La Danza profonda: Romano Gasparotti e la kairosofia del cogitare creativo – Giovanni Sessa
Usciamo dalla lettura di un volume connotato da rara capacità di coinvolgimento del lettore. Un libro radicale e potente nei contenuti, che mette in discussione gli assunti fondamentali del senso comune contemporaneo, esito dell’involuzione del filosofare in Occidente. Ci riferiamo al saggio di Romano Gasparotti, filosofo e danzatore, La danza profonda. Per una kairosofia del cogitare creativo, nelle librerie per Kaiak Edizioni (pp. 252, euro 20,00). Non si tratta di un trattato di filosofia della danza: l’autore nega il primato dell’astratto, il dominio della significazione concettuale, privilegiando, di contro, l’essere perennemente all’opera dell’atto danzante. La danza profonda, la contact dance, per Gasparotti, memore della lezione di Derrida: «nutre e rafforza le sorgenti possibili di qualsiasi forma di salute: del pensare; dell’esserci al mondo, al di là di ogni discriminazione tra umani e extraumani» (p. 35). Lo scritto ha alle spalle convinzioni maturate dall’autore nella frequentazione di Emanuele Severino, dal cui insegnamento ha appreso che le categorie filosofiche costituiscono il fondamento della nostra civiltà che, proprio per questo, risulta essere profondamente malata, alienata e: «da rivoluzionare radicalmente» (p. 16).
Le premesse da cui muovono queste pagine sono quattro: 1) la filosofia è sorta quale arte dinamica delle Muse; 2) ogni arte mette all’opera la danza; 3) danzare realizza la cogitazione dell’atto del pensare al di qua del suo acquietarsi oggettivamente nel pensato; 4) “Ognuno è artista”, come sostenne Beuys. La filosofia è divenuta, al contrario, rimasticatura di concetti, di significati separati dal mouvant, dalla forza vitale, mentre la danza libera, de-sclerotizza il pensiero. Essa non è mera espressione corporea, né tantomeno sportiva, o una data forma d’arte: «Nel danzare […] si mette all’opera l’esemplarità di un sapersi comportare e di un saper vivere relazionalmente nella mescolanza, ovvero nella complessità inter-reattiva di tutto in tutto dappertutto» (p. 26), vale a dire nella physis-mixis panteista di Spinoza. In tale concezione-esperienza, il pensare non è qualità esclusiva dell’animale razionale uomo. “In natura tutto pensa”, si leggeva nei trattati ermetici: «Il vento del pensare arriva imprevedibilmente da fuori e coglie alla sprovvista» (p. 27). Il danzatore-filosofo deve mantenersi aperto a questo evento, farsi attraversare dai flussi e riflussi del pensiero nel kairos, l’attimo immenso. Oltre il corpo pensato quale sostanza, esiste, stando alla lezione di Nancy, il “corporarsi”, l’azione metamorfica: «in corso d’opera del dinamico costruirsi e decostruirsi di qualcosa di analogo a ciò che Artaud aveva appellato “corpo senza organi”» (p. 28). La filosofia in origine, lo ha rilevato Carlo Sini, nacque dalla mousiké, dal porsi all’ascolto della ritmica della vita. La cosa fu compresa da Nietzsche. Questi sostenne che massima aspirazione dell’autentico filosofo fosse quella di essere buon danzatore: un danzatore latore di gaia scienza, sintonica al flusso vitale.
La sapienza aurorale (da sapio, assaporo, assaggio) di cui ha detto Giorgio Colli, guardava a pratiche dinamiche condivise che conducevano a esperienze sinestetiche, a un ascoltare odorante e tattilmente gustativo, le stesse sperimentate nelle sessioni di contact dance. In ogni virtus, chiosa Gasparotti, nella forza che realizza qualsivoglia pratica, si mostra ciò che Bergson definì mouvant, la dynamis, libertà-potenza, indeterminabile, indifferenziata e non finalistica: «La materia vitale panteisticamente […] si estende cresce, cambia forma, si corrompe, grazie al mouvant» (p. 34). La natura danza al suo ritmo: «Le api danzano, le Muse danzano, i pianeti danzano, le particelle elementari […] danzano» (p. 35). Co-gitare, pensare, allude all’agitarsi insieme, al toccare l’altro e gli altri, una prassi centrata sull’improvvisazione, sull’immaginazione, potere dell’atto nel suo attuarsi. Potere svuotante, iconoclastia creativa. Nella danza, tale possibilità supera qualsivoglia dualismo di interiorità/esteriorità, in quanto lo spazio viene sperimentato come modo della relazione interattiva del corporarsi nella mixis. Tempo e spazio non sono forme a priori kantiano-newtoniane: danzando si apprende che il vuoto non è un concetto opposto al pieno ma, come compreso da Julius Evola: «potenza dionisiacamente svuotante e perciò potenzialmente ricreante […] suprema “prova di Dioniso”» (p. 40). La danza conduce all’abisso dell’origine, al principio infondato, riproponendo l’esperienza di Talete che, caduto in una fossa per guardare le stelle e irriso da una giovinetta, provò che l’inabissarsi nel vuoto, il precipitare, è di fatto seguito da un rimbalzare, da un sollevarsi. Tale esperienza apre alla comprensione che non vi è reale opposizione tra stasi e movimento, perché, semplicemente, non esiste “qualcosa” come il “movimento”. Danzare, quindi, conduce oltre la superstitio dei significati. La forza vitale che si mostra all’opera nel danzare è infinita: in Cina la si chiamava Qi, in India prana: «scorre ovunque attraverso le reti diaframmatiche dei meridiani macro/microcosmici» (p. 47). A tale incommensurabile noi siamo, come tutto ciò che esiste, perennemente esposti. La danza profonda decostruisce le attitudes che, in tale pratica, sono “posizioni” date, fissate, corrispondenti ai concetti della logica, escludenti e sclerotizzanti il flusso dinamico della vita.
La prassi danzante è a-gravitazionale, ma non nel senso della pura negazione della gravità dei corpi: «danzare comporta reagire [….] alla forza di gravità […] assecondandola in modo da avvantaggiarsene […] assorbendone la forza e riconvertendola in rimbalzante spinta propulsiva» (p. 72). In questo senso, danzare implica la rammemorazione dell’originaria capacità di muoversi, un rammemorare reminiscente, come quello dei bambini nel momento in cui, senza consapevolezza, iniziano a camminare. Del resto, è proprio in funzione della gravità che i corpi possono lambirsi, toccarsi, diventare un tutt’uno, al di là di ogni differenziazione, ma anche di ogni monistica unificazione. Il rimbalzo danzante lascia senza parole, sospende l’imperium del verbo, è pura prassi fine a se stessa istituente relazioni e non rapporti proaireticamente determinati. L’arte è ovunque, ognuno è artista: danzare consente di sperimentare la prossimità di Orfeo e Prometeo. La tecnica, sostiene Rocco Ronchi, dice il naturante della natura, la natura come processo, come praxis: «La tecnica è l’atto stesso del vivente che vive» (p. 127). Il corpo/indumento appare-sparendo nella danza: «nella misura in cui attua l’icastico e iconoclastico rigenerante svuotarsi coralmente all’opera nell’infinito metamorfosarsi della vita» (p. 127). Il corpo danzante si scopre veicolo relazionale in quanto, nel cosmo, ogni ente è il pianeta di qualcun altro (Emanuele Coccia). Ci siamo soffermati solo su alcuni plessi teorici di questo testo. Si tratta di un volume che induce uno sguardo nuovo sulla vita. La sua lettura è rigenerante.
Giovanni Sessa