Arte magica e sciamanica: considerazioni sul “cavalcare l’arte” di Vitaldo Conte (*) – Giovanni Sessa
Raramente, in particolare nell’ultimo periodo, ci è capitato di dover parlare di un libro, la cui effettiva comprensione implichi la decodificazione della sua densità contenutistica e della sua complessa stratificazione interna. Ci riferiamo a Pulsional Gender Art (2011)[1], una pubblicazione di Vitaldo Conte, saggista e docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti, nonché artista egli stesso. Nelle sue pagine, l’autore presenta una concezione dell’arte in grado di cor-rispondere alle pulsioni vitali e al diffuso bisogno di conoscenza, non ancora an-estetizzati, dell’uomo contemporaneo, immerso nei flussi metamorfici della società “liquida”. Si faccia attenzione, però! Quando utilizziamo la formula “concezione dell’arte”, non ci riferiamo ai confini, ormai asfittici e sterili, che al produrre artistico sono stati attribuiti, a partire dal Settecento, dall’estetica moderna. Anzi, la teoria-pratica dell’Arte di cui Conte si fa latore, muove da una certezza: la necessità di superare le conclusioni cui pervennero le avanguardie del primo Novecento, in particolare il Dada. Per recuperare un’effettiva possibilità Cre-Ativa, vanno negate le stesse categorie artistiche, nella ricerca di passaggi verso l’Ab-grund, l’abisso sorgivo dell’Origine sempiterna, sottratta alle logiche produttivistiche, utilitariste, economiciste cui, nella contemporaneità, soggiacciono modalità creative solo convenzionalmente dette ancora tali. L’intento è quello di scoprire l’eterno, quale sempre possibile, nel qui e ora, in un confronto non più con il moderno, ma con il post-moderno, che conceda al poietes, al creatore, di scorgere l’universale nel particolare, l’infinito nel frammento, l’armonico nella lacerazione.
Alla luce di ciò, le prime pagine del testo, ci paiono pensate sotto la stella e l’estro di Walter Benjamin, maestro indiscusso di una vocazione letterario-rappresentativa eminentemente aforistica, attenta al frammento e metodologicamente aperta alla contaminazione di generi e stili, asistematica, sviluppata in saggi, come quelli di Conte, sospesi tra teoresi e critica “creativa”. Ma, il vero nume tutelare della prima parte del libro, Corpi d’arte estrema, è senza dubbio Jean Luc Nancy. Infatti, in essa vengono presentate e discusse diverse forme di arte estrema, legate alla Body Art, che sono, al medesimo tempo, arte dal vivo e Arte Vitale, implicanti immagini come quelle “segnate” con il sangue dei corpi in mostra, ritenute sconvenienti per le norme sociali e il senso comune. L’esibizione del corpo d’arte esprime: purezza e impurità, il sacro e il profano, la vita e la morte. Dal che, si evince come questa forma espressiva implichi il recupero della mistica estatica, in quanto in essa si ri-propone, magicamente: il contatto, visivo e intimo, tra il corpo segnato e l’occhio che guarda, ben al di là del limite conseguito da qualsiasi comunicazione meramente verbale. E’ la parola, o meglio, l’urlo della carne, del confine corporeo, paradossalmente luogo epifanico dell’oltre.
Il corpo è stato variamente tematizzato dal pensiero contemporaneo, ma il Noli me tangere del filosofo Nancy, ha rappresentato il momento apicale in tale trattazione e la sua eco si ascolta, sia pure implicitamente, nelle pagine di Conte. In questo scritto del pensatore francese emerge un hapax teologico, nel movimento del trattenere o prevenire, da parte del Cristo, il gesto della Maddalena, dopo la resurrezione: si tratta di una tutela del corpo resuscitato. Dice Nancy: “Non toccando questo corpo, toccare la sua eternità”[2]. Cosa evidenziata in particolare nei dipinti, dedicati al soggetto in questione, da Rembrandt, Dürer e Tiziano. Ciò che qui interessa rilevare, è la valorizzazione che Nancy compie, della Maddalena: questa donna è stata presentata tradizionalmente come una prostituta, dalla quale Cristo ha scacciato sette demoni, ma essa è stata, nel corso della sua vita, in costante prossimità con la morte e il dolore. E’ in grado di cogliere, pertanto, la vita nella morte, il risorto nel cadavere, poiché ha fatto esperienza della morte nella vita: nella sua figura viene suggerito il momento femminile e sinistro dell’arché. Insomma, solo il corpo carnale rivela il corpo “glorioso”. Il tema, peraltro, non è presente solo nel filosofo transalpino ma, tra gli altri, anche in Franco Rella (Ai confini del corpo)[3] e, in altra prospettiva, in Xavier Lacroix (Il corpo di carne)[4].
Quindi, il segno-ferita di cui dice Conte, testimonia, da un lato, la dimensione catartica e rituale della violenza, secondo la direzione indicata in noti studi da René Girard[5], ma: “è anche un modo per opporsi a un esterno che tende a dissolvere la fisicità in una onnivora rete virtuale”[6]. Il linguaggio del corpo parla lingue diverse da quelle a cui la modernità ci ha assuefatti. La riconquistata significanza del corpo-simbolo, presentata dalle forme di arte estrema, può illuminare davvero di senso la nostra finitudine. Il dolore, la ferita, la lacerazione assumono, in questi contesti, valenze arcaiche e rituali, indicanti, come nelle autentiche tradizioni iniziatiche, il passaggio. Dal corpo cosale a quello sveglio o risvegliato, dal “silenzio” del corpo mercificato, anche dall’approccio medico-scientifico, di cui così esemplarmente ha detto il nostro più illustre scrittore d’aforismi, Guido Ceronetti, all’eloquenza del corpo d’arte. Per conseguire la quale il performer, nelle sue messe in scena, esce dalla visibilità: nascono così i luoghi dove si esprime l’assenza, la sparizione corporale. Una delle più pregnanti esperienze, in tal senso, è stata realizzata da Gina Pane, che utilizzava la ferita per suscitare emozioni indicanti la volontà di superamento della dimensione corporea propriamente detta. La “violenza” d’arte è esorcismo nei confronti della violenza dal carattere ontico, imposta dal Gestell, l’Impianto tecnico-produttivo.
Quest’arte è costituzionalmente e vocazionalmente sciamanica. Le stesse produzioni e gli allestimenti di Conte, lo testimoniano. A muovere da quello realizzato nell’ex-ospedale psichiatrico di Messina, di cui viene detto nel libro, nel quale: “La ferita – da segno patologico – diviene creativa in un evento collettivo e imprevedibile, espresso con comportamenti, danze, espressioni pittoriche e materiche, musiche. L’evento riunisce i terapeuti, i pazienti e gli esterni, nella medesima sostanza pulsionale, vestiti ognuno con una tuta e una maschera raffigurante il proprio altro volto”[7]. Oppure, la cosmizzazione dell’umano, può transitare attraverso il recupero delle energie telluriche in momenti di arte-vita, che Conte a più riprese, ha ambientato nel Salento, nelle occasioni che scandiscono il ciclo dell’anno, ad esempio in prossimità dei solstizi: “La possessione ricerca la sua liberazione attraverso l’esorcismo sciamanico: la danza, il tamburo, il cerchio magico, diventano la segnaletica dello spazio altro”[8]. In ciò si evince, con chiarezza, la riemersione del mito di Anteo, la cui salvezza era correlata, nel racconto, al suo sintonizzarsi sulle energie ctonie e uraniche. Al suo essere sin-tonico rispetto ai ritmi cosmici.
Tutto ciò, è presente con ulteriore nitore, nella trattazione che l’autore dedica alla Poesia Sonora. Nell’esperienza riferibile a Demetrio Stratos, la ricerca della sonorità pura, conduce al predominio del significante fonico rispetto al significato semantico della parola. La voce, in quanto strumento sonoro, cor-risponde, in questa prospettiva al suono dell’Origine. Nei miti di creazione, secondo le convinzioni dell’etnomusicologo Marius Schneider, il momento acustico determina l’atto creatore: gli dei sono canti, poiché la fonte da cui il mondo emana, è sempre musicale. L’abisso primordiale, dal quale il mondo si eleva, è cassa di risonanza, la natura dei primi esseri è puramente acustica e la voce ne è l’eco, a livello microcosmico. La Poesia Sonora spostando lo sguardo sotto la soglia linguistica, dissolve il materiale verbale, frutto della ragione calcolante, ricollocandoci nell’arché-telos.
In fondo, la medesima funzione riconnettiva, è svolta da diverse forme di Danger Art, tra esse, l’autore richiama l’attenzione del lettore sulla Bondage Art. Qui riappaiono ritualità sacre di origine nipponica, e un uso anagogico della sessualità, fondato sull’abbandono alla sensualità, in quanto propedeutico all’ascolto profondo. Infatti: “Questi eventi estremi vogliono divenire anche delle testimonianze: verso l’insensibilità del corpo nell’era tecnologica, e di confronto verso angosce e demoni interiori, che spesso vengono ignorati e sublimati”[9]. La cosa naturalmente si realizza, a condizione che i praticanti siano motivati in tal senso e ambiscano effettivamente alla re-integrazione andro-ginica. In caso contrario, tali pratiche possono indurre, anziché aperture verso l’alto, regressioni psichiche verso il basso. Chiusure, anziché aperture e nuovi orizzonti. Non è casuale, quindi che nel libro venga presentata la figura di Aleister Crowley e analizzata la sua “magia sessuale”, quale tentativo di unione mistica con l’universo.
Le diverse tendenze artistiche “attraversate” e i protagonisti che le animarono o, a seconda dei casi, le animano, hanno un tratto rilevante in comune: sono tutte espressioni di Arte-Vita, tendenti a liberare la creazione dall’invalidante dualismo/dicotomia di intelletto e azione. Il pensiero è per definizione azione. Solo in questa prospettiva l’arte introduce alla dimensione festiva della vita. Conte può affermare, con Marinetti e il futurismo, che l’inferno economico sarà rallegrato e pacificato dalle innumerevoli feste dell’arte. Figura d’eccezione, in tale contesto, è Valentine di Saint-Point, la cui esistenza, scandita da sensualità e prepotente pulsionalità, è stata un vero percorso creativo. Altro esempio paradigmatico, ma sul piano storico-comunitario, è quello dell’esperienza fiumana di D’Annunzio: Festa-Rivoluzione, immaginifica e lirica, come nelle corde della concezione futurista. Il Poeta-Vate incarna la “fantasia al potere”, capace di sublimare il profitto in economia di dono. Guido Keller e Mario Carli trasformarono Fiume in “Città di vita”, incarnando, ancora una volta nel senso etimologico del termine, l’utopia estetica, di origine romantica. Questa vita-possibilità estrema, è indotta dall’accettazione tragica e, per questo, gioiosa del mondo, che da sempre è latrice di un’idea di creazione centrata su un’arte pulsionale che vuole cambiare il gusto e l’esistenza, anche quotidiana, e che mira, attraverso l’intensità, a porre in forma il reale, dominato dall’antiprincipio, l’hasard. Tale dimensione demiurgica è costitutiva anche delle avanguardie contemporanee, neofuturiste e neodada, attive sul web. La rete è concepita dai rappresentanti delle neoavanguardie come luogo di libertà creativa e diffusionale, cosa sulla quale ci permettiamo di avanzare qualche dubbio, vista la pervasività dell’eterodirezione socio-culturale. Resta il fatto che: “Il Futurismo e il Dada sono avanguardie che possono co-esistere in una continuità di azione-lettura, tanto da poter ipotizzare una creatività di FuturDada Oggi”[10].
Insomma, di fronte alla metamorficità della vita, nell’età post-moderna accelerata dalla mercurialità comunicativa, quale il ruolo dell’arte? E, inoltre, quale il punto archimedeo delle diverse suggestioni indotte dalle pagine di Conte? Oggi l’arte vive un’evidente dispersione nella società dei non-luoghi, non è più oggettivabile nei confini segnati dall’estetica, rigidi e in contrasto con la transitabilità contemporanea. Essa è entrata dentro l’esistenza come essenza e presenza quotidiana. Per questo, di volta in volta, può assumere il carattere della visibilità o dell’invisibilità, in un’illimitata sinestesia. L’arte oggi, ha portato a piena maturazione la sua implicita tendenza all’oltre. Può risultare destabilizzante per l’ordine costituito, in un mondo in cui il riferimento prioritario non è l’intellettuale tradizionale, ma il blogger. Essa rappresenta nel web un virus non controllabile. In questo luogo, in qualche modo “eletto”, si sottrae alle logiche di mercificazione, cui soggiace nell’ambito del mercato globale, in cui: “il prezzo dell’opera diviene segnale della reputazione di un artista, del gallerista e del potenziale compratore”[11]. In questo nodo teorico, può ravvisarsi la risposta al secondo quesito che ci siamo posti.
Conte individua nel pensiero di tradizione, esemplarmente rappresentato da Julius Evola, e in particolare dal suo Cavalcare la tigre, una forza sovversiva nei confronti delle logiche del pensiero dominante. Trasforma, in un certo senso, l’indicazione evoliana mirata a controllare la corsa impazzita della tigre della modernità verso il basso, in una possibilità d’ascolto delle “potenzialità” che, una tale condizione, può presentare. Suggerisce una sorta di “Cavalcare l’arte”, avendo individuato nella poiesis e nelle sue potenzialità, il dato sismografico della crisi e la sua terapia. Certamente, per l’autore, mistica e tradizione, hanno oggi un volto diverso da quello abitualmente attribuito loro, si riproducono, come ogni cosa in questo tempo ultimo, in modo estremo e con maschere di nomadismo che, apparentemente, non sono loro proprie.
Ha ragione Conte, nel dire che Evola in questo libro del 1961, chiude un ciclo e ritorna alle posizioni da cui era partito negli anni della giovinezza, attraverso il recupero del momento filosofico-speculativo. Infatti, al centro di opere come L’Individuo e il divenire del mondo è da cogliersi una valorizzazione senza precedenti del dionisismo e delle sue valenze conoscitive. Non è forse il recupero della medesima potestas divina, che sta a monte delle diverse espressioni d’arte presentate dallo studioso in questo volume? In tal senso, risulta significativo e sintomatico il paragrafo dedicato ai “Nudi di Julius Evola come Metafisica del sesso”. Tali dipinti di nudi femminili, realizzati nel decennio 1960-70, sono portatori di archetipi e simbologie erotiche che mettono in luce il mondo “segreto” femminile, in funzione delle pratiche di magia sessuale. In essi, perfino il colore dei capelli, assume una valenza di richiamo realizzativo. I tre quadri sono collegati tra loro, esemplificano le potenzialità del femminile, positive e negative, incarnate dal demetrico e dall’afroditico.
Quindi, se come ricorda Evola in Cavalcare la tigre, l’uomo differenziato può profittare della situazione attuale, determinata dalla meccanicizzazione della vita: “attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità”[12], al fine di enucleare la persona assoluta, tale prospettiva apre sul reale nuove porte. Esso viene esperito in uno stato in cui non c’è soggetto dell’esperienza, né oggetto che venga sperimentato, ma esclusivamente la semplice, pura, essenziale, presenza delle cose. I fatti, gli enti, sono in-sensati, senza scopo ed intenzione, ma in quanto tali assumono una significanza assoluta. Si tratta di una “denudazione” del reale, che induce la visione di Neue Sachlichkeit, di Nuova Oggettività. Ecco, mi pare che il risultato tangibile della Pulsional Gender Art, teorizzata e praticata da Vitaldo Conte, nelle sue diverse forme ed espressioni, possa trovare il proprio snodo focale, in questa sintetica definizione.
Poiché, negli ultimi tempi, sulla scena italiana ha fatto la sua comparsa il Libro-Manifesto di un nuovo movimento di idee, intitolato Per una Nuova Oggettività. Popolo, partecipazione, destino (2011)[13], alla cui stesura ha collaborato lo stesso Conte, ci auguriamo che i contenuti del libro qui brevemente presentato, per la loro importanza, possano inaugurare sul tema un dibattito critico, aperto, produttivo.
Note:
[1] V. Conte, Pulsional Gender Art, Avanguardia 21 Edizioni, 2011.
[2] Jean Luc Nancy, Noli me tangere, Bollati Boringhieri, 2005.
[3] Franco Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, 2000.
[4] Xavier Lacroix, Il Corpo di carne, EDB, 1996.
[5] René Girard, La violenza e il sacro, 1972; Adelphi, 1992.
[6] V. Conte, Pulsional Gender Art, cit.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971.
[13] AA.VV., Per una Nuova Oggettività. Popolo, partecipazione, destino, Heliopolis editore, 2011.
Giovanni Sessa
(* Il testo di G. Sessa è pubblicato, con variazioni di stesura, su: ‘La Rivista dei Dioscuri’ n. 4, 2011; AA.VV., Pulsional TransArt, Gepas, 2012).