
La chiamata degli Eroi – Luigi Mancuso
Perché l’Eroe è veramente tale? Perché in quest’epoca noi dobbiamo avere un disperato bisogno di Eroi? Perché l’Eroe è colui che porta l’ordine nel caos, la misura nella confusione in tutto ciò che è indifferenziato. E non c’è quindi da stupirsi se quest’epoca considera l’Eroe come qualcosa di cui liberarsi, come il vetusto retaggio di un passato che deve essere sacrificato sull’altare di un progressismo culturale che mira all’annichilamento dell’uomo come della donna. Il termine “Eroe” sembra essere correlato proprio con la Dea Era e, come ci insegna la Tradizione mitica, sia Ercole che Enea sono tormentati e sottoposti a continue fatiche proprio da Giunone-Hera, affinché l’Eroe debba elevarsi al di sopra della condizione terrigena, incarnata dalla moglie di Zeus per trasformare così la sua humanitas, da humus, in virilitas. Era, poi, non richiama soltanto la Madre Terra come dimensione materiale da cui bisogna distaccarsi, ma anche la Dea connessa con la giovinezza, la fertilità e col rinnovo primaverile[i]. Questo tipo di approccio alla Via del Sacro che l’Eroe del Mito deve saper incarnare richiama la concezione dello spirito delle comunità dei pastori-guerrieri degli Indoeuropei. Si tratta per l’appunto di una spiritualità antica, quando gli Indoeuropei, provenienti dalla loro Urheimat nordica, erano posti alla sfida del gelido inverno dove in pochi avevano la forza di sopravvivere, la terra in quel periodo dell’anno era quindi gelida, non ancora vivificata dai raggi del Sole. È il principio femminile, in chiave ambivalente, dispensatore sia di Morte, che di Vita. Solo colui che sa dominare il freddo dell’inverno ha la possibilità di vedere la nuova primavera. Il percorso dell’Eroe del Mito classico incarna alla perfezione questo principio di elevazione interiore. L’uomo greco-romano incarna un ideale fondato sulla disciplina, sul non cedere alle passioni e al divenire. Una concezione, questa, che si trova non a caso nella simbologia delle Acque e della Donna come forme archetipali. È la potenza dell’Uomo che si erge contro le forze caotiche e trascinanti, l’ostacolo a cui deve reagire per realizzare sé stesso. Come fa notare Julius Evola, l’apparizione di Roma nella Storia è il realizzarsi dell’ultimo tentativo di fermare le forze travolgenti dell’Età del Ferro per organizzare i popoli del mondo conosciuto in un ordine imperiale, in forma più salda e grandiosa, di quanto Alessandro Magno non era riuscito a realizzare che per un breve periodo[ii].
Il diritto paterno dei clan gentilizi di Roma antica pone la donna in secondo piano rispetto all’uomo, del pater familias, ma forse sarebbe più corretto affermare che la donna romana occupa una dimensione subalterna non per via di una sorta di “inferiorità” in senso moderno, ma in quanto ella è base e fondamento dello stesso civis romanus. Virgilio con la scrittura dell’Eneide voleva rendere ben chiaro il fatto che ogni cittadino doveva incarnare certi valori eroici, dopo la catastrofe delle guerre civili che avevano scosso profondamente la Repubblica romana fin nelle sue fondamenta. Con un nuovo poema epico si andavano a gettarsi le fondamenta per una aristocrazia guerriera forgiata nei valori del mos maiorum al fine di iniziare i migliori Romani ad una più nobile concezione dell’uomo e del potere, per trasfigurare sé stessi e trasformare così il mondo[iii]. Quindi, una nuova progenie di cittadini tali e quali a Enea che non si fanno tentare dalla figura di Didone. Ma come mai la Donna nella sua simbologia è portatrice sia di vita che di morte, di misura, come di distruzione? Il simbolo di Venere in alchimia è il tutto, ovvero il cerchio, che ha il dominio sui quattro elementi raffigurati dalla croce; quindi, la capacità della generazione dell’incondizionato che ha ragione sopra ogni limite e portato alla dispersione continua. Per controbilanciare il divenire bisogna arrestare questa caduta ponendo un argine ed è lì che interviene la forza maschile ed eroica incarnata da Marte per dare forma alle cose e disciplinarle. La Venere latina è colei che sviluppa il senso della pietas, quale sentimento di devozione e amore religioso che nell’atto rituale viene richiamata attraverso il vino quale bevanda sacra, al pari dell’haoma della tradizione iranica, che ha la capacità di attirare a sé la Divinità che si sta adorando in quel momento, ma al tempo stesso, se il vino sviluppa la venia quale forza di attrazione metafisica verso i Numi, al tempo stesso per i profani può essere veleno, ovvero venenum[iv]. Il vino, in quanto venenum, è anche vera medicina[v] e si può facilmente notare come sia connesso semanticamente a Venere, proprio come la parola venenum, anche il verbo venerare. L’Eroe nella Tradizione Classica non si sottomette alla Donna, ma si ricongiunge ad essa come due parti di un insieme. <<Il Guerriero (L’Eroe) e l’Asceta sono dunque i due tipi fondamentali della virilità pura. In simmetria con essi, ve ne sono due per la natura femminile. La donna realizza sé stessa come tale, si eleva allo stesso livello dell’uomo come Guerriero e come Asceta, in quanto è Amante e in quanto è Madre.>>[vi]. Non a caso l’Eneide termina proprio con la riappacificazione di Giove e Giunone, con Enea che ha saputo dominare sé stesso e sviluppare la sua virtus per compiere il suo fatum, che è anche quello di Roma. Così Giove si rivolge alla sua Regina alla fine dell’epopea troiana:
<<Ma placa, dunque, il furore che invano t’ha presa.
Concedo quello che vuoi, vinto e volente m’arrendo.
La lingua patria e i costumi serberanno gli Ausonii,
com’è sarà il nome: misti soltanto di sangue
soggiaceranno i Troiani. Riti e costumi sacrali
darò, farò tutti, con unico nome, Latini!
E la stirpe che mista di sangue uscirà, vincer gli uomini,
vincere i numi nell’onor tuo la vedrai,
nessun altro popolo tanto celebrerà mai il tuo nume.>>[vii]
In questo modo l’Eroe può e deve realizzare così l’opera a cui ogni cittadino romano doveva tendere: fondare la propria città sacra dentro sé stesso, scolpendo giorno dopo giorno la pietra che è la sua natura grezza per tirarne fuori una statua. Giunone, Cerere, Cibele e Venere sono a tutti gli effetti delle Grandi Madri, le quali incarnano simbolicamente un utero nel quale avviene la fase preparatoria della nascita dell’Eroe iniziato. Il culto di Mithra era, non a caso, caratterizzato proprio dai mitrei come luoghi sotterranei, all’interno dei quali doveva fuori uscire e svilupparsi una palingenesi solare. Si trattava, in sostanza di far scaturire il Fuoco del Sole dalla materia grezza della terra. Un ruolo analogo a quello di Giunone viene ricoperto anche da Venere, la quale è sia la stella di Espero, al tramonto, che quella di Lucifero al mattino, la stella portatrice dell’alba e della luce solare e che guida i Troiani nella terra di Hesperia, ovvero l’Italia. Giuliano Augusto, diceva che <<Helios è il fondatore della nostra città. Infatti, Zeus che è celebrato come padre universale, non solo abita a Roma la rocca insieme con Atena e con Afrodite, ma anche il colle Palatino è tenuto da Apollo e da Helios stesso secondo la comune e universalmente nota denominazione.>>[viii], poi, continua l’Augusto: <<E come noi successori di Romolo e di Enea dobbiamo in ogni senso e riguardo riferirci a lui […] Enea secondo il mito è figlio d’Afrodite, che è cooperatrice di Helios e di lui parente.>>[ix]
Alla rigidità e al senso della gravitas proprio dei prisci latini, Adriano Romualdi contrappone poi, citando Altheim, un elemento “dionisiaco” opposto a quello Romano che richiama quello <<dell’eroe cavalleresco e il combattente individuale, che agognavano all’avventura e alla fama, profondamente diversi dagli ubbidienti e disciplinati soldati di formazione romana. E come la vita etrusca si svolgeva nell’opposta tensione di riso e crudeltà, di piacere sensuale ed avventura, di indolenza svagata ed affermazione eroica, non diversamente nell’opposizione di cavaliere e dama: la donna dominava sull’uomo e nella casa e prendeva parte anche alla vita pubblica. Una visione femminile del mondo s’esprime in Etruria dovunque…>>[x]. Come fa notare Casalino, la componente spirituale etrusca sembra essere in un certo qual modo non solo diversa, ma addirittura antagonista a quella romana[xi], in particolar modo e sebbene possiamo ritenere ormai superate le tesi del Bachofen, gli va comunque dato credito nell’aver individuato elementi non romani nella fase monarchica di Roma. Mi riferisco nello specifico all’individuazione delle “donne regali” che danno la sovranità al rex è stata proposta a sua volta da J. Heurgon, poiché dietro la figura sovrana della donna etrusca si intravedeva il ruolo svolto proprio da queste donne certamente superiore a quello delle donne romane in età repubblicana[xii]. Si può infatti vedere nella tarda spiritualità etrusca un primato femminile su quello maschile e che ribalta la visione virile e indoeuropea del Cielo luminoso che si riflette in terra. La lotta della volontà dell’uomo sopra le Acque, dell’Essere contro il Divenire si esplica anche nella dimensione storica e “profana” degli eventi. Questa la via e la visione che ha contraddistinto gli Indoeuropei quali pastori e guerrieri ed erano proprio i loro discendenti che facevano parte del patriziato romano. Non a torto Piganiol individua nei plebei un elemento etnico contrapposto a quello dei patres, la cui secessione sull’Aventino potrebbe aver avuto lo scopo di fondare una città sacra in opposizione a Roma che potesse riaffermare l’autorità politica degli autoctoni contro gli invasori latini di sangue e cultura indoeuropea[xiii].
Caratteristico del Sud e delle sue civiltà rispetto a quelle del Nord si ha poi una visione spirituale della vita che non vede nel Sole il principio supremo, ma godono di maggiore importanza i suoi effetti nella rigogliosità della Terra, ed ecco che assume un ruolo estremamente importante la Grande Madre quale forza che sottomette l’elemento virile dell’uomo. Questa Grande Madre come divinità pare fosse particolarmente venerata dai Minoici. In un sigillo del palazzo di Cnosso appare la Dea su di un monte circondata da due leoni, mentre la figura maschile presente nella scena sembra essere abbagliata dalla Dea[xiv]. Invece, il culto della Grande Madre sembra attestato in Anatolia intorno al 6200 e al 5400 a.C., ed ella viene raffigurata in delle statuette che la ritraggono nuda circondata da dei felini, oppure strettamente legata al simbolo del toro[xv]. Evola scrive che tipico di questa concezione spirituale, e ai Misteri a essa legata, fosse presente per l’appunto l’evirazione dell’uomo, basti pensare ai Misteri di Cibele[xvi]. Sempre il filosofo, poi, vede in tutta una serie di culti ctoni come quello Dispater, Proserpina, Venere Ericina e non ultimo quello di Cibele, come una corruzione dell’ideale spirituale romano e un’infiltrazione di una religiosità asiatica e plebea[xvii]. Personalmente non concordo su questo punto con quanto scritto da Evola, perché, se è vero da una parte, prendendo in esame il culto di Cibele, che all’inizio solo i sacerdoti-eunuchi frigi avevano il diritto di eseguire certi riti, con annesso divieto ai cittadini romani di essere iniziati a questi Misteri, è vero anche che nel corso del tempo il culto di Cibele venne profondamente riadattato alle esigenze spirituali del mos maiorum, romanizzando profondamente un culto apparentemente straniero, in modo tale che anche i cittadini romani potessero esserne iniziati. L’Urbe ha sempre mostrato la capacità non solo di accogliere nuovi culti, ma di trasformarli e riadattarli alla mentalità dei Quiriti e facendoli entrare a conti fatti nella religione dei Romani. Indicativo di come il culto di Cibele sia stato ampiamente modificato dalla Sapienza giuridica e religiosa dei Romani è proprio la creazione dell’archigallus, ovvero un sacerdote di origine non orientale e quindi cittadino romano, che a differenza dei sacerdoti della Frigia aveva uno statuto ufficiale e non doveva sottoporsi alla pratica dell’evirazione. Insieme a queste modifiche cultuali abbiamo anche la pratica del sacrificio del toro, il taurobolium, sembra far ritorno l’antico simbolismo del toro collegato alla Grande Madre, ed è probabile che questo rito sia nato come alternativa alla castrazione. Altro particolare da non sottovalutare è il fatto che questo rito del sacrificio del toro era svolto in favore della famiglia imperiale e dell’Urbe e dal II secolo d.C. è attestato anche in forma privata[xviii].
Spostandoci dal continente europeo, per prendere in esame un altro ramo della spiritualità indoeuropea, quella indiana, notiamo che tra i precetti che si devono seguire nella dottrina buddhista, occorre fermare il dukkha, ovvero il dolore, la sofferenza, il samsāra, il ciclo della continuità. Dukkha si manifesta a causa della sete, ovvero tanhā, e viene placata solo grazie alla saggezza[xix]. Secondo Evola, il termine dukkha, più che essere tradotto comunemente come “sofferenza”, nel suo significando più profondo, indica invece lo stato di agitazione e di “inquietudine”. Per cui, la cessazione di dukkha consiste nel raggiungimento di una calma impassibilità superiore sia al dolore che alla gioia[xx]. Essenziale è nelle varie ramificazioni della spiritualità indoeuropea, è il fermare l’acqua e la sete. Questo scopo, nel Mito di Cibele, viene ricoperto dal giovinetto Attis da lei amato, il quale, fatto impazzire dalla Grande Madre degli Dèi a causa di un suo innamoramento per una Ninfa, Divinità sempre connessa all’Acqua, in preda all’estasi si evirò. Una volta mutilato, Attis abbandonò la Ninfa per tornare dalla Grande Madre. Questo episodio simboleggia l’uomo agitato dalla sete del dukkha, che, una volta placata, gli permette di riottenere la solarità perduta. Infatti, Attis è associato sia alla figura di Demiurgo, causa prima e creatore immediato del mondo materiale che con la sua evirazione cessa la spinta verso l’illimitato[xxi], che Sole esso stesso. Un’analoga simbologia si riscontra anche in un grande Sapiente come Proclo, poiché nel libro V della Teologia platonica, parla di Rea, ricoprendo le analoghe funzioni di Cibele, come colei che ha prestabilito le cause della vita nella sua totalità universale[xxii] e che agisce nel mezzo tra Crono, l’Intelletto purissimo; quindi, la forma più elevata di intelletto, e Zeus è anch’egli considerato come Intelletto divino perché ha un’anima regale e un intelletto regale. Crono e Zeus sono da considerare entrambi come due sovrani del Cosmo, ma la loro capacità generativa viene resa possibile proprio da Rea, che appunto agisce nella funzione tipica della filosofia greca della sympatheia, cioè una forza capace di mettere in correlazioni due aspetti della realtà apparentemente inconciliabili tra di loro. Da una parte Rea è sposa di Crono, perché agisce in comunione il principio superiore dell’Intelletto e dall’altro lato Rea trasmette la sua capacità generativa a Zeus suo figlio per rendere il Cosmo un vero e proprio essere vivente dotato anch’esso di un’anima, ovvero l’Anima del Mondo. Cibele-Rea condivide il trono con Zeus ed è la fonte degli Dèi dotati di intelletto[xxiii]. Possiamo aggiungere quindi, che Rea grazie alla sua capacità generatrice è colei che infonde la vita nel mondo permettendo che le sue varie componenti si uniscano con un certo ordine seguendo ben precisi tratti armonici. Dato che Crono, Rea-Cibele e Zeus formano la triade intellettiva, possiamo notare, per rendere ancora più chiaro il tutto, come Crono sia il seme quale nascita dell’Intelletto, Rea la gestazione e l’espansione dell’intelletto, Zeus è la forma che ferma la generazione continua. Volendo scavare ancora più a fondo, questa stessa tripartizione può essere presente anche a Roma, dato che la Visione dell’Eroe classico greco-romano è la medesima perché è la visione cosmica indoeuropea: la Visione del Fuoco, della terra, del sangue della stirpe e dello spazio ordinato secondo il rituale. Dicevo, a Roma ciò si esplica nel punto centrale (Crono-Saturno), nello spazio circolare attorno ad esso, come quello della fossa del mundus, ovvero le forze del divenire e dell’indifferenziato, in questo modo <<scavata la fossa circolare, il mundus, e gettatovi il pugno di terra cui era simbolicamente e realmente legata l’anima degli avi, iniziava la possente e misteriosa vita della terra patrum, della terra dei padri, della patria, ossia della terra cui sarà legato il destino della razza.>>[xxiv]
Infine, viene tracciato il quadrato che definisce lo spazio. La quadratura del cerchio. È cosa nota che i Romani posero lungo la Via Sacra la pietra nera, il lapis niger che nella Tradizione ermetica è nient’altro che il simbolo di Saturno-Crono. Da questa “pietra che non è pietra”, ma κόσμου μίμητα, immagine del cosmo, scaturiscono Eroi e Dèi[xxv]. Ritornando a Cibele, per concludere, quando la Dea giunse in Italia sul finire della seconda guerra punica, il Senato chiese al re Attalo di Pergamo di portare la pietra nera della Dea da Pessinunte a Roma, anche se nulla vieta di presupporre che la pietra provenisse proprio dal monte Ida, per scongiurare la minaccia di Annibale. Questo atto compiuto dai Romani non può e non deve essere visto come un semplice episodio di propaganda politica, ma anzi sta a simboleggiare la rivendicazione delle origini iliache di Roma da parte del suo popolo. Bisogna ricordare che Cibele era infatti venerata con il nome di Grande Madre Idea, Iδαία (Idaia), in riferimento proprio all’Ida, il monte sacro di Troia, montagna dove Anchise si unì a Venere per concepire l’Eroe Enea. Non è infatti casuale che fu proprio il patriziato romano a volere il culto della Grande Madre degli Dèi, perché, agli occhi dei patres, Cibele è il principio di carattere cosmico, il cui culto venne celebrato pubblicamente sul Palatino e quindi posto dentro il pomerio. E questo non può che essere il riemergere di un ricordo ancestrale che inizia con la venuta di Enea in Italia, passando attraverso i secoli e le generazioni, per giungere fino alla città di Alba Longa e alla vestale, nonché principessa di quella città, Rea Silvia, la quale verrà poi concupita da Marte. Capiamo allora che l’associazione tra la divinità Rea e la Rea madre di Romolo e Remo non è affatto casuale, perché l’epiteto di “Idaia” rimanderebbe anche alla parola greca ϊδη (ide), cioè “bosco”, che in latino è accostabile proprio alla parola silva, quindi Rea Silvia. In base alle informazioni che sono giunte fino a noi e alla continuità della tradizione classica nel corso del tempo, possiamo quindi notare come Rea Silvia possa essere identificata come un’epitome non solo di Cibele, ma anche e soprattutto di Venere stessa, celeberrima sposa di Marte, la quale ha fatto in modo di dare continuità al sangue e alla stirpe di Enea per dare inizio alla vicenda di Roma nel mondo. E qui il cerchio si chiude, connettendo il tutto con l’origine stessa dell’Urbe e della Saturnia Tellus quale terra di una nuova stirpe di Eroi olimpici. Saturnia Tellus, magna virum.[xxvi].
Note:
[i] J. L. García Ramón, Hera and Hero: Recostructing lexicon and God-names, su Academia.edu, p. 45-47.
[ii] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee 1969, p. 322.
[iii] Y. Albert Dauge, Virgilio e la Luce Divina di Roma: Esoterismo e iniziazione nell’opera virgiliana, Edizioni Victrix 2021, p. 41.
[iv] C. Rutilio, Pax Deorum: La Religione Prisca di Roma, Edizioni Arktos 2013, p. 92.
[v] Ibidem, p. 93.
[vi] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, p. 202.
[vii] Virgilio, Eneide, XII, 832-837.
[viii] Giuliano Imperatore, Inno a Helios Re, 153, d.
[ix] Ibidem, 153 d-154.
[x] A. Romualdi, Los Indoeuropeos: Orìgines y migraciones, Ediciones del C.E.I, Madrid 2002, p. 108; cfr, F. Altheim, Dall’antichità al medioevo, Sansoni, Firenze 1961, p. 259.
[xi] G. Casalino, Il nome segreto di Roma: Metafisica della romanità, Edizioni Mediterranee 2003, p. 134.
[xii] C. Ampollo, La città riformata e l’organizzazione centuriata. Lo spazio, il tempo, il sacro nella nuova realtà urbana in Storia di Roma, a cura di A. Giardina e A. Schiavone, Einaudi 1999, p. 58-60.
[xiii] A. Piganiol, Le conquiste dei romani, il Saggiatore 1971, p. 106-107.
[xiv] K. Kereny, Dioniso, Adelphi Edizioni 1992, p. 27.
[xv] F. Graf, What is Ancient Mediterranean Religion? in Ancient Religions, a cura di S. Iles Johnston, General Editor 2007, p. 8.
[xvi] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, p, 263.
[xvii] J. Evola, Roma e i <<Libri Sibillini>> in Ricognizioni: Uomini e problemi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, p. 60.
[xviii] V. D’Alessio, La frigia Cybele e le Guerre puniche, in Roma, la città degli dèi, a cura di C. Bonnet ed E. Sanzi, Carocci Editore 2019, p. 110.
[xix] W. Rahula, L’insegnamento del Buddha, Adelphi Edizioni 2019, p. 74.
[xx] J. Evola, La Dottrina del Risveglio, Edizioni Mediterranee 1995, p. 67.
[xxi] Giuliano Imperatore, Inno alla Madre degli Dèi, 167 c.
[xxii] Proclo, Teologia Platonica, V, 3.
[xxiii] Giuliano Imperatore, Inno alla Madre degli Dèi, 179 d.
[xxiv] M. Scaligero, La Razza di Roma, Mantero 1940, p. 80.
[xxv] J. Evola, La Tradizione ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma 2006, p. 53.
[xxvi] Virgilio, Georg., II, 173-174.
Luigi Mancuso