un nuovo dio dal nostro amplesso anelo >>. L’elezione aristocratica, il “muto disprezzo”, il “riso”, tipici della prima fase del desiderio onofriano, concretizzati in spinta vettoriale, in tensione, in ansia orientate verso l’annullamento anche fisico della dimensione biologica, si frangono nel privilegio dell’universo sulla terra, nella funzione princeps e rivelante della cosmogonia finale.
La partecipazione onofriana a tali vedute, troverà certamente un punto focale e pacificante nell’adesione steineriana. Già nelle prime raccolte Onofri opera un recupero degli archetipi, la poesia pur diafana e lunare in confronto col Ciclo Lirico finale (dove sorge intenzionalmente il Sole come apoteosi di vita in soglia di sua morte fisica, tra l’altro) si fa cogliere come perla rara e sfavillante in “spirtale albore”, sempre per citare le Liriche. La poesia prima è acquea, medusea e enigmatica – cifra costante ma più rilevabile qui, paradossalmente, che nella poesia iniziatica della fine (poiché qui è più comunque ricerca e sperimentazione e la parola acclama un potere suscitativo in sé stessa, non è entro una cornice conoscibile anche coi testi teoretici steineriani….). Poi qualche allusione erotica, di bianco e rosso sfolgoranti nelle righe, come fossero stati alchemici insufflati e riversati in versi…
In queste liriche riferimenti certo massicci a Carducci, Pascoli e D’Annunzio, dantismi stilistici, ennui baudeleriano, leopardiano tedio, che si proietta però in un timbro agonico d’endecasillabo spazioso, vitalistico e triste al contempo. Onofri è poeta che già dall’inizio ama l’ossimoro come figura mai retorica, ma di sfolgorante Unità e sintesi su un piano mnemonico-eidetico. Ogni cosa, per segreta legge del divenire è in continuo movimento verso il recupero dell’archetipo delle origini. Le parole sono giochi spesso di acqua e fuoco, formano la bevanda che si muta in favilla individuale, fino alla trasformazione di ogni piano e oltre ogni mero riferire le cose, fino al trasmutamento vivo del Ciclo Lirico.
Poemi tragici e Canti delle oasi hanno un registro minore che però non deve trarre in inganno. C’è sicuramente qui più che altrove una corrosa e corrosiva anima corazziniana, echi gozzaniani (ad esempio passaggi come “giocosa/aridità larvata di chimere…”)…Una diversa alchimia del dolore, l’anima incrinata di Baudelaire, il poeta mallarmeano estraneo ai giochi, un’aura di grande stanchezza proprio in anni di acceso vitalismo. Cavicchioli, Civinini, Italo Dalmatico, Cardile e Federico De Maria sono solo alcuni dei poeti italiani più letti da Onofri, almeno nel periodo, che hanno radici di disillusione e d’inquietudini simili. Si staglia in questo contesto l’onofriana Stanchezza estrema (Poemi Tragici): << oggi mi sento mortalmente oppresso. /Nulla m’attrae fuorché silenzio ed ombra/ e la fredda acutezza d’una lama// per potermi sconfiggere in me stesso/ con ogni reo sofisma che m’ingombra / poi ch’aspra è ben la vita a chi più l’ama>>.
Per Onofri vedremo il quadro molto singolare nel quale tentare delle coordinate, certamente, ma d’altro canto la situazione era di passaggio tra settori pregni di uno Stimmung, di un decadentismo europeo ormai ben più che maturo. Passaggi ove l’arte stessa come espressione di una civiltà decadente può trovare giusta espressione in un ripiegamento…. Qui Onofri si situa, ma come farfalla che sa il suo bozzolo da lasciare, appena nata…Una risoluzione, una spasmodica ricerca di una verticale per uscire dal frammentismo e dalle brume del dopo Nietzsche. Lo spleen corazziniano esprime esemplarmente tutto questo sentire, ma ad Onofri non poteva bastare. Parliamo comunque di un autore morto lo stesso anno in cui la prima raccolta di Onofri vide la luce…Figura importantissima in apertura di secolo, poeta molto amato da Onofri.
Fu con la seconda silloge, licenziata a gennaio 1908, che Onofri iniziò a farsi notare. I Poemi Tragici, furono suddivisi in quattro sezioni (Primi poemi tragici, Interludi e poesie, Secondi poemi tragici, Sonetti) più un Commiato esortativo. “Di impeti saggiamente frenati, e di buoni respiri, e di attitudini a vedere poeticamente le cose ci son molti segni, in questi poemi tragici”commentò Massimo Bontempelli in Cronache di poesia, in Rassegna Contemporanea (9). L’amico Giuseppe Vannicola (violinista, traduttore, poeta, scrittore, animatore culturale), in una lettera inedita del 1908, inquadra abbastanza precisamente il momento e l’iter realizzativo: “Caro Onofri, la sua stoffa mi sembra di una qualità assai superiore a quella di cui certi giovani, che lei ed io conosciamo, sogliono ricoprire le loro anemie poetiche. Un drappo sobrio, bene adeguato ad una sensibilità calda eppur contenuta, e la cui ricchezza bisogna cercarla ad interiora, come l‘oro nel metallo di Corinto. Una tale qualità, oltre quella della tecnica, mi sembra enorme in un tempo come il nostro così pieno di grida sublimi per delle emozioni davvero miserevoli. Da queste parole, ella vedrà com‘io ami la sua poesia, la quale rivela non soltanto dei versi, ma, oltre i versi, un poeta. E appunto per quest‘amore, io mi permetto un solo augurio: quello di ‘mantenersi‘ fuori di quel cenacolo aragnostico la cui atmosfera mal s‘addice, mi sembra, a chi voglia respirare liberamente”. Il monito di Vannicola ebbe effetto contrario, e Onofri, comprensibilmente curioso, prese a frequentare la famosa saletta del caffè Aragno (i letterati si ritrovavano soprattutto nella terza saletta che Orio Vergani nel 1938 definì il sancta sanctorum della letteratura, dell’arte e del giornalismo) ma distaccato e severo, lontano da tutto, non si fece mai irretire veramente in nessun movimento, collaborò con molti, sempre mantenendo un certo distacco. “Un Vagabondo fuor da ogni cricca” si definì.
Collaborò con una certa convinzione alle riviste degli anni ’20, per motivi meta-poetici, e per un vero rinnovamento spirituale auspicato, pur con personalità complesse e distanti nella propria visione del mondo, ma di ciò parleremo più avanti. Un senso claustrofobico domina i Poemi Tragici. Prendiamo l’esempio di Commiato Esortativo: <<mia anima, tu senti d’esser lieta, ma t’illudi…/Ricorda quanto amavi nell’ardor canicolare/ pestare, in una corsa per la spiaggia a piedi nudi, / la morbida freschezza della rena in riva al mare>>…Le piccole cose corazziniane in un magma dove i rimandi posso essere molteplici…Onofri può essere cifra per comprendere i primi tumultuosi anni del secolo, a livello letterario Anceschi immise nella sua storica antologia dei Lirici Nuovi Onofri accanto a Campana, Cardarelli, Ungaretti, Saba, Montale e Quasimodo, tra i 20 autori scelti per una riflessione sulle varie tendenze; Luzi sentì l’importanza di Onofri e lo introdusse insieme a Pascoli, D’Annunzio, Campana tra i poeti dell’Idea simbolista, come lontano epigono di Coleridge, Hölderlin, Nerval, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e Mallarmé (ma se già nel primo periodo questa definizione è incompleta, tantomeno via via che si disvelava il compito, si scolpiva nel marmo dei versi la sua unicità…).
Prendiamo, dai Poemi tragici, la lirica Il cipresso e troveremo la tensione all’unità, il cipresso simbolo di morte trasforma “il gelido orror sepolcrale”: <<Io, tra radici sepolto, / commisto con gli umili germi/ terrestri, sarò dalle linfe dissolto / per alimentare l’Amadriade snella / conclusa nell’esile fusto / del mio sempreverde cipresso. / E rivivrò in una vita, più bella, / di folie e di becche. Sarà in un arbusto / trasfuso il mio fiore carnale>>. Esercizi ancora un poco sterili e toni abusati, certo, infatti la lezione di scapigliati e crepuscolari ad Onofri non offre quello sbocco agognato. Nelle prime raccolte un senso della notte disarma i falsi furori del giorno (tutto questo nel Ciclo Lirico sarà ribaltato nella vittoria del suo percorso….), qui la notte è strumento di Gnosi. E poi c’è il senso del fluire esistenziale, il Bateau ivre esemplificato, come in Ai confini: “ e raffiche e spume/ travagliano i canapi e l’avide vele;/ e a te che varcasti la foce del fiume/ in ansia di mare di mare di mare,/un pianto è nel cuore, di vane querele: /rimpianto del fiume del fiume del fiume ”.
Il macerarsi del Poeta trova un leggero rinfresco, come da titolo nei Canti delle oasi, più levigati, di un’eleganza squisita a volte, in parole di soffice broccato. Qui compare l’elemento musicale, esso è la natura che si muove in ritmi, da L’anima di Beethoven oggi corre la terra: << ed ecco per l’invincibile mistero musicale/ ferve in tutte le cose la Nona Sinfonia>>. I Canti delle oasi sono i canti della sospensione generale del giorno, anelito di una misura, nelle atmosfere attutite vi sono trasparenze, quando prima vi erano giochi di chiaro-scuro. I sentimenti hanno alone più sfumato e meno nettamente precipitosi nell’affiorar di senso. Felicità dell’attimo con sempre diffusa attenzione ad una certa cromìa (che contraddistingue l’intero suo percorso): “Oggi ho l’anima azzurra e al centro vi trema una stella”. Così in Passa la gente: << Io prediligo ai libri e alla fatica, /la liberalità di gente amica: // come ai più rari fiori d’una serra/preferisco lo svellere da terra // le viole e i ciclamini dalle macchie>>.
Un passeggiare silenzioso nei chiostri dell‘anima, nei luoghi d’elezione della generazione che ripiegava sull’intimismo delle cose semplici; la lettura de Canti delle Oasi offre un avvicinarsi cauto a un crepuscolarismo sinfonico, orchestrale, elegiaco: in omaggio non casuale a Fausto Maria Martini. Non mentono i titoli delle sezioni: Preludio (Sinfonia claustrale), Poemi del sole, Lacustri, Momenti vari, Preghiere, Commiato autunnale, Un rosario di malinconie. Canti delle Oasi come spazio per una convalescenza in realtà da rimandare, dovendo e volendosi tuffare ancora attivamente nella ricerca, constatando un perenne richiamo panico, come abbiamo visto in “Per confondersi con la natura”. Dopo Canti delle Oasi si riguadagna la vita ma come un Huysmans vagabondo, in un monachesimo da esteta dall’occhio puro…Questo era Arturo Onofri.
Note:
1 – Giovanni Taulero, I Sermoni, Edizioni Paoline, Milano 1997, p.223;
2 – Franco Lanza, Arturo Onofri, Civiltà Letteraria del Novecento, Mursia, Milano, 1973, p.20;
3 – Sibilla Aleramo, Gioie d’occasione, Mondadori, Milano, 1930, pp.139-141;
4 – Anna Dolfi, Onofri, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1976,p.34;
5- Ibid., pp.35-36;
6 – Ibid., p.49;
7 – Articolo sul sito di Stefano Eugenio Bona: http://www.stefanobona.it/blog/arturo-onofri-47/;
8 – Ibid;
9 – Anno I, Fascicolo 5, maggio 1908,p. 381.
Stefano Eugenio Bona