Pensare greco: sulle tracce dei filosofi di Sicilia – I parte – Giovanni Sessa
Una premessa necessaria
Nella seconda metà del secolo XIX il pensiero di Nietzsche costrinse l’Europa a riscoprire le proprie radici greche. A seguito della Nietzsche Renaissance, manifestatasi a muovere dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso a seguito della traduzione dell’intero corpus del filosofo di Röcken ad opera di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, oggi è davvero possibile comprendere perché, invertendo di segno un noto titolo crociano, sia possibile affermare: «Perché non possiamo non dirci Greci». Già Stefan George, nei primi decenni del Novecento, ebbe contezza che la dimensione noetica e immaginale dell’uomo europeo fosse essenzialmente di origine ellenica. Il Poeta-Vate tedesco scrisse di sé e dei sodali del suo Kreis: «Un piccolo gruppo percorre taciti sentieri/Fieramente discosto dal fermento operoso/ E come motto porta sulle sue bandiere. /Alla Grecia in eterno il nostro amore». Lo stendardo georgeano è stato vivificato e inalberato, nella seconda metà del XX secolo da Giorgio Colli, tanto nella esegesi della Sapienza greca, quanto nella elaborazione della filosofia dell’espressione. Si deve proprio al pensatore torinese la scoperta, oltre la vulgata interpretativa risalente ad Aristotele, della crucialità dei filosofi aurorali, i pre-platonici, e tra essi di Empedocle e Gorgia, “filosofi sovrumani” della “Grecia d’Occidente”, della Sicilia eterna.
Per avere acconcio accesso alle filosofie dei due Sapienti, per seguire le tracce teoretiche e i “sentieri interrotti” da loro tracciati, è bene far precedere le nostre considerazioni da una premessa di ordine generale, relativa allo sfondo mitico-religioso ellenico. Facendo nostra la lettura colliana di tale ambito d’indagine, la potestas divina di Dioniso starebbe a rappresentare il contatto con la dimensione profonda della vita, mentre Apollo manifesterebbe tale realtà attraverso le parole della Pizia delfica che semplicemente alludono a esso, basandosi sul paradosso e sull’enigma. Dioniso è l’occhio folgorante esposto sulla totalità del mondo, è la tracotanza del conoscere sapienziale: esige il silenzio del soggetto, della coscienza moderna distinguente, il superamento del confine che nella rappresentazione divide, in primis, quest’ultimo dall’oggetto. Nell’estasi conoscitiva, definita da Colli mistica e da Evola ascetico-ermetica (mistica e ascetica rimandano, nei due autori, alla medesima esperienza) l’uomo: «amplia l’ambito abbracciato dalla sua consapevolezza e si forma un’altra immagine di se stesso»[1], si tratta di una reintegrazione. Quanto esiste, la physis, il cosmo, è volto del divino che solo in esso vive e palpita. Per questo, scrive Colli: «Dioniso è il dio della contraddizione […] di tutto ciò che manifestandosi in parole, si esprime in termini contraddittori. Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza»[2]. Orfeo ha rappresentato il mediatore tra il contatto dionisiaco e l’espressione apollinea: simbolizza il paradosso della polarità e dell’unità dei due dèi. Insomma, a proposito della visione greca del mondo, e in particolare di quella propria dei due grandi “greci d’Occidente”, con Evola si potrebbe dire: «Non esiste un mondo dei “fenomeni” […] e dietro a esso, impenetrabile la realtà vera, l’essenza; esiste un unico dato che presenta diverse dimensioni, ed esiste una gerarchia di forme possibili di esperienza»[3]. L’origine vige, mai normabile, solo negli enti, la potenza si dà negli atti, l’essenza nell’esistenza. La potenza: «Nella sua libertà […] “Colei che gioca” […] fa apparire il mondo del samsara […] manifestandosi in esso»[4].
Chiosa Gianni Ferracuti: «Il luogo assoluto, fuori dal tempo ma recuperabile, viene afferrato rompendo le catene dell’individualità, grazie a Mnemosine, la memoria»[5]. Da tale esperienza ci siamo allontanati in quanto, ben presto, l’“amore per la sapienza” ha assunto forma scritta, separandosi dal contatto. La filosofia, in sintesi, è decadenza, si è fatta mondana, tesa alla ricerca della potenza sul e nel mondo. Il sapere retorico ha dissipato la vissutezza della Sapienza. Tale passaggio è comprensibile se si pongono a confronto le esperienze speculativo-esistenziali dei due filosofi della “Grecia d’Occidente”, Empedocle di Agrigento (484-481 a.C.-424-421 a.C.) e Gorgia da Lentini (485-480 a.C. – ?).
La Sapienza in Empedocle
Empedocle visse durante un periodo storico complesso, caratterizzato dalla rinascenza culturale e spirituale delle città di Sicilia, successivamente alla battaglia di Imera del 480 a. C., in cui la loro coalizione riuscì a sconfiggere i Cartaginesi. Età di contraddizioni politiche e sociali indotte dalla ripresa degli scontri fratricidi che le videro, ben presto, nuovamente l’una contro l’altra armate. Il Tiranno Terone di Agrigento, che beneficiò di ampio consenso popolare, realizzò ingenti opere pubbliche e arricchì la città di templi e si circondò di artisti e poeti, tra i quali Bacchilide e Pindaro. Quando sui figlio Trasideo mosse guerra a Siracusa e fu sconfitto, ad Agrigento fu abbattuta la tirannide e venne instaurata la democrazia. Del nuovo regime di democrazia organica si fece difensore Empedocle. “Filosofo sovraumano”, non fu animato da brama di potere e sferzò la corruttela dei costumi dei suoi concittadini. Animato da fervore profetico, i suoi discorsi suscitarono l’entusiasmo degli ascoltatori. Allontanato da Agrigento dai rappresentanti dell’antica aristocrazia, secondo alcune fonti morì in Peloponneso, secondo la leggenda si sarebbe invece immolato nel cratere dell’Etna per ascendere al cielo quale dio. Tale atto sta a simbolizzare, come colsero gli interpreti romantici, la tensione alla riunificazione con l’Uno-Tutto della physis, luogo dell’origine e del divino. Hölderlin, che a Empedocle dedicò un’illuminante tragedia, riterrà il ritorno alla physis elemento dirimente del “pensare greco”. Al cosmo, il filosofo guardò nella definizione del suo sistema monista, ritenendolo animato da un eterno ritmo ciclico che dallo Sfero, attraverso l’interazione delle potenze di Eros e Neikos, avrebbe dovuto ricondurre alla compitezza dello Sfero stesso.
Al fine di definire appieno il proprio sistema di pensiero, Colli si confrontò, fin dagli anni giovanili, con la filosofia di Empedocle. Sono ora disponibili, per lettori e studiosi, i saggi che Colli produsse sul pensatore agrigentino[6]. Il volume Empedocle raccoglie due studi diversi. Il primo, Anima e immortalità in Empedocle, fu composto nel 1939, ed è momento significativo degli scritti giovanili di Colli. Dalle sue pagine si evince con chiarezza come, per il pensatore, memore in ciò della lezione nietzschiana, l’approccio di mera erudizione filologica ai testi dei Sapienti, rivelasse un evidente limite ermeneutico. L’approccio filologico avrebbe dovuto essere integrato dall’esegesi teoretica. Tale tendenza aveva, per Colli, sempre sulla scorta di Nietzsche, valore risolutivo rispetto a un obiettivo non secondario del proprio approccio gnoseologico: riuscire a giudicare il moderno con gli occhi di un greco.
Su tale volontà di ritorno alla Grecia, ruota il secondo studio che compone il volume, costituito dalle dispense delle lezioni tenute da Colli su Empedocle nell’anno accademico 1948-49, all’Università di Pisa e che avrebbero dovute essere concluse da un corso successivo che, in realtà, Colli non tenne più.
Un testo, per tematiche, sintonico a La natura ama nascondersi, con il quale l’antichista conferì il titolo di autentici filosofi a coloro che avevano pensato prima di Platone ed Aristotele. L’incontro esegetico con Empedocle fu essenziale per Colli: lo dimostra il fatto che egli compose una tragedia in tre atti a lui dedicata, finora inedita. La sua analisi dell’agrigentino è centrata sul: «complesso rapporto fra sostanza e divenire, tra unità e molteplicità»[7], insomma si muove attorno al cuore del problema stesso della filosofia. Il contributo storico-filosofico fornito da Teofrasto sui presocratici, non va letto, pertanto, in continuità con quello di Aristotele. Teofrasto, per primo, avrebbe riscattato l’eredità spirituale di Empedocle dal giudizio approssimativo, coinvolgente tutti i primi filosofi, di muoversi all’interno della prospettiva ilozoista.
I frammenti di Empedocle sarebbero, al contrario, e noi condividiamo appieno tale giudizio, chiara testimonianza del suo atteggiamento mistico, tendente a cogliere nella physis: «l’eco di una dimensione nascosta, indeterminabile e indicibile»[8]. Empedocle si mostra pensatore nel quale fenomeno e noumeno dicono il medesimo: «l’uno costituendo l’interno, la radice, e l’altro l’esterno, la manifestazione di una stessa fondamentale realtà»[9]. La dimensione interiore di ogni realtà individuale è data dal suo impulso vitale, di carattere conoscitivo, che reagisce sul mondo, in una propensione unitiva rispetto ad esso. Per tal ragione, vanno rigettate le letture dualistiche del sistema empedocleo, risalenti a Wilamowitz, tendenti a rintracciare in, Sulla natura, l’espressione di una concezione materialista del cosmo e, nelle Purificazioni, il manifestarsi di una diversa visione dal tratto religioso. È necessario, altresì, prendere le distanze da Rohde, che dava per scontato che Empedocle fosse giunto a comprendere la distinzione di anima e di spirito: al contrario, aveva colto nel segno Ettore Bignone, che sostenne la dottrina fisica e la mistica dell’agrigentino: «stare l’uno accanto all’altra nella teoria dell’anima»[10]. Come in Schopenhauer, infatti, in Empedocle convissero due tendenze fondamentali: la poetica e l’epistemica, che lo portarono, in momenti diversi della vita, ad esprimere la medesima verità in linguaggi differenti.
Tale vero, nella sua essenza, si mostrerebbe nel sentire, proprio ad ogni interiorità, atto ad indurla ad un progressivo avvicinamento all’unità, al divino, quando sia stata capace di perfezionare: «la proporzione e la simmetria degli elementi eterni che la compongono e che nel sangue pericardico trovano la loro espressione più completa»[11]. Il riferimento al sangue non ha tratto materialistico, ma si riferisce all’esperienza vissuta da Empedocle nel momento in cui ebbe coscienza dei propri progressi gnoseologici. In quei momenti di lucida chiarezza, egli sentiva: «tumultuare in sé questo sangue intorno al cuore»[12], ritenendo, come molti altri mistici, che proprio lì, nel petto, fosse custodita la verità. Empedocle giunge, inoltre, a considerare come inseparabili la dimensione mortale e quella immortale, scopre, come accadeva nei Misteri, la divinità dell’uomo. La via di conoscenza ha conclusione nella tensione anagogica, che ci sospinge verso il modello unitivo dello Sfero. Si badi, di quel particolare uomo che si fosse posto sulla strada della conoscenza. Eppure, attraverso l’intuizione dell’eterno ritorno di tutto ciò che è, il pensatore siciliano, si fa latore anche di una immortalità, per così dire, naturalistica, periodica e momentanea, propria dei non-Sapienti.
Il cuore del sistema empedocleo, ribadisce Colli, è dato da una modalità di lettura del rapporto unità-molteplicità, che è indispensabile recuperare alla nostra esperienza del mondo e che era condiviso dagli altri Sapienti dell’Ellade. Empedocle aveva compreso che ogni finto (molteplicità) dice sempre il medesimo infinito (uno), per cui anche i possibili ritorni, i possibili nuovi inizi, in natura e nella storia, si configurano quali altri inizi del medesimo. Il ritorno eterno di Dioniso. In ciò il lascito più grande di Empedocle, “Greco d’Occidente”.
Note:
[1] G. Ferracuti, La sapienza folgorante. Introduzione a Giorgio Colli, Settimo Sigillo, Roma 1994, p. 31.
[2] G. Colli, La Sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, p. 15.
[3] J. Evola, Lo yoga della potenza, Edizioni Mediterranee, Roma 1968, p. 250 (ultima ed., saggio introduttivo di P. Filippani-Ronconi, Edizioni Mediterranee, Roma 1994). Medesima concezione si evince dalle pagine di J. Evola, Autobiografia spirituale, a cura di A. Scarabelli, Edizioni Mediterranee, Roma 2019, pp. 83-84.
[4] J. Evola, Lo yoga della potenza, cit., p. 41.
[5] G. Ferracuti, La Sapienza folgorante, cit., p.37.
[6] G. Colli, Empedocle, a cura di F. Montevecchi, Adelphi, Milano 2019.
[7] F. Montevecchi, Nota, in G. Colli, Empedocle, cit., p. 13.
[8] Ivi, p. 14.
[9] G. Colli, Empedocle, cit., p. 176.
[10] Ivi, p. 25.
[11] F. Montevecchi, Nota, cit., p. 15.
[12] G. Colli, Empedocle, cit., p. 30.
La relazione di Giovanni Sessa, Pensare greco. Sulle tracce dei filosofi di Sicilia, tenuta a Giardini Naxos il 15 giugno scorso durante l’evento “Primavere elleniche” organizzato da Fulvia Toscano.
(continua…)