Alla ricerca del Vello d’Oro – Luigi Angelino
Come è noto, il vello d’oro è un particolare oggetto indicato nella mitologia greca come capace di curare ogni malattia o ferita. Entrando più nello specifico, il vello d’oro viene identificato con il manto dorato dell’ariete Crisomallo, una creatura alata con la straordinaria caratteristica di volare, donato a Nefele da parte di Ermes. All’origine del mito vi sarebbe una drammatica storia di tradimenti e di vendette, che di seguito cercherò di riassumere. Atamante ripudiò la moglie Nefele per poter convolare a nozze con Ino, con la quale generò il terzo figlio (i primi due li aveva avuti con la prima consorte). Ino odiava i primi due figli del marito, in quanto voleva che sul trono, alla morte del padre, salisse suo figlio. Per questo motivo, cercò in tutti i modi di assassinarli. Fenele per scongiurare la morte dei suoi figli, chiese aiuto ad Ermes che le inviò l’ariete Crisomallo, sulla cui groppa montarono i due fratelli per essere portati in salvo nella Colchide. Tuttavia, durante il volo, Elle cadde in mare ed annegò, mentre Frisso raggiunse la salvezza e fu ospitato da Eete, sacrificando agli dei il prezioso animale e donandone il manto allo stesso Eete. Quest’ultimo, comprendendo il valore eccezionale del regalo, lo nascose in un bosco, sotto la vigile guardia di un drago. Si arriva, poi, alla più nota vicenda che coinvolge Giasone e gli Argonauti. Il primo, allo scopo di riconquistare il trono presuntivamente usurpato dallo zio, avrebbe avuto come obiettivo principale proprio il ritrovamento del famoso vello d’oro. Giasone, quindi, dopo aver ottenuto l’adesione di 50 compagni, pronti a condividere l’avventurosa e difficile impresa, partì alla volta della Colchide, con l’aiuto della maga e principessa Medea, figlia del re Eete, che si era perdutamente innamorata di lui. Tra le diverse versioni, la storia più completa di Giasone è riportata da Apollonio Rodio nel III sec. a.C. (1), mentre Euripide, nel 431 a.C., fa rappresentare la vicenda tragica del tremendo personaggio di Medea (2). I valorosi compagni di Giasone furono chiamati “Argonauti”, dal nome della nave Argo, che sarebbe stata costruita grazie agli ingegnosi e preziosi consigli della dea Atena. Si trattava di una comitiva di tutto rispetto, potendo annoverare tra i componenti figure della caratura di Eracle, Orfeo, Castore e Polluce, Peleo (padre di Achille) ed Atalanta (3), l’unica donna del gruppo. Apollodoro ci racconta dei numerosi ostacoli che questi indomabili eroi dovettero affrontare durante il loro percorso. Come abbiamo accennato in precedenza, Giasone riuscì ad impossessarsi del vello d’oro soltanto grazie ad uno stratagemma orchestrato dalla perfida Medea. La donna, infatti, gli consegnò una potente pozione che servì ad addormentare il drago, consentendo a Giasone di rubare il vello d’oro appeso nel bosco. Il guerriero, dopo essersi impadronito dell’oggetto, cercò di fuggire dalla Colchide accompagnato dalla stessa Medea e dagli Argonauti. Il re Eete si gettò all’inseguimento dei fuggiaschi con il suo esercito, ma anche in questo caso fu determinante l’intervento di Medea. La maga trucidò suo fratello Apsirto, facendolo a pezzi che poi gettò nel mare. La turpe azione impietosì il padre Eete che fu costretto a fermarsi per poterli raccogliere e dare al figlio una degna sepoltura, condizione imprescindibile, secondo la religiosità ellenica, per poter accedere al regno dei morti. Anche il viaggio di ritorno fu straordinariamente avventuroso, ma alla fine Medea e Giasone, che reclamò il suo trono, raggiunsero la città di Iolco. Qui Pelia rifiutò di cedergli il potere ed ancora una volta si scatenò la perversa fantasia di Medea. L’eroina tragica convinse le figlie di Pelia a tagliare a pezzi il loro padre e a mescolarli in una pentola, con l’improbabile e vile promessa di farlo ringiovanire grazie ai poteri della sua magia. Pelia morì ed il suo omicidio a nulla valse, poiché Giasone e Medea dovettero fuggire dalla città di Iolco, rifugiandosi a Corinto, dove si fermarono per dieci anni generando due figli. Euripide esalta nel finale l’orribile indole della maga che, per vendicarsi del tradimento del marito, uccide la rivale Glauce, figlia del re Creonte, donandole un vestito avvelenato. Ma supera qualsiasi immaginazione quando dà la morte ai suoi stessi figli, prima di scomparire su un carro alato donato dal nonno Elio, la divinità associata al sole (4).
Non vi sono dubbi sul fatto che il mito del vello d’oro sia ricco di simboli e di significati allegorici. Innanzi tutto, ritengo importante sottolineare la collocazione geografica della regione dove si ambienta la narrazione. Per i Greci, come si evince chiaramente nell’opera del Fedone elaborata da Platone (5), il mondo abitato e conosciuto risultava compreso tra le Colonne d’Ercole ed appunto la Colchide, situata tra il Mar Nero ed il Caucaso. Al giorno d’oggi quest’area corrisponderebbe alla parte occidentale della Georgia. La zona era già nell’antichità ben nota per i giacimenti di metalli preziosi e, con ogni ragionevole probabilità, già nel IV millennio a.C. si organizzavano estrazioni in rudimentali miniere per ricavare oro, argento, rame e ferro. Pertanto, la spedizione di Giasone, così come poeticamente mitizzata, alluderebbe al grande interesse delle popolazioni elleniche nei confronti delle ricchezze che la Colchide poteva offrire. In merito, oltre alla testimonianza di Strabone (6), lo storico Appiano racconta di alcuni ruscelli della Colchide ricchi di polvere d’oro, che gli abitanti del luogo provvedevano a raccogliere con l’utilizzo di pelli di pecora, disposte in precedenza nell’acqua in modo da riuscire a setacciare anche le particelle più sottili della polvere d’oro. A ciò si aggiungono importanti particolari relativi al popolo degli Sciti che si insediarono nella regione verso il VII sec. a .C. Un’antica tradizione che racconta le origini di questo popolo è incentrata su tre oggetti d’oro, che sarebbero scesi dal cielo proprio per conferire dignità e potenza: un’ascia bipenne, un aratro munito di giogo ed una coppa. Tra le righe di questa tradizione possiamo leggere la straordinaria importanza che gli Sciti attribuivano all’oro, considerato una via privilegiata di ascesa dalla dimensione umana a quella divina, rappresentando, pertanto, un vero e proprio elemento fondante della rispettiva struttura sociale. Nei rituali funebri, gli Sciti, unitamente ai loro cari defunti, interravano una grande quantità di gioielli d’oro, peraltro splendidamente lavorati con la tecnica della granulazione e della filigrana, di cui alcuni reperti sono pervenuti fino ai nostri giorni. Il mito del vello d’oro può essere interpretato anche come uno degli espedienti narrativi più suggestivi ed entusiasmanti per parlare delle origini della civiltà greca e delle sue prime relazioni con le popolazioni straniere e con altre culture. La spedizione degli Argonauti viene contestualizzata in un’epoca storica che, più o meno, dovrebbe corrispondere alla parte finale della cosiddetta “età del bronzo” ed alla parte iniziale dell’ “età del ferro”, tra l’VIII ed il IX secolo a.C. In questo periodo storico di notevoli capovolgimenti, la mitologia greca funge quasi da strumento di coesione sociale, mirando a rappresentare in maniera simbolica alcuni fatti reali tramandati oralmente (7).
A ben riflettere il mito del vello d’oro presenta evidenti analogie con il racconto del sacro graal: in entrambe le narrazioni è presente un oggetto prezioso, dotato di eccezionali poteri taumaturgici e terapeutici, che viene custodito in una terra lontana e poco frequentata. L’impresa condotta da Giasone e dagli Argonauti ricorda molto le peripezie compiute dai cavalieri alla ricerca del sacro graal, con tutte le diverse interpretazioni e speculazioni possibili. Allo stesso modo, così come avviene per la ricerca del sacro graal, il cammino per conquistare il vello d’oro può essere considerato come la traccia di un’antica “via iniziatica” per raggiungere un più elevato grado di consapevolezza interiore. Le gesta degli eroi denominati “Argonauti” potrebbero indicare, in maniera trasfigurata, le tappe di evoluzione che gli esseri umani dovrebbero intraprendere, in cerca della propria scintilla divina interiore (8). Il vello d’oro, associato al montone, è un significativo simbolo solare, da collegare al segno astrologico dell’ariete, il periodo dell’anno in cui si inaugura il semestre primavera-estate, lasciando alle spalle l’inverno. Il vello d’oro è, sotto questo profilo, una sorta di talismano del potere, ma soprattutto un simbolo dell’immortalità dell’anima. L’ariete incarna, pertanto, la primavera, il rinnovarsi della natura, comprendendo in sé tutte le capacità dell’energia creatrice. Nella variegata simbologia egizia, il dio del sole Ra era proprio raffigurato con una testa di ariete (9). E’ superfluo ricordare l’importanza di tale animale nei rituali religiosi antichi, come nei sacrifici ebraici di origine mosaica o del significato cristologico dell’agnus dei qui tollis peccata mundi (agnello di dio che togli i peccati del mondo, riferendosi, in questo caso, all’esemplare ancora in tenera età). Ed il carattere solare dell’ariete è ancora di più sottolineato nel mito del vello d’oro, quando Giasone lo consegna a Pelia in memoria della vittoriosa impresa degli Argonauti: il glorioso animale viene assunto in cielo, dando il nome alla costellazione omonima.
Di certo i due protagonisti assoluti della leggenda del vello d’oro sono Giasone e Medea. Il primo presenta una doppia natura: da un lato valoroso e temerario, dall’altro opportunista ed insensibile. E’ forse l’eroe più controverso del mondo greco. In lui l’indomabile audacia è spesso offuscata dal calcolato cinismo, che raggiunge l’apice quando sfrutta i brucianti sentimenti di Medea per poter mettere le mani sul vello d’oro. In questo senso Giasone può essere definito come il prototipo dell’ “antieroe”, dalle caratteristiche sottilmente ambigue, molto diverso dai guerrieri raccontati dall’epica omerica. Apollonio lo descrive come fragile ed inadeguato, sempre all’ombra delle malvagie strategie di Medea, molto più forte ed intelligente di lui. Tuttavia, Giasone si presenta come uno dei più antichi eroi classici, addirittura preesistente ai personaggi omerici, nonché venerato in molte città greche, che nella sua figura vedevano l’emblema della conquista dell’Asia Minore. E’alquanto probabile che la sua caratterizzazione iniziale fosse differente e che poi sia stata modificata dalla letteratura successiva e, soprattutto, capovolta in relazione al suo tragico amore con Medea. Come primo antieroe del mondo occidentale, la presenza di Giasone nell’arte e nella prosa antica e medievale risulta davvero marginale, fatta eccezione per la menzione di Dante che lo colloca meritatamente tra i seduttori(10) nell’ottavo cerchio dell’Inferno e per la biografia dedicatagli da Francesco Petrarca nella sua opera De viris illustri bus (11). Nel ventesimo secolo Giasone torna alla ribalta con le fortunate opere Il vello d’oro di Robert Graves (12) ed Il racconto di Giasone di Vassillis Vassilikos (13). Nella pittura spicca il famoso dipinto di Giorgio de Chirico, chiamato La partenza di Giasone.
L’autore che ha consacrato la celebrità di Medea, tra le eroine della tragedia greca, è senza dubbio Euripide. Dell’opera del citato autore ci colpisce innanzitutto il lucido realismo descrittivo, dove i protagonisti sono soltanto le donne e gli uomini, mentre gli dei, così importanti in altre composizioni letterarie elleniche, rimangono in disparte ad assistere alla tragedia che si consuma nella città di Corinto. Le divinità rimangono al di fuori del dramma, al punto che sul finale, Giasone inveirà contro di esse, accusandole di non aver impedito l’orribile destino dei suoi figli. Medea è una figura molto complessa e che non può essere minimizzata, analizzando soltanto le feroci azioni finali. E’ come se l’opera di Euripide desse per scontato che lo spettatore conosca le gesta di Medea anche prima del soggiorno a Corinto: soltanto in questo modo si può comprendere in pieno il suo modo di agire. La passione incontrollabile per Giasone, per il quale non aveva esitato a distruggere e ad abbandonare la propria famiglia, si trasforma in premeditata ed insaziabile vendetta, non priva, tuttavia, di tentennamenti e ripensamenti prima di stendere la mano omicida sul frutto della sua carne. La Medea, così come descritta da Euripide, presenta, inoltre, una particolarità strutturale che la rende unica tra le rappresentazioni del teatro greco, in cui i modelli paradigmatici si fondano sul contrasto tra “un protagonista” ed “un antagonista”, come ad esempio Antigone e Creonte, oppure Oreste e Clitemnestra. Nel caso specifico di Medea, la donna incarna in sé queste due figure opposte: una parte di sé vorrebbe assassinare i figli, mentre un’altra parte esita, tentando di risparmiarli. La sua mente appare in preda a forze emotive incontrollabili che, al giorno d’oggi, sarebbero studiate con l’ausilio delle discipline psico-analitiche, in grado, almeno in parte, di spiegarne le spinte motivazionali. Si rimane sconcertati davanti alla scena finale, così aulica nella sua unicità, quando Medea si mostra convinta e consapevole di ciò che ha compiuto, al punto che vola via su un carro divino, come se avesse portato a buon fine un’impresa degna di gloria. La Medea “vittoriosa” è forse quella più spregevole ed odiosa, non a caso raffigurata “in volo”, come se si ergesse al di sopra del bene e del male, libera da ogni condizionamento etico e morale, ma soltanto fiera di aver soddisfatto la propria brama di vendetta, mediante la cancellazione della progenie del marito bugiardo e traditore (15).
I compagni di Giasone, “gli Argonauti”, formano in maniera evidente un gruppo fortemente caratterizzato da un saldo sentimento di unione e di solidarietà, in grado di consentire il superamento di tutte le difficoltà incontrate durante il viaggio. Gli eroi che seguono Giasone provengono dall’intero mondo ellenico: dall’Eubea, dalla Tessaglia, dall’Argolide, dall’Arcadia, a significare l’ideale di “concordia nella gloria” che permea l’intero spirito culturale della Grecia arcaica. Si tratta di un sodalizio eticamente orientato verso l’ideale della fratellanza, da attuare non solo nei compiti connessi all’arte della guerra, ma anche nel campo della coscienza morale. La ricerca e la conseguente conquista del vello d’oro simboleggiano, per Giasone ed i suoi compagni, la piena autorealizzazione individuale, nonché l’identificazione della stessa missione con la coscienza dell’intero gruppo.
La nave Argo è un’altra importante protagonista della spedizione, messa a punto grazie all’abilità del costruttore navale Atenaio, con l’aiuto della stessa dea Atena, come già detto in precedenza. Si tramanda che la nave fosse lunga circa 50 metri e larga 7 metri, potendo contare su una stazza di 120 tonnellate circa e potendo disporre di 50 remi e di una vela (16). L’imbarcazione è descritta come una vera e propria opera d’arte, adorna di splendidi intarsi di legno, nonché di ornamenti dorati e argentati. A voler esprimere la protezione divina nei confronti degli Argonauti, la prua era stata concepita di bronzo a forma di drago, capace di sputare fuoco o fumo, peraltro a similitudine della creatura contro la quale avrebbero dovuto combattere per conquistare il vello d’oro. Secondo la leggenda, Atenaio avrebbe costruito la nave utilizzando il legno di un solo albero, un rovere sacro alla dea Atena, in grado di conferire all’imbarcazione una resistenza eccezionale. In realtà, si trattava di una nave avveniristica per le conoscenze tecnologiche dell’epoca, la cui costruzione probabilmente era stata favorita grazie alle ingenti ricchezze di numerose famiglie aristocratiche del mondo ellenico.
In sintesi, la ricerca del vello d’oro può essere ricondotta al valore simbolico dell’ariete, dell’oro ed alle stesse proprietà magiche anticamente riconosciute alla pelle sacrificata. Si potrebbe dire, quasi in un gioco di specchi, che l’oro può essere in grado di attirare il sole ed il vello funge da calamita nei confronti dell’oro. In ambito alchemico il vello d’oro è da considerarsi la metafora della pietra filosofale, la grande opera, a cui deve aspirare ogni iniziato. Il viaggio di Giasone e degli Argonauti, con tutte le peripezie da superare, diventa perciò la trasfigurazione del nostro cammino catartico interiore.
Note:
1 – Le “Argonautiche” di Apollonio Rodio costituiscono un poema epico composto nel terzo secolo a.C.;
2 – La tragedia andò in scena per la prima volta ad Atene nel 431 a.C. nel corso dei festeggiamenti chiamati “Grandi Dionisie”;
3 – Del mito dell’eroina Atalanta esistono varie versioni, tra cui spiccano quella “arcadica” e quella “beotica”. La fanciulla era famosa per la bravura nella caccia;
4 – Giuseppe Ferraro, Il mito di Medea tra antichi e moderni, volume II, Ed. Biblioteca di Babele, Napoli 2002;
5 – Il “Fedone” è uno dei più famosi dialoghi platonici, ultimo della prima tetralogia di Trasilio, composto dal filosofo in età giovanile;
6 – La citazione si trova nella grande opera di Strabone, dal titolo Nella composizione, articolata in 17 libri, l’autore mira a dimostrare la validità dei riferimenti geografici attribuiti ad Omero;
7 – Veronique Schiltz, Gli Sciti. L’oro della Siberia e del Mar Nero, Edizioni Electa Gallimard, Roma 1995;
8 – Pierre Grimal, La mitologia greca, Ed. Newton, Roma 2006;
9 – Statua di ariete- La civiltà egizia, su https://laciviltaegizia.com, consultato in data 14/04/2024,
10 – Inferno, Divina Commedia, Canto XVIII. Dante colloca Giasone nell’ottavo cerchio, bolgia I, dove sono puniti i seduttori ed i ruffiani;
11 – De viris illustribus fu composta in prosa latina da Francesco Petrarca sulla biografia di 36 uomini. L’opera fu iniziata nel 1337 e poi terminata nel 1351;
12 – Il testo fu pubblicato nel 1944 con il titolo originario di The golden fleece;
13 – Si tratta dell’opera prima dell’autore greco, pubblicata nel 1953;
14 – La litografia fu eseguita nel 1966;
15 – Luigi Angelino, Divagazioni sul mito, Stamperia del Valentino, Napoli 2022;
16 – Oltre ad Apollonio Rodio, raccontano di nave Argo anche Plinio il vecchio e Filostefano.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense e due master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nel 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 8 volumi: Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio e Sulla fine dei tempi. Con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; la trilogia thriller- filosofica “La redenzione di Satana” (Apocatastasi-Apostasia-Apocalisse); il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers”; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”ed una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Con auralcrave ha pubblicato la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa” ed ha collaborato al “Sipario strappato”. Nel 2021 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.