Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica – Giada Santoro
La penna è più potente della spada…o no?
La penna è più potente della spada è un’affermazione coniata da Edward Bulwer-Lytton, è così proverbiale e rassicurante, sicuramente ben marcata nella mente di chiunque desideri, con i suoi scritti, fare un’onesta analisi della realtà ed eventualmente muovere critiche, proporre soluzioni alternative siano esse sociali, artistiche o sistemiche. Questa affermazione evoca la forza del pensiero, la potenza della parola, la capacità di plasmare la realtà attraverso la lingua e l’arte. Feroci critiche sociali, opere teatrali, satira ed ovviamente poesia hanno rafforzato questa affermazione, consegnando alla storia gli autori e, talvolta, lasciando indietro tutto il resto, in un oblio sfumato di persone e fatti. Ma questa è solo una parte della storia.
Quanti autori non sono sopravvissuti, quanti compositori, poeti, giornalisti, pensatori sono completamente dimenticati, quante voci sono rimaste sospese nella nebbia del dimenticatoio perché invise ai potenti? Ma anche questa è solo una parte della storia. Un’altra verità è che ci sono decine di migliaia di scrittori a tutti i livelli che non avevano alcun diritto di decimare alberi per scrivere le loro idee, anche se si ritenevano in dovere di farlo. Anche questa è una verità parziale, ma con tre verità parziali iniziamo a farci un’idea della complessità in cui viviamo.
Ecco partiamo da qui. La realtà è sempre più complessa della Domanda che viene fatta. Concordiamo su questo. Se persino nei problemi di matematica delle elementari, la mamma manda il povero Luigi a fare la spesa, chiedendogli di fare operazioni matematiche e logiche, nonché sforzi fisici perché deve preparare la torta di mele, a quale titolo e per quale bislacco motivo riteniamo possibile che risposte a quesiti etici, energetici, filosofici, politici possano avere soluzioni banali, è un mistero. Banalizzare, generalizzare, abbreviare concetti estremamente complessi è a mio avviso, una forma di riprogrammazione cerebrale per cui l’Umanità non è ancora pronta.
Molto spesso nel prendere decisioni (o anche scrivere dei commenti) non usiamo direttamente la logica, ma veniamo influenzati da una serie di scorciatoie euristiche inesatte e ancora di più tendiamo a prendere in considerazione solo ciò che abbiamo più vicino, ciò che vediamo e non tutte le informazioni a cui potremmo avere accesso, a questo aggiungiamo le nostre emozioni e ovviamente le convinzioni che producono i nostri bias ed avremo le premesse per fare (o scrivere ) la cazzata perfetta. Processo per cui, chiunque scriva o parli, può incorrere in errori madornali. La nostra capacità di analisi della realtà, come dettagliatamente spiegato in Pensieri lenti e veloci scritto dal premio Nobel Daniel Kahneman, viene influenzata da fattori che non sono del tutto razionali, anche quando pensiamo che sia così. Il nostro cervello ha due sistemi di memorizzazione e di elaborazione delle strategie. La nostra comunicazione poi, è tutta incentrata sulla velocità, alcuni studi sull’apprendimento pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences, mostrano come le situazioni multi-tasking non incidono sulla precisone della memoria ma la rendono meno capace di applicarsi con flessibilità a situazioni differenti.
Dopo tutta questa premessa, grazie se siete arrivati fin qui, quindi entriamo nel vivo di questo scritto. Da una parte ragioniamo insieme sulla possibilità che la lingua sia taumaturgica, che basti riformarla e semplificarla per rendere il mondo un posto migliore. Dall’altra filosofeggiamo sul linguaggio ed il lessico di cui si avvalgono i promotori e le associazioni per i diritti di qualsivoglia “minoranza”.
Il pensiero magico e la lingua taumaturgica
“I pensieri modellano la realtà, la lingua dà forma ai pensieri, se parli correttamente, la realtà sarà corretta”
Partirò da questa tesi che sembra universalmente accettata da qualunque attore culturale nello scenario italiano e buona parte di quello occidentale. Questa affermazione si basa proprio sul sistema descritto da Kahnemann, che se utilizziamo la comunicazione in un certo modo, la nostra percezione si adeguerà a ciò che le viene presentato e quindi il nostro modo di agire si riverbererà tutto intorno, creando una società più equa, ad esempio. Tuttavia questa teoria è legata al relativismo linguistico e presuppone che la lingua sia un oggetto che procede separato dai pensieri, anzi che li prevenga, quando non è così. I pensieri, le emozioni, le sensazioni si sviluppano prima del bisogno di comunicarli. Siamo capaci di sognare, di provare emozioni, di comprendere ciò che ci circonda molto prima di avere i primi rudimenti della nostra lingua madre.
La lingua che parliamo sorge dentro di noi perché abbiamo necessità di comunicare, non perché la impariamo come facciamo con le lingue straniere a scuola. Il linguaggio è una mappa, un codice che viene stimolato dall’esterno, perché la comunicazione diventi efficace, da chi vuole entrare in contatto con noi quando siamo incapaci di comunicare anche i bisogni più basilari, che tuttavia esistono: fame, sonno, bisogno di essere cambiati, tenuti in braccio e amati… La lingua è un sistema simbolico sempre vivo e nuovo che procede da un bisogno primario: mettere in relazione il nostro mondo interiore con quello esteriore e viceversa. Questo concetto dovremmo tenerlo sempre presente, ricordarci che la nostra lingua è un veliero che solca l’oceano da una costa all’altra o ancora più esattamente, una nave spaziale che va da un pianeta ad un altro. La lingua è uno strumento però, non può diventare il valore astratto di un’ideologia, poiché la nostra lingua non è solo nostra, non la possediamo in modo esclusivo, sebbene abbiamo il diritto di modificarne i tratti, dobbiamo mettere in conto il rischio che i nostri cambiamenti non siano accettabili o accettati, non siano comprensibili e, siccome non la conosciamo completamente, che i nostri cambiamenti non siano nemmeno necessari.
Siamo davvero certi che l’uso, ad esempio, del linguaggio inclusivo o dell’applicazione tout court del politicamente corretto alla lingua abbia il potere taumaturgico di riformare la mente delle persone e di renderle inclusive o meno violente? Siamo davvero convinti che abolire dalla lingua, desinenze, termini, espressioni, elimini i concetti che ci sono dietro? Cioè che si elimini il pensiero che li genera? Morto un papa se ne fa sempre un altro… quel termine verrà sostituito, perché il pensiero, il concetto esiste. E siamo pronti, come umanità, a tentare di eliminare il male in sé, siamo pronti a vivere in una Utopia disegnata senza il dolore? Alla faccia di qualsiasi determinismo linguistico.
Oso dire meno male, perché una società che elimina il dolore, che elimina l’orrore, lo schifo è una società in cui non alberga alcun tipo di libertà di espressione. Eliminare ciò che non ci piace, che non riteniamo adatto, che non è in linea con i nostri valori possiamo farlo, tutt’al più come scelta autonoma per noi stessi (nemmeno per i nostri figli), nel privato abbiamo il dovere morale di delineare i confini della nostra vita in modo da essere il più fedele possibile a noi stessi, ma con quale diritto possiamo decidere per un altro, anche se siamo in totale disaccordo con lui, quale debba essere la sua realtà?
In un vivere civile ci sono le norme, dei codici anche qui, che in presenza di un crimine prevedono una condanna ed una riforma per adeguarsi ai valori che quella società civile condivide e richiede in cambio della protezione che offre. Il rischio, a cui per altro siamo esposti tutti grazie ai social, è che norme non universalmente accettate diventino leggi applicate da un tribunale mediatico che solleva onde escrementizie con ripercussioni imprevedibili, perché una certa parte di minoranza ha deciso che certe parole debbano diventare un tabù, che possano essere usate solo da alcuni, esercitando un diritto inesistente di appropriazione del codice comune. Rivendicare la salvaguardia della lingua da orpelli inutili ed insopportabili non è nemmeno il centro della polemica, molto più importante è rivendicare il diritto ad usare la lingua nella sua interezza senza che nessuno possa decidere quali parole e concetti debbano essere eliminati sulla scorta emotiva ed ideologica che non tiene in nessun conto la stratificazione culturale che la lingua porta con sé. Ognuno dovrebbe avere la libertà di parlare come desidera, in linea con i suoi valori e avere la possibilità di entrare in contatto con valori differenti che arricchiscano lo spettro di comprensione creazione della realtà.
Mi chiedo come sia possibile che per esempio, parte della comunità LGBTQIA+, così attenta agli spettri del genere non lo sia altrettanto per gli spettri della lingua. La lingua deve riflettere quindi una versione arcobaleno solo per una certa parte, quella giusta, per tutti gli altri deve essere un adeguamento ideologico? E qui veniamo al secondo punto:
Il lessico estremizzato: dal linguaggio petaloso (cit. Yasmina Pani) alla dialettica dei diritti e della cultura dell’inclusione.
La sensazione preponderante è che qui si fronteggino due squadre agguerrite che utilizzano la lingua come fosse un campo di bocce di un centro ricreativo. Ciò che si sbraitano contro, sono regole e cavilli che funzionano solo in un certo contesto e che sono avulse dalla realtà quotidiana, (qualcuno di voi può dire onestamente di parlare con la scwah, o usi un’elisione della desinenza quando tiene un discorso?), non parlano, non discutono, non negoziano, ma semplicemente urlano, generando tifoseria, argomenti con toni esasperati e violenti, o al massimo sarcastici ma sempre superficiali sia nella modalità che nei contenuti. O così, quindi linguaggio violento, un’atmosfera aggressiva in generale oppure smancerie stile “la grande bellezza”, dove tutto deve diventare edificante come un sermone di Sorrentino o stucchevole come un articolo di Gramellini.
Continuo a chiedermi a quale bisogno risponde, quale sia la necessità di un dialogo portato avanti con queste modalità. Questa è una società che desidera abolire il dolore, che lo edulcora nella letteratura, nel cinema, che lo bandisce dai social perché ritenuto pericoloso, persino eversivo, che lo demonizza oppure lo scompone, lo espone come un bestia orrifica da tenere allo zoo, dietro sbarre ben visibili che facciano comprendere a chiunque quale sia il posto che merita.
Ma Chi è questa società?
Cosa la muove, cosa la influenza?
Il lessico delle minoranze è incentrato su parole come “battaglie” “rivoluzione” “guerra” che per restare in ambito di determinismo linguistico porta il lettore a confrontarsi con un ambiente che riporta continuamente a situazioni per forza conflittuali in cui queste minoranze, sebbene esistano molti strumenti dialettici e mediatori siano invece costrette ad “imbracciare le armi per combattere..”il patriarcato, il pensiero comune, i poteri forti, il fascismo, il comunismo.. ovvero entità astratte, liquide, impossibili da definire e per questo ancor più pericolose, come il terrorismo che colpisce quando meno te lo aspetti in mezzo ai civili. La società è anch’essa liquida, pericolosamente banale e censoria. Il lessico allarmistico, quando si lega alla comunicazione mediatica ed in particolare rispetto a temi come il femminicidio (parola quanto mai orrenda) o il bullismo, aumenta la sensazione di non essere mai al sicuro e, naturalmente, alla necessità di schierarsi contro il dolore che provoca una parola, una desinenza, una forma strutturale.
Quindi la lingua diventa burocratica, ingessata ma di nuovo: a quale bisogno umano risponde questa necessità?
Molte lingue, come il tedesco, il greco moderno e ovviamente l’italiano stanno subendo un tentativo orwelliano di appiattimento e semplificazione per appiattire il pensiero? Alcune parole sono diventate di proprietà di una certa fazione, talmente è diventato forte il tabù di pronunciarle che effettivamente sembrano portare un potere distruttivo al loro interno. Nell’antroposofia di Rudolph Steiner, si osserva come la forma delle singole lettere che formano le parole porta con sé un’energia specifica e di come alcune parole, il cui significato è comune e molte lingue, siano formate dalle stesse lettere. Esiste quindi una vibrazione della parola capace di influenzare così potentemente la realtà? La cultura Woke nasce per distruggere questa capacità umana creativa, mettendo in mano a pochi “prescelti” la possibilità di creare la loro realtà e lascia a tutti gli altri una crudele simulazione? Oppure più banalmente la ripetizione di parole semplici, piatte, povere di vibrazione creativa è solo più facile per gli abitanti di una società che nel tentativo di arginare il caos si nutre di spezzoni musicali sempre uguali, di sfide seriali sui social, di pattume compattato ad hoc per non interagire con gli aspetti sgradevoli del reale?
Le parole che sentiamo costantemente dai telegiornali ai social sono incredibilmente sempre uguali a se stesse. Le parole che imperversano sul web, con la mania del “politicamente corretto”, sono vuote, si ritrovano uguali anche nei manuali scolastici e persino in quelli universitari, i quali, nelle parole essenziali, son sempre tutti uguali, pur essendoci decine di editori. Non abbiamo nessuno fisicamente che c’impone una neolingua, ma è come se l’avessimo: è la cultura dominante, così piatta, così burocratica, così priva di simbolismo e di poeticità… Se persino i libri di Roald Dahl vengono censurati e riscritti per intere parti per “non offendere nessuno” affermiamo con forza che la penna possa ferire più della spada, anche se la spada funziona anche con chi non sa leggere…
Ma continuando così, con questa lingua politicamente corretta, talmente ingessata nella struttura come nella forma da risultare impronunziabile, continuerà ad essere così? E’ possibile che la neolingua, spogliata della sua complessità, della sua musicalità, della sua stratificazione possa essere ancora un pungolo sociale? E se il linguaggio fosse un baluardo della civiltà per arginare la violenza della natura e l’entropia universale, sarebbe saggio spogliarla dei suoi attributi? La civiltà è uno sforzo contro natura, ma se eliminiamo lo sforzo, il dolore, il sacrificio nel senso di offrire la propria volontà per degli ideali, cosa resta?
Bibliografia di riferimento:
- Pensieri lenti e veloci (titolo originale Thinking, Fast and Slow) 2011 Daniel Kahneman ed.ita Mondadori;
- Wesley C. Clapp, Michael T. Rubens, Jasdeep Sabharwal, Adam Gazzley (2011);
- “Deficit in switching between functional brain networks underlines the impact of multitasking on working memory in older adults” Proceedings of the National Academy of Sciences USA 108: 7212-17;
- Roald Dahl ‘vittima del politically correct’, la polemica monta: ANSA.
Giada Santoro