Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
A-Khrid: la filosofia e la pratica dello Dzogchen tibetano – 1^ Parte – Luca Violini
Antico di mille anni, l'”A Khrid” costituisce uno dei cicli più antichi d’insegnamenti Dzogchen della tradizione Bönpo tibetana. In maniera chiara e sintetica, quest’opera – tradotta dal tibetano da Jean-Luc Acharde ora finalmente disponibile in italiano grazie alla traduzione di Lidia Castellano – espone l’insieme degli aspetti fondamentali del cammino di realizzazione spirituale (1). Gli insegnamenti che andiamo a presentare in Tibet erano riservati ad una élite, o, in altri termini, erano soltanto ammessi coloro in possesso di particolari qualificazioni. Il primo requisito era la corretta visione dello Dzogchen o Grande Perfezione. Questo implica ovviamente la connotazione letterale di visione teoretica o modo di visione filosofico ma, come sarà mostrata in questa dissertazione, questa visione si distacca dalla comune connotazione Buddhista di teoria e visione “giusta” o “errata” per coprire invece un’intera gamma di principi dottrinari metafisici. La prima osservazione da fare è che gli insegnamenti della Grande perfezione sono tradizionalmente rivolti ad individui che ancora vivono in una condizione relativa ma che sono ritenuti possedere una capacità di comprensione superiore. La Realtà, nella sua dimensione ultima, è chiamata Grande Perfezione perché non è toccata da limitazioni che caratterizzano tutti i fenomeni come la loro transitorietà, la legge di causalità connessa con la loro generazione e gli effetti ai quali sono soggetti. La Grande Perfezione è infatti caratterizzata in primo luogo da un’essenza Vuota (stong-pa), vale a dire indeterminabile, indefinibile e priva di forma e da una natura definita come “Chiarezza” (gsal-wa), termine che si riferisce al suo aspetto Auto-consapevole. Come dimensione inesprimibile e auto-consapevole, la Grande Perfezione risiede in ogni cosa e in ogni essere. Non essendo mai stata, fin dall’origine, non contaminata da nessuno dei fenomeni e totalmente perfezionata nel suo spontaneo manifestarsi, quando si parla di Grande Perfezione, i concetti dualistici di accettazione di rifiuto, di buono o cattivo non hanno dunque più alcun, senso, valore o presa.
Lo Dzogchen indica come Base, o Kunzhi, la condizione primordiale di esistenza che è sempre stata pura e spontaneamente perfezionata. Il Kunzhi è la Base dell’esistenza, della materia, come anche della mente degli esseri senzienti. L’essenza del Kunzhi è il Vuoto, ovvero lo spazio assoluto senza limiti è privo di esistenza intrinseca, di concetti e di confini. È lo spazio vuoto abitato dagli oggetti che sembra esterno a noi e lo spazio vuoto della mente. Il Kunzhi non ha un dentro né un fuori. Di esso non si può dire che esista perché è indefinibile né che non esista perché è la realtà stessa. È senza limiti e non può essere distrutto. Nonè creato e non muore. Il linguaggio per descriverlo può, a questo riguardo, essere unicamente quello del paradosso e della “via apofatica” o negativa poiché il Kunzhi è al di là del dualismo e del concetto. Qualsiasi costruzione linguistica che cerchi di descriverlo è già in errore e può solo indicare ciò che essa stessa non è, ma mai centrare la sua vera natura. L’aspetto della “Chiarezza” o di luce del Kunzhi, a livello individuale, è il “rigpa”, ovvero la pura consapevolezza. Il Kunzhi è simile al cielo ma non è il cielo reale, poiché questo che manca di coscienza, mentre il Kunzhi è consapevole, è vuota consapevolezza. Ciò non vuol dire che il Kunzhi è un soggetto cosciente di ma piuttosto che la Chiarezza (ovvero la “consapevolezza) è Vacuità, la Vacuità è Chiarezza. Non c’è né soggetto né oggetto nel Kunzhi, né nessun’altra dualità o distinzione. Quando il sole tramonta la sera, diciamo che cala l’oscurità ma ciò accade unicamente secondo il punto di vista di chi lo percepisce. Lo spazio è sempre chiaro e onnipervadente, esso non cambia quando il sole sorge o tramonta. Non esiste dunque uno spazio buio e uno luminoso in assoluto, ma solo une diversa percezione dal punto di vista di chi lo osserva. L’oscurità è il risultato della nostra coscienza intrappolata nel buio della mente ignorante.
2. Sperimentare la Natura ultima della Mente
A questo punto, se così stanno le cose, com’è possibile fare esperienza della Base? Nel Buddhismo dei sutra si insegna che una persona ordinaria non può conoscere la Vacuità attraverso la percezione diretta ma deve basarsi su deduzioni.Solo lo yogi che ha raggiunto la terza via, quella del “vedere”, ha infatti la percezione diretta yogica della Vacuità e a questo punto non è più considerato una persona ordinaria.Lo Dzogchen ha un modo di vedere diverso. Gli insegnamenti più elevati ci dicono che è sufficiente osservare la propria mente per riconoscere la natura cosciente del Kunzhi, ovvero il “rigpa”. Lopon Tenzin Namdak, Il Maestro odierno più autorevole all’interno dello Yungdrung Bon,per fare esperienza dello spazio in cui la soggettività, il sogno e la vita di veglia i hanno luogo, consiglia semplicemente di osservare direttamente ipropri pensieri senza badare ai pensieri passati né provare a cercare di attaccarsi ai pensieri futuri.Bisogna rivolgere la propria attenzione solo al pensiero che si presenta alla propria mente in questo preciso istante. Osservandolo molto attentamente domandandosi in maniera diretta ed esperienziale: “chi è l’osservatore di questo pensiero”, realizzando di conseguenza come esso stesso, l’osservatore ovvero, altro non sia che un pensiero. In questo modo sia questo soggetto che osserva sia l’oggetto osservato, dissolvendosi, si liberano entrambi nella natura nello Spazio del Kunzhi.Dopo che sono scomparsi bisogna lasciare tutto così come è, senza elaborazioni o artifici, senza riconnettersi alle tre sorgenti di passato presente e futuro. Questa è l’esperienza autentica della Base ed è ciò che gli insegnamenti indicano con “rigpa”. Il Rigpa è l’autoconsapevolezza innata e auto-originata della nostra mente. Definita come Natura della Mente o anche Stato naturale, questa è definita con il termine di “saggezza” (ye-shes). In questa accezione essa non è tuttavia la conoscenza di qualcosa di esterno, bensì una totale auto-conoscenza: il nostro volto primordiale, la nostra natura fondamentale da sempre presente in noi. Essa è la realtà fondamentale della mente, è coscienza pura.La sua essenza è identica a tutto ciò che esiste e pertanto, proprio per questo, non deve essere confusa neanche con il più calmo ed espanso degli stati mentali che possiamo sperimentare. Trascendendo ogni esperienza e dualismo, essa è la condizione illuminata della Base che riconosce se stessa. Quando non è riconosciuta si manifesta come mente concettuale, ma quando è conosciuta direttamente è sia la Via per la Liberazione che la Liberazione stessa. Gli insegnamenti Dzogchen spesso usano lo specchio (me-long) come simbolo del “rigpa” (foto 3).Uno specchio riflette tutto senza scelta né preferenza né giudizio. Similmente tutti i fenomeni dell’esperienza sorgono da, e nel,“rigpa” e si dissolvano nel “rigpa” stesso .Spesso negli insegnamenti orali dei Maestri, si parla di esperienza del “rigpa”.Questa parola può essere fuorviante perché siamo portati a pensare che il “rigpa”sia qualcosa di oggettivo ed esterno che possiamo cogliere praticando. In realtà questo Stato non può essere raggiunto attraverso l’attività di meditazione o attraverso qualsiasi sforzo o tentativo. In realtà il “rigpa” non è affatto un’esperienza, questoè piuttosto è lo “spazio” dove la soggettività (come anche ogni possibile esperienza) ha luogo.Il “rigpa”è la dimensione inconcepibile, indefinibile e non localizzabile in cui sorge questa esperienzache riconosce se stessa.Questo spazio non è generato da cause primarie o da cause strumentali e non può essere sostanzialmente prodotto.
3. La mente illuminata: una realtà troppo semplice ed evidente per essere colta da una mente sempre in cerca di “effetti speciali”
Al di là del loro aspetto teorico le istruzioni che riguardano questa condizione sono tuttavia riservate solo a praticanti avanzati, e ciò non per via della loro complessità ma, al contrario per la loro, sin troppo evidente evidenza, vale a dire per la loro sconcertante semplicità. Il praticante ordinario possiede infatti in genere un’attitudine mentale troppo complicata per poter accedere in modo coì semplice a questa “esperienza” della realtà assoluta. Ha troppe aspettative. È alla ricerca di una visione sbalorditiva, di stati alterati, di esperienze dal sapore mistico. Quando si hanno aspettative, al contrario, il “rigpa” non lo si trova. L’aspettativa riguarda la nostra fantasia e le nostre sovrastrutture con cui costruiamo il mondo. La nostra mente concettuale infatti è incapace di percepire la realtà direttamente, in modo completamente nudo. Conosce e riconosce le cose solo per immagini mentali e attraverso il linguaggio. Questo modo di operare della mente concettuale impedisce quella semplicità di cui necessitiamo. È la mente concettuale ad essere il creatore della nostra realtà. Infatti, nell’insegnamento Buddhista e induista si usa il termine “loka” per indicare il mondo come orizzonte dell’esperienza percettiva (lok-percepire, vedere). “Loka” designa sia il nostro mondo umano che altri mondi, ossia altre modalità di esistenza e dunque di esperienza .
Secondo il Buddhismo non esiste una realtà oggettiva ma solo un flusso di percezioni di esperienze. Sebbene il mondo appaia come distinto e concreto, secondo il Buddhismo, esso è in realtà simile ai sogni privi di sostanza. I soggetti e gli oggetti fissi e duraturi sono solo dei costrutti della nostra mente concettuale, creati sulla base del nostro flusso di esperienze. A questo proposito si racconta che, una volta, s’incontrarono presso le rive del fiume Gange degli esseri appartenenti alle sei diverse dimensioni di esistenza entro cui può avvenire la nascita (Il Buddhismo distingue sei tipi di Loka). Ognuno di essi vide il fiume in un modo diverso. La divinità vide in esso del nettare, lo spirito famelico della lava incandescente, l’uomo dell’acqua limpida, eccetera. Questa storiella indica chiaramente che per il Buddhismo e per lo Dzogchen non esiste una realtà concreta uguale per tuttii tipi di esseri ma che tutto è una creazione della mente concettuale. Questa capacità della mente di modellare l’esperienza diretta sebbene sia di inestimabile valore è la causa di uno degli ostacoli persistenti nella pratica.
4. Il sistema di pratica dell’A-khrid
La mente convenzionale cerca di contestualizzare catalogare l’esperienza complicando tutto. Siamo all’interno di una gabbia che ci siamo costruiti noi stessi. L’insegnamento Dzogchen per essere utile deve entrare in questa gabbia e distruggerla dall’interno. Da questo punto di vista l’A-khrid, è uno dei sistemi più antichi utilizzati per questo scopo esi compone di quindici sessioni di quindici differenti tappe della meditazione secondo, raccolte a loro volta in tre gruppi principali. Il primo gruppo è costituito dalle “Pratiche Preliminari”, il secondo gruppo raccoglie le “Pratiche Principali”, il terzo infine è il gruppo delle cosiddette “Pratiche del Completamento”. Il gruppo delle Pratiche Preliminari comprende le pratiche sull’Impermanenza, il Bodhicitta (ovvero la Mente di Compassione), il Rifugio, la pratica di Confessione, nonché la preghiera e la trasmissione delle benedizioni del Maestro. Fanno parte del gruppo delle Pratiche Principali la pratica sulla “A”, ovvero la pratica di fissazione su un oggetto esterno (rappresentato dalla lettera tibetana “A”), quindi la pratica senza l’oggetto (anche detta sessione di stabilizzazione o bilanciamento), seguita dalla settima sessione ovvero quella riguardante lo sviluppo della pratica di stabilizzazione della mente, quindi l’ottava sessione relativa alle modalità per riconoscere la Saggezza Auto-originata (vale a dire il “rigpa”), la nona sessione riguardante i metodi per separare (o rimuovere) le tracce lasciate dai propri pensieri dalla Saggezza Auto-originata ed infine la decima sessione, che espone come integrare lo stato della Saggezza Indistruttibile (immutabile e adamantina) con tutte le attività quotidiane che prevedono l’impiego del corpo, della voce e la mente. Il terzo gruppo, detto delle “Pratiche del Completamento”, racchiude le ultime cinque sessioni. L’undicesima è relativa alla pratica del sonno e del sogno: questa sezione si riferisce dunque al modo per integrare la Saggezza Indistruttibile con il sonno ed i sogni. La dodicesima riguarda la pratica nella Luce nel corso della giornata (integrazione delle esperienze dei sei sensi). La tredicesima insegna come integrare i pensieri nella pratica durante tutto l’arco della giornata e della notte. La quattordicesima sessione è invece inerente allo sviluppo dello stato della consapevolezza del “rigpa” in ogni momento del giorno e della notte, infine la quindicesima sessione racchiude la pratica del Powa (ovvero la pratica di “trasferimento” del proprio principio cosciente in una dimensione di Liberazione, al momento della morte), della Dedica dei Meriti e della Preghiera. Le quindici sessioni raccolte in questi tre gruppi rappresentano l’insegnamento Dzogchen nella sua completezza; se sono insegnate, comprese e praticate nel modo corretto, esse sono un insegnamento completo, totale, tale da permettere al praticante di realizzare le tre condizioni necessarie per fare esperienza della Base e che si potrebbero far corrispondere rispettivamente ai tre termini di ‘potenzialità’, di ‘virtualità’ e di ‘attualità’:
1) la potenzialità è la qualificazione costituita da certe possibilità inerenti alla natura propria dell’individuo, e che sono la materia prima su cui il lavoro spirituale dovrà effettuarsi;
2) la virtualità è la trasmissione, ottenuta per il tramite di un collegamento reale aduna scuola tradizionale portatrice di un’influenza spirituale primigenia e che permetta di ordinare e di sviluppare quelle possibilità che il praticante qualificato porta con sé;
3) l’attualità è il lavoro interiore per cui, con l’aiuto di ‘cooperanti’ o di ‘appoggi’ esteriori – se è il caso, e soprattutto nei primi stadi – questo sviluppo sarà realizzato gradualmente, facendo passare il praticante, di gradino in gradino per condurlo allo scopo finale dell’esperienza del “rigpa”.
5. La sezione delle “pratiche preliminari” e il collegamento a una catena iniziatica tramite il Maestro
Il primo gruppo delle pratiche preliminari coprono i due primi due punti: la qualificazione del praticante e la trasmissione. I questo senso, le pratiche sull’Impermanenza dei fenomeni, la Bodhicitta, il Rifugio e la Confessione intendono addestrare la mente ad eliminare gli stati negativi e sviluppare quelli positivi. Nel sistema indiano dello Samkhya, il “loka” (regno) degli esseri umani cioè il mondo come esperito dagli esseri umani può essere analizzato secondo tre qualità(guna):“sattva”, la leggerezza,la trasparenza luminosa, l’intelligenza, la gioia: il “rajas”, ovvero l’attività, il movimento, il dolore, la passione; il “tamas”, vale a dire la pesantezza, il movimento e il limite. La mente, per sua natura, sarebbe sattvica ma è, in varia misura, affetta dalle due altre qualità che la tengono saldamente incatenato a una percezione limitante. Questa serie di pratiche servono ad allentare l’influenza di queste due ultime qualità sviluppando un etica del distacco che mira ad avvicinarci all’“esperienza del “rigpa”e al raggiungimento della conseguente felicità.Ricordiamo a questo riguardo che, per il Buddhismo, lo scopo della dottrina, come della vita, è il raggiungimento della felicità. Partendo da quest’ottica, queste prime pratiche servono a purificare e dissolvere gli oscuramenti che temporaneamente offuscano la nostra natura di Buddha e tutti quegli stati mentali negativiche generano l’infelicità e la tristezza.
Le pratiche preliminari, pur costituendo un valido metodo per condurre il praticante a superare le possibilità stesse della sua individualità e della percezione umana come tale, non bastano da sole, poiché è evidente che l’individuo non può superare se stesso solo con i suoi mezzi propri. I pensieri buoni hanno un effetto positivo sulla nostra mente ma non portano all’esperienza del “rigpa” perché pensieri buoni o cattivi sono ostacoli identici rispetti all’esperienza diretta del “rigpa”, che è al di là del pensiero ed il pensiero non può capire ciò che al di là di se stesso. In questo ambito si precisa che il praticante ha dunque bisogno di un maestro attraverso il quale possa avere il collegamento ad un insegnamento e ad un ordine iniziatico che non hanno un origine umana. Il Maestro fa parte di una catena ininterrotta di trasmettitori, nel senso più preciso della parola; questo infatti non agisce in quanto individuo, ma in quanto appoggio di una influenza che non appartenente all’ordine individuale poiché il Kunzhi, il punto di partenza, la Basa, l’Origine, è al di là del livello umano. Il Maestro non agisce in nome proprio, ma in ragione della “catena” iniziatica a cui è collegato e da cui detiene i suoi poteri. Il Maestro è dunque il depositario di una Conoscenza impossibile da comunicare come se fosse un comune insegnante di scuola; si tratta qui di una trasmissione che, nella sua essenza stessa, riguarda una dimensione propriamente incomunicabile, poiché lo stato del “rigpa” è qualcosa che attiene unicamente a un’“esperienza personale” e non trasmissibile. I Maestri possono insegnare invero soltanto certi metodi per ottenere particolari Stati mentali favorevoli per varcare la soglia del limite umano; a tale riguardo, dal di fuori, non può essere fornito che un aiuto, un appoggio per facilitare grandemente il lavoro da compiersi, ed anche un controllo per allontanare gli ostacoli ed i pericoli che possono presentarsi. Ciononostante il Maestro non trasmette la sua conoscenza; egli non può condividere le sue realizzazioni, ma unicamente tramettere l’influenza spirituale viva capace di produrre, in alcuni allievi qualificati, il passaggio dalla potenzialità all’attualità dell’esperienza, senza bisogno di pratica alcuna. Affinché possa esserci la trasmissione di quest’influenza spirituale è necessario che il praticante sviluppi una forte connessione con il Maestro. La pratica principale per sviluppare questa connessione “da cuore a cuore” è il Guru Yoga, ovvero la pratica meditativa di visualizzazione, purificazione, benedizione, potenziamento e unificazione con il Maestro. Rafforzando il legame con il maestro attraverso la pratica del Guru Yoga arriviamo alla dimensione della devozione pura che è la base e inamovibile per la trasmissione. L’essenza del Guru Yoga non serve solo per creare una connessione con il Maestro e il lignaggio spirituale ma anche incontrare il “vero Maestro”. Chi è il vero Maestro? Il vero Maestro è la Natura fondamentale, senza forma, della mente; la consapevolezza primordiale della Base di tutto. Nella tradizione dello Dzogchen abbiamo due tipi di Maestri il Maestro esterno Umano e il Maestro segreto, il “rigpa”. Il Maestro esterno è il messaggero dell’insegnamento, è colui che porta la Saggezza del Buddha al discepolo. Senza di lui non potremo entrare nella via interiore. Così dobbiamo provare tanta devozione al Maestro quanta ne proveremo verso il Buddha se, all’improvviso, ci apparisse davanti. Ma Guru Yoga non significa soltanto generare devozione; esso vuol dire anche trovare il “rigpa”, la natura fondamentale della mente in noi stessi, quella natura presente anche in tutti i nostri Maestri,in tutti gli esseri realizzati e in tutti i Buddha. Il vero maestro, il Maestro segreto, è dunque il “rigpa”: la coscienza pura non duale.
6. La fissazione della mente e la sua stabilizzazione
Quando abbiamo raggiunto una certa familiarità con le pratiche del primo gruppo passiamo a quelle del secondo gruppo la cui pratiche principali che ci conducono per mano verso il nudo riconoscimento del “rigpa”. Per comprendere appieno le tappe del secondo gruppo è benefare alcune brevi considerazioni sia su come funziona la nostra mente sia com’è organizzato il nostro corpo energetico secondo gli insegnamenti Dzogchen. Quando il discepolo viene introdotto alla pratica dello Dzogchen, le “pratiche con attributi” vengono insegnate per prime. Solo dopo che si sia avuto qualche progresso nell’esperienza del praticante, si incomincia la “pratica senza attributi” perché lo stile dominante della nostra coscienza ha a che vedere con gli oggetti esterni e interni con cui ci si identifica. Poiché ci identifichiamo con le attività in movimento, inizialmente, la pratica deve fornire qualcosa a cui aggrapparsi. Se ci dicessero “sii soltanto lo Spazio” la mente concettuale non riuscirebbe a dare un senso a questa affermazione perché non implica qualcosa da afferrare. Cercherebbe di farsi un’idea, un’immagine con cui identificarsi ma questa non è la pratica. Se invece ci dicono di visualizzare qualcosa e poi di dissolverlo, la mente si sente a suo agioperché ha qualcosa a cui pensare .Così in questo gruppo di pratiche usiamo la mente concettuale e gli oggetti della coscienza nelle fasi iniziali per guidare la mente per poi passare a meditazioni senza attributi ed infine superare la soglia del limite della mente concettuale. Per quanto riguarda il corpo energetico secondo la tradizione dello Dzogchen quando la mente rimane consapevole durante la meditazione, può procedere verso le esperienze meditative superiori.Ma quando manca la consapevolezza la mente rimane invischiata in un interminabile chiacchierio interiore, si fissa su dei problemi, sulle paure.Questo ci spinge in luoghi dove non sempre si desidera andare, ma qualunque sia la destinazione la forza che ci ha portati fin lì è il “prana”. Il “prana” è l’energia essenziale che è alla base di tutta l’esistenza.È l’essenza che pervade ogni cosa sia la mente sia la materia. Alcuni aspetti del “prana” rappresentano l’energia del “rigpa” altri invece animano e alimentano il flusso dei pensieri. Altri ancora generano e sostengono la nostra visione come esseri umani.
In questo secondo gruppo delle pratiche A-Khrid si lavora con il “prana” che sostiene il movimento mentale ed i “prana” (o “venti”) che rappresentano la vitalità del “rigpa”. Per poter fare l’esperienza del “rigpa”è necessario imbrigliare il “prana”del movimento mentale e guidarlo, invece di essere guidati da esso.Per guidare in modo consapevole il “prana” occorre innanzitutto avere una conoscenza di base del corpo energetico. A differenza del corpo fisico, che è fatto di carne di ossa sangue e vene, il corpo energetico è un insieme di sfere di luce, venti sacri, canali luminosi e chakra. Per spiegare il rapporto tra la mente,il “prana” del movimento mentale, i “canali” e i“chakra” negli insegnamenti Bonposi ricorre all’analogia del cavaliere, del cavallo e del sentiero. Il “prana” del movimento mentale è come un cavallo cieco. Senza la mente, che tiene le redini, questo tipo di“prana” corre all’impazzata senza una direzione precisa. La mente è come un cavaliere zoppo. Senza il “prana” la mente non potrebbe muoversi e senza tenere le redini del cavallo sarebbe in balia di un cavallo cieco imbizzarrito. Quando la mente tiene ben strettele redini allora potrà condurre il cavallo nel giusto sentiero che sono particolari tipi di canali energetici, il cui più importante è quello noto come canale centrale. Il metodo fondamentale per portare il “prana” mentale sotto controllo è la concentrazione, a cui è abbinata un’opportuna posizione corporea. La concentrazione permette alla mente di accedere e di connettersi alle esperienze più alte e profonde. Porta la mente in uno stato trasparente, gioioso e leggero. In tutte le discipline yogiche vi è qualche forma di meditazione che favorisce lo stato calmo e concentrato. Nella tradizione tibetana questa pratica è nota come “shine”. Riconosciamo tre stadi nello sviluppo della pratica. Lo “shine” forzato lo “shine” naturale e lo “shine” finale. Come ricorda lo stesso testo dell’A-khrid, lo “shine” comincia con la fissazione di un oggetto che può essere una statua, un’immagine o anche un suono. In questa tradizione si usa come oggetto di concentrazione una lettera “A” tibetana racchiusa da cinque cerchi concentrici colorati oppure su un suono (foto 4) Nel primo stadio della pratica, detto “shine” forzato, si mantiene ferma la mente su uno oggetto. Si dirige continuamente la mente sull’oggetto sviluppando il controllo della mente indisciplinata. Non bisogna seguire i pensieri riguardanti il passato e il futuro, ma si deve rimanere nel momento presente con grande forza e chiarezza. Man a mano che si sviluppa la stabilità concentrativa si entra nel secondo stadio, lo “shine” naturale. In questo stadio la mente è assorbita nella contemplazione dell’oggetto e non c’è più bisogno di forzarla e mantenerla ferma. Si stabilisce una tranquillità rilassata in cui la mente è tranquilla e i pensieri sorgono senza distrarla dall’oggetto. Questo è il momento per passare al secondo stadio del gruppo delle pratiche principali, ovvero“la pratica senza oggetto”. Abbandonando l’oggetto fisico si fissa semplicemente lo spazio. Qui, lasciando il corpo rilassato, non focalizziamo la mente su un particolare punto ma lasciamo che la mente si espanda pur rimanendo in uno stato di forte presenza. Questo si chiama “dissolvere la mente nello spazio”. Questa pratica porta al terzo stadio dello “shine”, in cui la mente diventa sempre più tranquilla flessibile e rilassata. Il terzo stadio è lo stato più alto che la mente possa raggiungere ma deve ancora varcare la soglia che lo separa dall’esperienza del “rigpa”, quello dunque dell’autoconsapevolezza primordiale.
Note:
1 – Jean-Luc Achard, A Khrid: le istruzioni sulla “A” primordiale, Vannes, Le loupdessteppes, 2019 (edizione italiana a cura di Martino Nicoletti, traduzione dall’inglese di Lidia Castellano).
(continua … )
Luca Violini