Il Corteo dei Magi tra quiete neoplatonica, genius loci e androginia medicea – Luca Valentini
“la più nobile delle arti, si manifesta solo dopo esser giunti al vertice dell’ascesa contemplativa” (1)
Pochi studi hanno attribuito la doverosa valenza ontologica all’arte rinascimentale, indagando ben oltre il mero aspetto tecnico – formale quanto quello superficialmente allegorico di un trapasso tra Medioevo e Umanesimo in cui ogni contatto con la trascendenza, con l’Essere, con l’essenza più intima dell’interiorità, in parte andò ad affermarsi con il dominio del mondo delle forme e del divenire, di quell’egoità che in ogni vera sapienzialità è sempre stata superata e trasmutata in un’alta impersonalità. L’idea della “natura propria” come fu espressa nell’antichità classica da un Platone, un Aristotele ed un Plotino e nella Scolastica con l’Umanesimo Rinascimentale, si rintrecciò con il rifiorire del più alto aspetto sapienziale della civiltà greco-romana. L’accusa tradizionalista nel merito
“Nella Rinascenza la ‘paganità’, in realtà, valse essenzialmente a sviluppare la semplice affermazione dell’Uomo, a fomentare una esaltazione dell’individuo, il quale passa ad inebriarsi delle produzioni di un’arte, di una erudizione e di una speculazione prive di ogni elemento trascendente e metafisico”(2)
può essere accolta limitatamente, ma non assolutizzata, nell’ambito di una serie e composita critica all’era post-medievale nei suoi peculiari aspetti statuali e socio-economici e artistici, in cui si staglia la voce di Jacob Burckhardt, uno storico svizzero dell’800, che nella sua opera principale “La civiltà del Rinascimento in Italia” analizza e descrive una società che esalta l’individualità dell’uomo, una conoscenza di tipo scientifico ed un ritorno estetico al classicismo. In alcuni corti, però, quella medicea su tutte, è innegabile vi sia stata traccia di una antica tradizione sotterranea, che nella Firenze del ‘400 si è palesata nell’humus dell’accademia neoplatonica (3).
Nel merito, è d’uopo segnalare il recente studio di Luca Maccaferri su “Il Corteo dei Magi a palazzo Medici – Ricciardi” per le Edizioni ArteStampa di Modena, in cui l’aurea escatologica del dipinto abbia la maestria di ricondurre il lettore e chi contempli l’opera in riferimento in una speciale dimensione dello spirito, quella che Platone definiva la συμπλοκή (4), l’intreccio originario che si esprimeva nel fondamento del pensiero vero ed originario, ove alberga la complementarietà antignostica della quiete e della pura androginia. L’autore, proprio queste due caratteristiche ritrova nell’affresco di Benozzo di Lese in cui
“solo mediante la presa di coscienza di quest’aura, di questa spissitudo spiritualis (5) che (platonicamente parlando) rende intelleggibile il tutto nell’uno e nell’uno il tutto, sarà possibile una piena consapevolezza dell’essenza qualitativa della forma” (6).
Il Maccaferri, che nel testo è debitore non solo di Ficino ma soprattutto delle intuizioni artistico – simboliche di un Florenskij e di un Sedlmayr, riporta alla suprema contemplazione della visione dell’opera una vera e propria capacità maieutica di plasmare l’anima, i suoi contrasti, gli elementi eterogeni ma organicamente interagenti che la compongono, di trasfigurare l’agitazione dei puri istinti nello sguardo trasognato del giovane Lorenzo, quale figura centrale dell’affresco, quale figura androginica della qualità metafisica ivi incastonata:
“ … si comprende allora precisamente in qual senso l’androginia possa additare una meta interiore … la congiunzione delle opposte polarità dell’anima, inverando quel neoplatonico reditus ad unum su cui riposa, nella realtà come nel ritratto” (7).
Ciò che l’autore denomina “l’archetipo della quiete” (8) ha un vaso di coltura, di maturazione e di fioritura, che è rappresentato dal Genius Loci dell’entroterra toscano e peculiarmente fiorentino, in cui la simmetria architettonica orizzontale e l’ornamento naturale si fondano su quell’Anima Mundi che da sempre trasuda un arcaico sapere pagano ed etrusco. La terra, la materia, l’ambientazione della natura viva e sensibile trasmettono all’uomo la capacità di percepire il numinoso su cui si fonda il cosmo e le sue indeterminate manifestazioni. Ciò che viene definito “il ritorno degli auctores”, concretizzerà una trasmissione non solo documentale ed esoterica tra Bisanzio e la Firenze medicea (9), ma una sensibilità noetica ancestrale, una capacità di intendere l’Arte in senso spiritualmente unitario e superiore, viatico simbolico verso la sublimazione delle proprie componenti animiche. Il carattere simbolico e contemplativo nell’esegesi dell’autore assume la chiave di comprensione autentica, non lasciando il campo a interpretazioni che afferiscono alla sfera della superficiale creatività umana, ma che, al contrario, si palesa essere immaginazione e rimodulazione divina e spirituale, tramite cui i diversi elementi non hanno assunto funzioni semplicemente decorative ed ornamentali. L’opera d’arte, pertanto, nel caso specifico del Corteo dei Magi, consente una specifica maturazione del contemplativo non distratto osservatore, nel rapportarsi con la dimensione del Sacro della propria quiete, l’androginia di conoscenza interiore ed effettiva:
”Per l’arte, questo significa credere che il vero campo della poesia comincia là dove la ragione comincia a muovere i suoi passi incerti; per la vita, significa credere che l’inconscio produce qualche cosa di più vero, di più profondo, di più primordiale di quando non produca la chiara coscienza sottoposta alla censura dell’intelletto e diretta verso scopi pratici” (10).
Non casualmente il Maccaferri evidenzia
“l’esigenza di assegnare al Corteo dei Magi il valore di talismano, o sia di potente supporto di contemplazione delle realtà celesti” (11),
in cui si esplicita ciò che un Culianu ha definito, in riferimento a Marsilio Ficino, ovvero la magia pneumatica (12), la capacità simpatetica di trasfondere l’elemento solare, occultato nell’organo cardiaco, in tutte le manifestazioni sensibili dell’operatore. In ciò si palesa una multiforme relazione tra l’artista e le componenti sottili insite nel mondo, che riemergono galvanizzate per esprimere la vitalità quieta di una sfera ontologica che si presenta essere istantaneamente sia microcosmica quanto macrocosmica, indi intrinsecamente mercuriale ed ermetica.
In conclusione, è importante evidenziare come nell’Appendice A (13) venga sottolineata l’esistenza di una confraternita esoterica diretta da Cosimo dei Medici, committente dell’affresco del Benozzo, la Compagnia dei Magi, nel quadro di un’ufficialità religiosa e cristiana, che, come spesso hanno sottolineato studiosi come Garin, Wind, recentemente Flavia Buzzetta su Pico della Mirandola, spesso occultava l’esistenza di filiazioni misteriche ermetico – pagane, seppur nell’accettazione di fondo e di massima delle tesi teologiche delle religioni rivelate, come riporta il Maccaferri, nell’ambito del noto processo sincretico rinascimentale. Lo spirito autenticamente platonico dell’opera, reputiamo venga effettivamente espressa in alcune parole dal massimo esponente del magistero magico del Rinascimento ovvero Giorgio Gemisto Pletone:
“per la nostra essenza connaturata agli Dei, il bello e il bene è il fine della vita” (14).
Note:
1 – John S. Mebane, Rinascimento e Magia, Arte e Magia nel pensiero di Marsilio Ficino, ECIG Editore, Genova 1994, p. 45.
2 – Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Tramonto dell’ecumene medievale. Le nazioni, Edizioni Mediterranee, Roma 1993, pag. 377.
3 – Rimandiamo il lettore al nostro saggio “Prisca Theologia ed Aurea Catena Homeri: la perennità della sapienza misterica”, in Eleusi, cuore sapienziale d’Europa, a cura di Davide Susanetti e Mattia De Poli, Padova University Press, 2020, p. 173ss.
4 – Platone, Sofista, 248a-264b.
5 – Luca Maccaferri, Il Corteo dei Magi a palazzo Medici – Ricciardi, Edizioni ArteStampa, Modena 2023, p. 16, nota 23, in cui si rileva come l’espressione ripresa dai platonici di Cambridge possa essere assimilabile al Mundus Imaginalis di Henry Corbin, in una sublimazione estatica di sensibile ed intelligibile.
6 – Ivi, p. 15ss.
7 – Ivi, p. 18 – 19.
8 – Ivi, p. 21.
9 – A cura di Germana Ernst e Guido Giglioni, Il linguaggio dei cieli – Astri e simboli nel Rinascimento, Carocci Editore, Roma 2012, p. 77, in cui si riporta come il cardinale Bessarione, discepolo di Girgio Gemisto Pletone, avesse messo a disposizione di Giorgio da Trebisonda del manoscritto dell’Almagesto e dei suoi commentari alessandrini.
10 – H. Sedlmayr, Perdita del Centro, Edizioni Borla, Città di Castello 1983, p. 193.
11 – Luca Maccaferri, op. cit., p. 31.
12 – Ioan Petru Culianu, Eros e Magia nel Rinascimento, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2006, p. 191.
13 – Luca Maccaferri, op. cit., p. 37ss.
14 – Giorgio Gemisto Pletone, Le Leggi, XI, in Luca Maccaferri, op. cit., p. 29.
Luca Valentini