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Ars Mortis: la cripta dei Cappuccini – Luigi Angelino
Le civiltà antiche hanno cominciato a svilupparsi, quando l’uomo ha sentito la necessità di seppellire i defunti, nel contempo forgiando le prime opere artistiche in loro memoria, come ad esorcizzare la brevità della vita terrena, con la speranza di un’esistenza spirituale più duratura dopo la morte. Già molto tempo prima dell’era cristiana, in epoca classica, le ossa del corpo, i resti mortali, erano stati oggetto di culto e di venerazione da parte dei vivi, senza alcun macabro compiacimento, ma concependo una lucida consapevolezza di continuità tra la vita mortale e l’ignota e misteriosa vita ultraterrena. E’ in epoca medievale, tuttavia, che nasce una vera e propria iconografia della morte, ben incarnata dall’epitaffio di Pier Damiani (1) che, riferendosi alla rappresentazione di tre scheletri, senza mezzi termini ammonisce: “Noi eravamo quelli che voi siete, voi sarete quello che noi siamo”. Ed ecco che nasce un modo di considerare la morte, in grado di esprimersi con vere e proprie personificazioni, come la “Dama macabra” o il “Trionfo della morte”, che solo in seguito, alla luce del dilagante materialismo moderno, saranno considerate lugubri ed infauste. Nell’ambito di alcune esperienze mistiche, come quella di Francesco d’Assisi, la morte sarà perfino cantata (sora morte corporale) come parte inevitabile della vita, senza alcuna deriva dualista, come nella dottrina catara, che addirittura auspicava la fine dell’esistenza materiale, considerata foriera di ogni male (2).
Ed è proprio nel variegato mondo francescano, precisamente nell’ordine conosciuto come quello dei “frati minori cappuccini”, che si sviluppa una sensibilità particolare nei confronti delle spoglie mortali, con la produzione di un complesso artistico, nel suo genere unico al mondo. Si tratta della cosiddetta “cripta” della chiesa dell’Immacolata Concezione, situata a Roma, in Via Vittorio Veneto.
La storia della cripta comincia nel 1631, quando i frati Cappuccini, trasferendosi dal convento di San Bonaventura, portarono nel nuovo edificio religioso anche i resti mortali dei confratelli che erano stati sepolti. Già nel 1662, uno scritto riportante la descrizione della chiesa, attesta che sotto le cappelle di destra vi era un cimitero per dare sepoltura ai frati. Successivamente, tra il 1729 ed il 1732, vi fu una disputa, peraltro testimoniata da atti, tra il parroco di Santa Susanna ed i frati della chiesa della futura Via Veneto, sul diritto di questi ultimi di poter seppellire, nella propria chiesa, anche defunti che non fossero stati frati (3). Le testimonianze scritte, a tale proposito, riportano che nelle fondamenta della chiesa vi era già un “sepulcrum publicum pro extraneis”, con un summarium che elencava i nomi dei laici a cui appartenevano le ossa, ma queste erano ancora deposte in vari cumuli disordinati. Il primo a parlare, invece, di una cripta già strutturata, con croci, disegni regolari, lampade, ornamenti e nicchie, fu il marchese de Sade, durante la sua visita a Roma nel 1775 (4). Ciò ha permesso agli storici di collocare la realizzazione della straordinaria opera, in un periodo storico compreso tra i 1732 ed i 1775.
La cripta, così onirica e surreale, è formata da un lungo corridoio, che misura circa trenta metri, nonché da sei ambienti dove stati raccolti i resti di 3.700 defunti, per la maggior parte frati cappuccini. Vi è da sottolineare che il convento è stato sede di numerose “basi operative” dell’ordine dei cappuccini: dapprima Curia generale, poi Curia provinciale, lanificio, tipografia ed infermeria, dove molti frati trascorrevano gli ultimi giorni di vita. Un’antica leggenda, forse corroborata da qualche elemento di verità, racconterebbe che la terra adoperata per sedimentare questo cimitero sarebbe stata trasportata dalla Palestina, o anche proprio dalla stessa Gerusalemme. Al di là dell’evidente ricerca di una “legittimazione sacrale”, è storicamente attestato che, a partire dal Medioevo, fra i religiosi vi era la consuetudine di portare dalla Terra Santa alcuni sacchetti di quel suolo, in segno di consacrazione o di benedizione,
Per cercare di capire chi abbia realizzato, o almeno ideato la cripta, dobbiamo tornare al De Sade, secondo il quale, essa sarebbe stata costruita da un sacerdote tedesco (“un sacerdote tedesco di questa casa ha eseguito un monumento funebre degno di un ingegno inglese”). Volendo dare per buona l’indicazione di De Sade, si potrebbe pensare a Padre Norberto Baumgartner da Vienna (1710-1773), rinomato pittore cappuccino, del quale permangono alcune opere anche nella chiesa soprastante la cripta. Del religioso teutonico si sa che sia passato con certezza per il convento tra il 1742 ed il 1745, giusto nel periodo in cui sarebbe stato elaborato l’originale ed inimitabile composizione di ossa. I dipinti di Padre Norberto si trovano tuttora in Austria, in Ungheria ed in Italia (soprattutto nelle città di Roma e di Bologna). Oltre che alla pittura, il frate viennese si dedicò all’incisione, in particolare alla lavorazione del rame, acquistando fama anche presso la corte imperiale asburgica di Carlo VI. A causa della mancanza di documenti certi in merito alla paternità della cripta, sono fiorite numerose leggende. Tra queste, forse la più popolare è quella ambientata nel periodo del Terrore, seguito alla Rivoluzione francese, quando alcuni cappuccini, per non essere costretti a rinnegare la propria fede, si rifugiarono a Roma.
I frati francesi, considerati “fuggitivi”, secondo le disposizioni del diritto canonico di allora, sarebbero stati relegati nei sotterranei della chiesa. Secondo la tesi di padre Igino di Alatri, uno di questi, molto esperto nell’arte decorativa, avrebbe chiesto ed ottenuto il permesso per poter ordinare le innumerevoli ossa accumulate in quel cimitero (5). Il lavoro sarebbe stato completato in tempi brevissimi e lo stesso autore avrebbe espresso il desiderio di essere seppellito nel medesimo luogo. A questa narrazione se ne aggiungono altre, più o meno favoleggianti: l’artista potrebbe essere stato un reo scampato alla giustizia nella franchigia del luogo sacro, allora ancora in vigore, qualche genio ermetico o grottesco oppure qualche religioso dalla fede profonda che avrebbe trasfigurato la morte, nell’attesa della gioia della resurrezione (6).
Quando si scendono i due alti gradini che immettono direttamente nella cripta, al visitatore si prospetta una visione che appare assolutamente suggestiva: un lungo corridoio, la cui volta è disseminata da una serie di strani lampadari pendenti. Un simbolo molto importante ricorre nei motivi della volta. Si tratta della stella ad otto punte che, nell’arte sacra, vuole rappresentare Maria (la chiesa sovrastante è infatti dedicata all’Immacolata Concezione). Tuttavia, gli studiosi sono ben consapevoli del fatto che la stella ad otto punte racchiuda numerosi significati esoterici, tra cui il chiaro riferimento al pianeta Venere, la stella del mattino e della sera. La prima cappella che si incontra è quella chiamata dei “tre scheletri”, l’unico ambiente dove lo scheletro umano è presentato nella sua interezza. Si pensa che si tratti degli scheletri di tre bambini, probabilmente appartenuti a giovanissimi membri della famiglia Barberini, il cui palazzo padronale sorgeva non lontano dal convento (7). Le pareti laterali della cappella ospitano due corpi di cappuccini adagiati su cuscini di ossa, racchiusi in due ampi arcosoli (8), mentre la parete frontale contiene due nicchie di ossa e vertebre, a cui si aggiunge una rivestitura interna di ossa del bacino di altri due frati cappuccini. Al centro della cappella si erge un cumulo di ossa del bacino che sostiene i due piccoli scheletri che, a loro volta, tengono fermo con una mano, un cranio con le scapole ai lati della bocca. L’effetto scenico è davvero unico, dando vita ad una commistione di elementi a metà strada tra l’orrido e l’ascetico. Di grande simbologia sono le due clessidre, sullo sfondo a fiori e tondi, che sono raffigurate con le scapole disposte a forma d’ali. Il messaggio è chiaro: con la morte l’anima vola via verso l’ignoto.
Altrettanto impressionante è la struttura della “cripta delle tibie e dei femori”, nelle cui pareti laterali si presentano quattro nicchie, per ciascuna parte, contenenti quattro cappuccini in piedi e vestiti con il saio. Tra le cataste di ossa si distinguono crani che partono dalla base fino al culmine della barriera macabra, al punto che il visitatore ha difficoltà ad intuire la specie dei singoli pezzi che finiscono con il formare un unico blocco armonico, seppure costituito da resti umani. La parte centrale della cappella è predominata dalla presenza di teschi, in particolare sull’ornato dei due spioventi, dove si erge una composizione ricca ed estrosa, dove al culmine si staglia una croce di omero e di radio ed, immediatamente al di sotto, lo stemma francescano (il braccio nudo di Cristo e quello umilmente vestito di Francesco d’Assisi). Più in basso si nota una croce di legno che contiene dei tondi di materiale solubile, sulla quale sono rappresentate teste di angeli attaccate con colla e filo di ferro. Si pensa che questi piccoli contenitori racchiudano reliquie, così come si potrebbe dedurre da due striscioline di carta sul tronco verticale, dove vi è la scritta: “Parti di Reliquie di più santi martiri” (nella realtà questa è la ricostruzione della scritta originale, consunta dal tempo e mancante di alcune lettere). Anche nella parete sull’architrave della finestra di tale cappella, si nota la già menzionata stella ad otto punte, posta tra due borchie di ilei. Gli stemmi di questo antro riprendono il motivo generale della dedica a Maria, in quanto hanno un fiore o una stella al centro con otto petali o punte.
Uno dei luoghi più inquietanti del cimitero è sicuramente la cosiddetta “cappella dei bacini” dove, sia nei nelle pareti laterali che in quella di fondo, sono esposte nicchie contenenti gli scheletri di frati cappuccini, di cui alcuni conosciuti ed altri ignoti. Il mistero e la realtà della morte è espresso con una sequenza artistica di ossa e di crani, come fossero lasciati a bella posta per arredare allegramente un locale dove trascorrere alcuni momenti di svago. Parimenti sospesa tra il timore della morte e la speranza per un nuovo passaggio, è la “cappella dei teschi”, dove gli scheletri dei cappuccini adagiati all’interno di nicchie curvilinee, costituite da radi e femori, sorreggono una grande cornice di teschi, che si presentano allineati in maniera longitudinale su piani diversi, contribuendo alla conformazione strutturale dello stesso capitello dell’arco. Nel timpano della nicchia centrale, una clessidra alata con scapole indica l’inesorabile scorrere del tempo, così come gli stessi frati, rivestiti dei loro sai, sembrano in procinto di partire di nuovo, dopo l’apparente riposo (9).
La cripta termina con la “cappella della messa” e con quella ovviamente dedicata alla “resurrezione”. La “cappella della messa” è l’unico dei sei ambienti della cripta, dove non sono esposti i resti dei defunti, proprio perché preposta alla celebrazione di eventuali riti liturgici. Di particolare pregio è il quadro dell’altare, “Liberazione delle anime del Purgatorio”, opera del pittore cappuccino Giovanni Antonio Francesco Borgognone (10), risalente al diciassettesimo secolo. Nell’ultima (la cappella della resurrezione), spicca il quadro della resurrezione di Lazzaro, una tela ad olio eseguita da un pittore ignoto ugualmente nel diciassettesimo secolo: ilei ed ischi ne formano le cornici orizzontali, mentre teschi ed ossa ne formano l’arco entro cui è incastonato. Alla base del dipinto si possono leggere le parole attribuite a Gesù di Nazaret, quando si rivolge all’amico defunto e sepolto già da quattro giorni: “Lazare, veni foras!”(11). Il dipinto di Lazzaro, posto proprio alla fine del percorso, esprime ancora meglio l’idea di fondo dello sconosciuto artista: con i simboli dell’arte vuole dare dignità alla morte, attraverso la speranza della vita eterna o dell’immortalità dell’anima, seguendo dettami dottrinali non necessariamente cristiani, al di là dei limiti dello spazio e del tempo. L’artista chiaramente si ispira al pensiero della morte così come compendiato da Francesco d’Assisi nel Cantico delle creature (12), ponendo sulla parete sinistra, appena prima dell’uscita dal comprensorio cimiteriale, un agglomerato di cuori coronati, riportanti le ultime parole del precitato poema: “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore et sostengono infirmitate et tribolazione. Beati quelli ch’el sosterranno in pace che da te, Altissimo, saranno incoronati”. Queste parole servono ad ammonire il visitatore sul fatto che potrà trovare la sua beatitudine soltanto in Dio Onnipotente, suo creatore, principio dell’esistenza. Seguendo tale chiave di lettura, i resti mortali, conservati nei secoli, raccolti ed ordinati per la straordinaria opera artistica racchiusa nella cripta, devono indurre l’osservatore a riflettere sul mistero della vita, di cui la morte è componente essenziale ed imprescindibile. Anzi, la morte corporale non assume altro che la funzione “di passaggio” per accedere ad un livello ontologico superiore.
Il cimitero dei cappuccini di Via Veneto a Roma è stato definito nei modi più diversi dai visitatori più o meno illustri che si sono succeduti nella sua visita. Abbiamo già citato la testimonianza del marchese De Sade che considerò la cripta un luogo che superava ogni immaginazione di ingegno maniacale umano. Tra lampadari fatti di ossa, fregi sui soffitti con teschi e tibie, decorazioni sulle pareti ricavate da resti di spoglie mortali, in apparenza al visitatore potrebbe sembrare di entrare in una sofisticata casa degli orrori, ma l’idea di fondo dell’ignoto artista è quella di far compiere un vero e proprio viaggio spirituale nell’al di là. Si tratta di un “memento mori”, che trova nelle modalità artistiche del tardo barocco la sua massima espressione, in quanto le ossa non sono adoperate, seguendo un sentimento di compiacimento macabro, ma per ricordare che “tutto è vanità”. In un messaggio metastorico e non per forza confessionale, si ricorda che il passaggio umano trascorre molte velocemente, mentre la vera destinazione è altrove. Osservando le ossessive raffigurazioni degli ambienti della cripta, sembra quasi che la morte faccia sfoggio di se stessa, come se si entrasse in una dimensione post-umana, dove il primo sentimento che abbraccia l’osservatore è lo smarrimento davanti a tanta cupezza, subentrando solo di seguito la curiosità, la fascinazione e perfino una certa dose di divertimento.
In buona sostanza, l’esposizione cimiteriale vuole rimarcare la funzione del corpo soltanto come un insieme di ossa con il compito di ospitare l’anima. Una volta che quest’ultima sia volata via (a ciascuno le proprie credenze religiose e filosofiche), lo scheletro non serve più e diventa un mero simulacro dell’effimero transito materiale. Nella cripta ogni elemento tende ad esorcizzare la morte, non solo rischiarando l’oscuro percorso con la speranza della resurrezione, ma anche ricordandoci che finchè siamo in vita è il nostro momento…. ed il tempo è poco, non deve essere sprecato!
Note:
1 – Pier Damiani (1007-1072), canonizzato come santo dalla Chiesa Cattolica, fu grande riformatore e moralizzatore contro la simonia ed i costumi corrotti degli ecclesiastici del suo tempo;
2 – Giovanni Iammarrone, La spiritualità francescana. Anima e contenuti fondamentali, curatore Fabio Scarsato, Editore EMP, Padova 2021;
3 – Rinaldo Cordovani, La Cripta dei Cappuccini. Edizioni Francescane Italiane, Perugia 2021;
4 – Marchese De Sade, Voyage d’Italie, Maurice Lever edition;
5 – Autori vari, Il museo dei cappuccini, Cangemi Editore, Roma 2015;
6 – Giorgio da Riano, Breve guida della Chiesa dell’Immacolata Concezione, Roma 1963;
7 – Il pregevole Palazzo Barberini, il cui indirizzo attuale è Via delle Quattro Fontane, 13, ospita la Galleria Nazionale d’arte antica;
8 – E’ una tipologia di monumento funebre, particolarmente diffuso nelle catacombe;
9 – Autori vari, Guida ai misteri segreti di Roma, Milano 1967;
10 – Il Borgognone (1675-1735, date comunque non certe) si ispirò alla pittura fiamminga;
11 – Gv., 11,32-44;
12 – Il Cantico delle Creature fu composto da Francesco d’Assisi nel 1224 ed è il più antico testo poetico della letteratura italiana, di cui si conosca l’autore.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense e due master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nel 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 8 volumi: Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio e Sulla fine dei tempi. Con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; la trilogia thriller- filosofica “La redenzione di Satana” (Apocatastasi-Apostasia-Apocalisse); il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers”; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”ed una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Con auralcrave ha pubblicato la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa” ed ha collaborato al “Sipario strappato”. Nel 2021 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.