Arturo Onofri – Il Nuovo Rinascimento, l’Arte dell’Io – Stefano Eugenio Bona
Se intraprendiamo il terzo e fondamentale periodo, dobbiamo iniziare con dei testi che precisano la sua maturità tra l’Arioso e il Ciclo Lirico: soprattutto Il Nuovo Rinascimento come arte dell’Io (1925), il suo unico testo integralmente teoretico, unitamente alle teorizzazioni wagneriane ne Il Tristano di Riccardo Wagner, guida attraverso il poema e la musica (1924) e alla Prefazione de La scienza occulta nelle sue linee generali di Rudolf Steiner (1924). Prima di far parlare le armonie poetiche del Ciclo Lirico nel prossimo intervento, lasciamo la parola, per scomporre il titolo dell’opera teoretica, al Nuovo Rinascimento e all’Arte dell’Io. Riferendoci alla cronologia, riprendiamo il discorso interrotto con l’Arioso: ad esso seguirà una trasformazione, una nuda presa di contatto con “lo schema del possibile”, un metamorfico fare il vuoto come “in un mar senza sponde” [1], ove Ovidio pare evidente, maschera sottesa ad un gioco di armonie e correlazioni che fanno scoppiare di gioia il cuor del poeta, finalmente residente in una dimensione così pura e trasparente da riversarsi in pressoché quotidiane poesie, in una sorta di automatismo che ad alcuni ha fatto trarre paragoni con una scrittura medianica. Livello da Onofri ben trasceso, come riconosciuto da Evola in questo passaggio tratto da Poesia e realizzazione in “Krur-Rivista di scienze esoteriche” del 1929: “la poesia di Onofri è unica nel suo genere, e la critica che oggi l’affronta – per dirne bene o male – da un punto di vista forzatamente profano e letterario, è lungi dall’intravedere ciò che in essa vi è più di originale” – sono parole atte a dare un segnale preciso: l’arte di Onofri è una scorza, bellissima e preziosa e racchiude insegnamenti ben più profondi, preziosi rimandi ad una via per conoscere sé stessi. Evola coglie quindi l’aspetto dantesco, il parlare per i vari strati (con l’anagogico come forza dirompente e spiazzante per chi si ferma al senso letterale…) come nella Commedia, si direbbe, e non si accontenta di avvertire della qualità del poeta…In poche parole mette allo sbaraglio chi scrive e recensisce di mestiere. Per Evola questo basta ad inserire Onofri come collaboratore e a consigliare di meditarne i versi, e ciò sorpassa le pur ampie riserve su un tono ritenuto troppo declamatorio e talvolta evangelizzante, poiché funzionali a questo disegno (sempre in Krur): “restano molti elementi nella poesia di Onofri che hanno valore in se stessi, che corrispondono non a semplici “immagini” create dalla fantasia soggettiva del poeta, ma ad esperienze interiori reali, note e riconoscibili da parte di tutti coloro che sono abbastanza addentro alle nostre discipline. E la poesia di Onofri risolve questi elementi in ritmi verbali che hanno un particolare valore suscitativo”. La scienza dell’Io è quel che conta, al di là di un interesse che dovrà sì essere anche estetico, verso un poeta, ma non implica che il limitarsi al lato speculativo sia negativo. Ciò che è poesia in Onofri esprime degli “stati” che un altro potrà decidere di esprime in altro mezzo, ma permane la materia ricercata, esperita, la fissazione dell’Io in cifra “suscitativa” e musicale.
Nel periodo di “crisi orchestrinica” aveva approcciato Schuré e la sua esposizione dei Grandi Iniziati, l’eclettismo di costui avvinceva ma non con-vinceva in pieno: è su quest’onda che Onofri si avvicinò alla figura di Rudolf Steiner. Il poeta aveva bisogno di qualcosa di più fondativo ed operativo, e si entusiasma (ἐν ϑεός, alla radice) alla “nuova” dottrina già fin dalla costruzione stessa del Goetheanum di Dornach, il centro della dottrina antroposofica, che attira Onofri molto più che la teosofia (che Steiner abbandonò, lasciando il gruppo di Anne Besant…). Uno sguardo approfondito su Onofri non è solo utile per tracciare coordinate letterarie, ma anche perché egli fu nel cuore di un salotto romano molto particolare e molto influente in ambito esoterico: quello della baronessa Emmelina De Renzis, nata Sonnino, sorella dello statista Giorgio Sidney.
Divenne referente in Italia per l’azione di Steiner e nel suo appartamento Onofri andava a discutere sulle tesi antroposofiche, come su vari argomenti con il figlio stesso della nobildonna Giovanni Antonio Colonna di Cesarò (tra i convitati di Ur) insieme alle altre personalità convenute. Il Gruppo di Ur ebbe la genesi in questo salotto e sorse certamente come un ultimo disperato tentativo di influenzare le coordinate del giovane stato fascista in chiave sottile, ma per parafrasare Nietzsche: Il guadagno di tutti i guadagni era l’operare ed emanare in Sé, dal fulcro di una catena enormemente qualificata e variegata. In Ur comunque si ebbe una nutritissima rappresentanza direttamente antroposofica: oltre a Onofri (Oso) troviamo Colazza (Leo), il duca Colonna di Cesarò (Breno, Krur), Comi (Gic, prima steineriano poi cattolico), Corallo Reginelli (Taurulus, inizalmente antroposofo) ed un Moscardelli (Sirio) che se non a pieno titolo antroposofo, fu molto influenzato da Onofri. Comunque a noi preme ricordare che anche l’ala letteraria del Gruppo di Ur, ovvero Comi, Onofri e Moscardelli, si ritrovò in questo calderone di menti infuocate. Il periodo è uno snodo eccezionale, fascinoso e pieno di figure carismatiche, e del resto vi è tutto un intreccio di interessi culturali e di amicizie che ancora non è stato dipanato a fondo, per comprendere gli influssi reciproci fra questo gruppo di artisti/esoteristi.
Come asserisce Michele Beraldo (in L’Antroposofia e il suo rapporto con il Regime Fascista in Esoterismo e Fascismo): “il primo gruppo di studi antroposofici sorse con molta probabilità a Roma nel 1911 sotto l’auspicio di Steiner che lo chiamò Novalis e alla cui guida pose il suo discepolo più caro, il medico chirurgo Giovanni Colazza… Assieme al Novalis fece la sua comparsa a Roma un secondo cenacolo di steineriani chiamato Pico della Mirandola e presieduto dalla baronessa Emmelina de Renzis, tra le primissime, assieme a Colazza, a conoscere e frequentare da vicino Rudolf Steiner… Mentre a Decio Calvari e a sua moglie Olga (anche animatori della rivista Ultra) faceva capo la Lega Teosofica Indipendente. Terminata la prima guerra mondiale, la componente antroposofica, non ancora costituitasi in società nazionale, continuava a radunarsi a Milano e a Roma all’interno dei due gruppi ufficiali, mentre numerosi studiosi sparsi per l’Italia conducevano in proprio o in circoli ristretti lo studio delle opere di Rudolf Steiner e dei cicli di conferenze”. Beraldo definisce il quadro dell’epoca: “I maggiori interpreti e divulgatori: a Milano Lina Schwarz, a Roma Colazza, il duca Colonna di Cesarò e Alcibiade Mazzarelli, il poeta e compositore Lamberto Caffarelli di Faenza che, già teosofo, approfondì l’opera steineriana grazie alla mediazione di Alcibiade Mazzarelli, di fatto segretario del Gruppo Novalis”. Caffarelli incarnò al pari di Onofri assoluta indifferenza verso il successo e la fama e musicherà per la morte del poeta romano il poemetto Silfo, tratto dalle Orchestrine, rappresentato per la prima volta nel 1929 a Sanremo.
Beraldo nota come “nel 1922, preso il potere Mussolini, l’ambiente antroposofico italiano non sembrò rispondere negativamente. Il fatto che al Governo venisse confermato l’onorevole Colonna di Cesarò consentì forse di pensare che si potesse proporre, attraverso di lui, una diversa concezione del mondo”. Prima della cruciale opera teoretica, Onofri scrisse un articolo indirizzato a Giovanni Gentile, neo ministro della Pubblica Istruzione, nel quale si augurava molto un cambio tale che predisponesse qualche caratteristica realmente rivoluzionaria nell’interiorità dell’individuo risvegliato. Niente da fare, l’artista è spesso ingenuo e poco scaltro riguardo i fatti concreti della vita (quella politica poi!). Scrisse ciò in “Le Cronache d’Italia – Per un rinnovamento spirituale, novembre 1922; riedito tale e quale in Graal – Rivista di scienza dello Spirito anno I, n.1, gennaio 1983, e n.2, aprile 1983”: “…Senza una vasta, intensa e costante campagna di rinnovamento spirituale, senza liberare lo spirito asservito alla falsa politica, cioè alla politica economica di uno stato oramai decrepito, senza un’ardente campagna di rinnovamento della coscienza dei valori superiori ed inferiori, senza la fondazione di una nuova gerarchia sociale, non si potranno vincere del tutto le coalizioni del ventre, le sette, le cricche, i partiti, gli egoismi cinici, gli sfruttamenti sfrontati, i ciarlatanismi, le reali e finte ignoranze…La mediocrità più volgare e il banditismo affaristico, che si finge politico ma è solo quattrinaio, riprenderanno inesorabilmente il sopravvento, e in tal caso, novellamente coalizzati, tutto ingoieranno. Bisogna ridare ai nostri fratelli il senso dell’eterno e dell’universale, che è andato smarrito, bisogna far sentire che la vita ha un altro scopo. Bisogna dare all’Italia nuova un nuovo contenuto, una nuova realtà spirituale”. Una rivoluzione dello spirito con auspicati “caratteri antroposofici attraverso la traduzione di un capitolo del libro Tra Sfinge e Graal dello studioso steineriano Ernst Uehli, commentato nel 1922 su Le Cronache d’Italia e intitolato Il rinnovamento del sangue nell’artista come base dell’espressionismo” – precisa ancora Michele Beraldo.
Nel periodo Onofri curò anche l’introduzione a La Scienza Occulta di Steiner (di cui il poeta scrisse anche l’epicedio sul numero di Ultra del 27 aprile 1925), che uscì con traduzione della De Renzis. Ascoltiamolo mentre spiega con parole d’ardore il cammino ormai tracciato per lui: “Egli (l’uomo nuovo) dovrà nel più preciso e consapevole sforzo della sua vita interiore, sollevarsi mediante la sua volontà d’uomo terreno fino alla conquista di un metodo integrale, che, senza fargli smarrire sè stesso come io singolo, lo conduca alla coscienza, sempre più chiara e individualizzata, della realtà spirituale che effettivamente opera in quello stesso mondo dov’egli vive, pensa, lavora, soffre e indaga quotidianamente…”. Onofri è ambasciatore in Italia di un rinnovamento autenticamente agognato, sempre per comprendere come la sua non è una via meramente letteraria ma di scrittura palingenetica, continuiamo a citare dall’introduzione a Steiner: “è proprio l’orgoglio degli intellettuali moderni, quello che non sa dare la giusta importanza all’età complessa in cui viviamo, e che ci si presenta con tutti i suoi intricati enigmi da risolvere. Per questi enigmi non basta che noi siamo razionalmente o filosoficamente armati di teorie o di sistemi pragmatici, occorre che le nostre reali facoltà di conoscenza, di simpatia e d’immedesimazione col mondo siano altamente sviluppate ed abbiano vivo in sè stesse l’intimo significato di tutta la vita. È necessario, per questo, che arriviamo a conoscere ciò che l’uomo è in ciascuno di noi”. L’uomo dovrà essere risollevato e abituato a sentire una verticalità perduta nell’alienazione moderna, per cui: “Questo libro mostra dell’esistenza reale il fondo celato, e ci indica la trama di forze che opera dentro e dietro la nostra realtà di uomini; perciò è un libro destinato ad aumentare le nostre facoltà di partecipazione terrestre alla vita dell’universo”. Il poeta in questa prefazione trova veramente quella forza ad agire che nella prima fase aveva occultato, nel proprio riserbo. Con l’adesione steineriana, in Onofri tutto cambia, poiché questo stallo terreno è così trattato: “…Il metodo della realtà integrale esige che ciascuno di noi salga accogliendo questa stessa realtà come fosse il nostro vero io, pur senza perdere la nostra individuale coscienza. Talché l’uomo si sentirà allora posto nell’universo come un centro di unificazione e di compassione con una cerchia di mondo sempre più vasta, che egli imparerà, via via, a identificare con la realtà della sua vita d’ogni giorno. Questa Sapienza o Scienza, che viene qui presentata da una spiritualità odierna assai elevata sulla grande maggioranza degli uomini, è una sapienza il cui frutto si chiama Amore. E la natura dell’Amore è di unificare, di armonizzare, di accordare il mondo con se stesso; non è di separarlo in pezzi, di escluderne le parti, di rinnegare l’una in nome dell’altra, di uccidere per impazienza, ma di sforzarsi a convertire gli odi capziosi in libere armonie di riconciliazione”.
La riconciliazione tra cristianesimo gnostico e misteri è così espressa: “Tutta la tradizione della sapienza orientale dei Misteri è il ricordo del mondo divino dal quale l’uomo discese sulla terra; ed essa è anche il tracciato del cammino antico dal quale la cultura occidentale stessa è nata estremamente. Tutta la cultura occidentale delle scienze fisiche e filosofiche, è la promessa di un’individuazione completa dell’Universo sotto specie di coscienza d’uomo. Ma quest’ultima raggiungerà il suo promesso avvenire solo nella volontaria unione con la ricuperata coscienza dei sacri Misteri. Da questa Unione, che è la Scienza del Graal, fino a ieri occulta, ma d’ora in poi sempre più palesabile agli uomini, per la loro accresciuta maturità spirituale, sorgerà non solamente la vera coscienza del Cristo-Uomo-Dio, cioè del Cristo cosmico e terrestre, che è il vero Io dell’uomo e degli uomini, ma sorgerà anche la sintesi reale fra fede e scienza, fra arte e filosofia, fra mistica e pratica: sintesi senza la quale non possono esser vere ed intere, in sé stesse, né fede né scienza, né arte né filosofia, né mistica né pratica”.
Sul cristianesimo onofriano vedremo in seguito alcune problematiche, soprattutto in relazione ai rapporti con Evola. Entriamo nel vivo del Nuovo Rinascimento: qui parla la nuova interpretazione cosmica dell’arte, antica e moderna. Ritiene il libro non un saggio teorico ma un poema critico dall’epos teoretico (la prefazione la scrive il Natale del 1924 e morirà quello di 4 anni dopo…). Nelle sue intenzioni destina l’opera a tutti gli artisti, i critici e i lettori che sentano l’urgenza di un rinnovamento nella coscienza artistica moderna. Essa, dirà Onofri, è senza dubbio travagliata come in poche altre età… Il patto è da suggellare con gli artisti che al contempo sono ricercatori spirituali, più che altro. L’opera ha, in prefazione, un sigillo di gratitudine verso “l’opera universale di Novalis, Steiner e quella critica di Ernesto Uehli…”. La concezione, anzi, il ritorno a ciò che vi era prima di una letteratura d’intrattenimento. Nell’introduzione Onofri cita Dante – considerando la Commedia non interamente umana e con le parole di Boccaccio: “dico che la poesia e la teologia quasi una cosa si possono dire” e ancor più su questa linea, afferma: “Lo Spirito Santo è da commendare di avere dato i suoi alti misteri in finzioni poetiche”. E d’altronde Museo, Lino e Orfeo assommavano le due funzioni… Lo studio serve in primis a dimostrare un tema caro a Onofri: ove si dà storia bisogna tenere presente la differente costituzione psichica dell’individuo nelle varie epoche: ” La materia psichica umana deve esser mutata tutta intera”. Onofri in Nuovo Rinascimento pone in chiaro lo stato di limpido dominio (tracce evoliane?) da avere, mettendo invero in guardia da ”ubriacature ultraromantiche”. Il libro è anche uno strumento per uscire dalle secche già avvertite nella dicotomia Fanciullino-Superomismo. Onofri passa in rassegna i movimenti artistici che hanno dominato negli ultimi tempi e li vede tutti sfuggire da quel senso unitario che va cercando, anche se ci riferiamo ad uno dei due poli allora molto discussi: Naturismo vs. Romanticismo.
Per concepire una nuova arte parte da una considerazione molto semplice: “Nella statuaria e nell’architettura ellenica, nei drammi di Eschilo, nella stessa lirica eolica, in tutti i latini compresi Orazio e Virgilio, negli inni religiosi dell’estrema latinità, nelle cattedrali gotiche, nel poema dantesco, in Giotto, in tutti i pittori del Rinascimento, nella musica moderna nelle origini melodrammatiche seicentesche, l’intenzione dell’artista era di prendere una posizione definita, una posizione direi ufficiale rispetto alla società e all’azione tipica del suo tempo… Sembra anche a me, col Novalis, che l’arte antica (e ce n’è ancora oggi, s’intende), si manifesti non tanto interiormente organica, quale rivelazione conoscitiva, cioè come azione interna, quanto invece, tendenzialmente dinamica verso l’esterno…” – Su questa visuale s’instaura buona parte della sua riflessione in Nuovo Rinascimento. Nell’artista antico, dice, non si può far affidamento su quell’auto-iniziazione intuitiva cara a Steiner, ma si deve sempre ricorrere ad una guida: tale è Virgilio con Dante, tale è Omero per Virgilio… Per Onofri ”il precursore della nuova poesia è Novalis” – “poiché affermò il bisogno di scrivere come se si componesse musica”. Novalis, attraverso Steiner, porta Onofri ad affermare: “le poesie che ci sono state finora, stanno alla poesia che deve venire, come le filosofie che abbiamo avuto fin adesso stanno alla logologia…”. Una sorta d’incantamento, vero gnothi sautón; per agire organicamente il poeta del futuro dovrà esser consapevole e quindi essere davvero un iniziato delfico della parola. “La realtà della poesia è la sinfonia, il poeta mago che opera la sin-tesi in sin-fonia: Novalis”. La logologia di Novalis, l’autoilluminato del-e-dal linguaggio… Onofri arriva adire che nell’analisi della Parola si possono arrivare a comprendere persino i misteri precristiani…A margine: anche come portatore a termine della poetica novalisiana si sarebbe potuto studiare, invece niente, si traccia un rigo e si accampa il poeta romano nella piana degli oscuri metafisici.
Poi Giotto e Raffaello che “non dominavano la materia in modo consapevole ma ispirato” e per Onofri essi “ricevevano stimolo per cogliere ciò che di spirituale vivevano dentro e dietro la Natura, quello essi dipingevano…”. È chiaro che l’artista di oggi non può pensare più ad un simile trasporto, ma nell’ottica onofriana ciò non è un male, poiché la vera arte della logologia, appunto, deve ancora venire… Onofri non percepiva il problema della poesia come da destinare a specialisti, anche un singolo brano poetico è parte di quel flusso eterno, in cui l’uomo deve stagliare l’Io per affermarsi cosciente – Restare svegli è tutto (diceva Meyrink…):
“L’antica arte era in una dimensione di sicurezza, prodotta mediante e attraverso uomini artistici che ben poco ne rispondevano come singole coscienze, le moderne sono realmente espressioni dell’uomo stesso che le ha fatte: del singolo con pur tutte le sue imperfezioni. La coscienza dell’individuo spirituale è ancora imperfetta (magari deforme) e tali sono le sue opere d’arte, ma il loro carattere è prevalentemente individuale”. – Su questa teoria vi è molto su cui poter discutere…Anche in seno ad esegeti del tradizionalismo, più che tra critici o storici della letteratura…
Onofri vede “una grave aberrazione…Per la quale l’artista polemizza con le forme del passato, e fa un po’ il Don Chisciotte contro i mulini a vento. Egli vuole demolire le forme, le quali, invece, non esistono in sé stesse…Ma con siffatta fissazione polemica, l’artista mette a nudo la più vera e profonda aberrazione di tutta l’arte di oggi, cioè la separazione tra forma e contenuto, e la preoccupazione della forma considerata in se stessa…”. – Noi ci domandiamo se sia una visuale che possiamo ancora applicare oggi… L’artista del futuro dovrà, per Onofri, applicare la logologia, abbiamo visto: ma come in una forma di recupero delle antiche facoltà e dei canali aperti a livello sottile, che noi abbiamo mutato irrimediabilmente. Perciò si tratta di superare l’arte rappresentativa dell’antichità (nella teoresi del poeta), in nome di un’arte organica, ma allo stesso tempo cercare di riunire le facoltà latenti e piallate dal razionalismo; così Onofri a riguardo:
“Senza troppo risalire, basterà accennar, per ora, che tanto nell’Egitto faraonico quanto nella Grecia omerica, e, generalmente parlando, prefidìaca, dominava una concezione del mondo derivante dal fatto che un certo numero di uomini potevano ancora mantenersi occultamente in rapporti conoscitivi con gli esseri spirituali (supersensibili) del mondo, cioè con gli Dèi”.
“La differenza essenziale tra arte antica e moderna è questa: che l’arte antica si attuava in quanto l’artista si disponeva in uno stato di accoglimento soprattutto passivo e inconscio; quella moderna esige, e sempre più esigerà, dall’artista uno stato di iniziativa interiore e di attività individuale che tenda all’auto-trasformazione cosciente dell’uomo artista”.
Onofri si trova a voler a tutti i costi dimostrare l’arditezza di questa visione del mondo con forzature e con esempi in cui sicuramente si scotta, ma non ne viene meno la purezza della sua ricerca: ” …È verissimo che l’arte di Dante o di Raffaello è di gran lunga superiore, come risultato, all’arte odierna; ma s’ingannerebbero assai coloro che dalla perfezione di quelle opere d’arte, quali appaiono a noi, volessero dedurne che Dante e Raffaello avevano un’adeguata coscienza (come uomini individuali) delle forze divine che agivano in loro, ispirandoli come artisti, e che quelle forze fossero proprie della loro interiorità individuale cosciente. Essi sentivano queste forze che parlavano loro; ma non sapevano come e in quanto essi le ricevevano, perché erano, rispetto ad esse, quasi strumenti mirabilmente accordati, suonati dagli invisibili musicisti della Grazia Operante, che agiva dall’esterno sull’interno. Essi non sapevano troppo di ciò che in essi si faceva: essi lo facevano come dèi”. Qui sarebbe da dibattere ad esempio sul rapimento mistico… Ma in Onofri il sollevare il velo su un’autocoscienza creativa distrugge il confine tra arte e scienza, tutto è presa di coscienza, tutto si deve riportare alla fase in cui, sentendo acutamente la caduta dell’arte tradizionale, l’artista deve operare un doppio risveglio: riportarsi alla giovinezza dell’uomo in cui ci si comunicava con i mondi superni e poi però prenderne coscienza per non esserne solo il tramite (questa la sua conclusione). Questa filosofia determina uno sforzo non indifferente di autoconoscenza. “Lo sforzo autoconoscitivo, all’inizio doveva turbare, deformare l’ispirazione, per cui, anelando la piena coscienza creativa, in realtà abbraccia fantasmi e compromessi intellettualistici…”.
“La tradizione artistica d’oggi dipende esclusivamente dal fatto che l’artista trovi e svegli in sé stesso, consapevolmente, una tale sorgente e ispirazione individuale. Ed egli deve appunto trovarla e svegliarla mediante il lavoro critico conoscitivo del suo Io cosciente”.
Onofri (e su ciò si parlerà di una grande polemica tra lui ed Evola) arriva ad operare una visuale salvifico-cristiana a corollario della sua tesi; nessuna tendenza scientifica come nessuna tendenza mistica può operare un’azione vivente nel sangue, per lui solo il cristianesimo antroposofico può ciò: ”il mistico dilettante e il falso teosofo non comprendono che il Cristianesimo non è una religione, ma uno stato di fatto dell’umanità, nel quale si cela il senso stesso della vita umana in un’unica concatenazione…”. “Arte è lo strumento nobile di autoconoscenza”, quando è vera arte. Niente di più e niente di meno. Riflessione sul metodo: non può esistere l’oggettivo metodo ma esiste una tecnica di metodo. Ovvero “una tecnica di ispirazione del Verbo” per Onofri, una tecnica di disposizione del tessuto delle parole. Tutto, mi sento di dire, in fondo destinato ad un grande effetto ben più che letterario: produzione e ri-conoscenza in “stati”… Stati dello spirito che si estrinsecano in potenza espressiva somma col Ciclo Lirico. Questo il rito della Parola da dischiudere nuda, fuor dalle catene della materia. La perfezione espressiva è quando la giusta armonia, ovvero il corpo di Parola corrisponde allo spirito che si vuol far luccicare tra esse. “Quando il poeta non si mette di mezzo personalmente” – in questa mistica del poeta come veggente si compia la profetizzazione del ruolo. Il Poeta finale, per Onofri dovrà esser cantore da uno stato di raggiunta autoconoscenza, dal ruoto vaticinante dell’attività aedica sopra ogni sguardo personalistico, ove ritraendosi si lascia parlare una dimensione in cui il dato personale si annulla completamente.
Precursore del senso panico della Natura come lo intende Onofri, è poi il citato Leonardo: “il re mago, il primo indovino del metodo della Natura, scrutava muffe e sottili screpolii nei muri, nelle venature dei marmi, nei giuochi della luce e dell’ombra, scoprendovi l’abbozzo di apparizioni ideali, che bisogna disincantare dal denso materiale del mondo e completare con figuratrice di potenza, per farne nascere, ad arte, volti e persone, aggruppamenti di mostri e battaglie, presenze angeliche e misteriose geometrie celesti, che sono le invenzioni e le scoperte dell’uomo. Tutto nella natura aspira a tornare Figura, Apparizione, Presenza e Persona. Non solamente le vene dei marmi o le crepe d’intonachi, ma a questo aspirano tutte le forme, anche i suoni arcani e inauditi che s’esprimono in forme non viste e in sinfonianti immagini, che subito poi si dissolvono per imprimersi all’assidua formazione dei mondi”. Sul finale ribatte anche molto su questa eterna problematica, facendo scelta di campo: “L’arte non è mai sociale se non è prima individuale”. – Non potrebbe essere diversamente nella sua concezione sacrale, infatti è solo questo il parametro con cui misura l’autenticità: “Le più alte concezioni verbali umane hanno tutte un carattere religioso e spirituale (teologico come diceva Boccaccio) quali i Salmi, l’Odissea, l’Orestiade, l’Eneide, I Vangeli, la Divina Commedia, l’Amleto, gli Inni alla Notte, il Faust, i Promessi Sposi, il Parsifal…Il loro mistero d’origine è codesto mistero estracorporeo del sonno, come stato di coscienza cosmica: stato battistico, come si vede, rispetto allo stato cristico futuro di un un sonno nel quale l’uomo non perda più la sua coscienza individuale di io, ma si trovi insieme desto e addormentato, come presagiva Novalis”. “Il creare è appunto sacrificio in quanto pienezza del potere creatore (pleroma) che includendo tutto in sé, stacca, via via, di sé e da sé, questo stesso potere, allenandoselo in creature oggettive che esistano al mondo indipendentemente da lui…Perciò San Giovanni: ogni cosa è stata fatta per mezzo di esso, e senza di esso neppure una delle cose fatte è stata fatta”. Facciamo ora un passo indietro cronologicamente e re-inquadriamo l’asse Novalis-Goethe-Wagner come il portante, indispensabile a comprendere Onofri, accanto a Steiner. Le pagine sul Tristano collocano Wagner tra Goethe e Steiner, per Onofri “i tre massimi rivelatori moderni”. Wagner è l’alveo in cui il nuovo artista deve scoprire quel “rapimento orgiastico per la gioia di autocreazione che straripa dallo spirito stesso del genio” – ovvero un fondato e al contempo oltrepassamento del deliquio beethoveniano, musica come sangue spirituale, forza da cavare nel cuore degli uomini.
Il Tristano è il vertice del romanticismo, l’opera simbolica ove l’amore si assorbe nel divenire totalizzante della musica come vera protagonista dell’opera, con i protagonisti ridotti a strumenti del destino. Il Tristano “come mistero moderno” in Onofri. E la parabola wagneriana arriverà per Onofri al culmine con il Parsifal. Davvero si può dire che anche nelle sue raccolte si è avuta una traccia di questo passare dalla Passione alla Purificazione, dal Tristano al Parsifal, come dai Poemi Tragici all’Aprirsi Fiore. La rinnovata poesia come rinascita orfica nel cuore della musica è così tratteggiata nel commento onofriano al Tristano: “Tutta la civiltà greco-latina, con le sue arti poetiche e plastiche, presuppone un potente complesso creativo di fatti musicali precedenti, che l’hanno preparata (e la tradizione ci dice che Orfeo è questo grande complesso musicale creativo), così la nuova civiltà spirituale, che sta oggi sorgendo presuppone l’avvenuta creazione musicale moderna, da Palestrina e da Monteverdi fino a Wagner e oltre. L’antica poesia creativa (nel senso spirituale), la poesia greco-latina-medievale (Omero-Virgilio-Dante), è solamente una prima fase dello spirito della parola, e culmina in Dante e Petrarca. Dopo d’allora la manifestazione creativa, di poetica, si rifà plastica, rivelando e riassumendo in quattro o cinque secoli italiani e in sei o sette pittori, scultori, architetti, lo sforzo plastico espressivo di tutta l’antichità egizio-greco-latina, fino al culmine massimo Raffaello-Leonardo-Correggio-Michelangelo. E così, da plastica, si rifà nuovamente musicale, dal nostro 1500-1600 fino a Wagner, culminando in quest’ultimo. Dante e Petrarca rimettono, per così dire, la face della parola, alle arti plastiche; Michelangelo la trasmette alla musica; Wagner la riconsegna alla nuova poesia. La quale rinascerà, e rinasce, trasfigurata dall’esser passata attraverso tutta la manifestazione plastica e musicale fino a Michelangelo e a Wagner, in questo immenso rogo purificatore e sublimante. Ora finalmente la poesia può rivelare la verità dello spirito umano e divino, direttamente, nella più immediata realtà della vita terrena, e celeste. E ciò sta appunto accadendo sulla terra”.
Asse Novalis-Wagner come linea di mitopoiesi; dagli Inni alla notte al Parsifal la soluzione e la nuova ripartenza cosmogonica. Nello scritto su Wagner, Onofri, da critico musicale ricorda la lettera di Novalis a Schlegel (1798) e non può fare altro che donare alle sue riflessioni e ai suoi lettori, la soluzione colà prospettata, con largo anticipo: “…Che cosa era quella dilatata poesia, quello sciogliersi, quella poesia dell’infinito se non un’aspirazione a fondersi con la musica, e con una musica che il Settecento non aveva ancor dato, né poteva dare, bensì con una musica liberissima, indefinita, impregnata d’estasi, agile e mutevolissima, pronta sempre ai più prolungati spasimi del rapimento?[…] Così la musica come la poesia dovevano venirsi incontro, dovevano mutare entrambe la propria natura”.
Nota:
[1] – Entrambe citazioni dal Ciclo Lirico
Stefano Eugenio Bona