Carnem levare – Luigi Angelino
Il Carnevale è una ricorrenza, o per meglio dire un intero periodo di festeggiamenti, che si è sviluppata soprattutto nei Paesi con tradizione religiosa cristiana, pur potendosi intravedere origini antiche ed accentuati parallelismi nell’ambito di altre culture. In linea generale, si tratta di manifestazioni anche pubbliche, in cui abbondano gli elementi giocosi e di fantasia. Tuttavia, forse l’aspetto più caratterizzante della festa consiste nel cosiddetto “mascheramento” che si ispira, nella maggior parte dei casi, a personaggi ben individuati, sia del mondo fantastico che della vita reale, ma considerati in maniera satirica (1). In via preliminare, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sulle origini di questa stravagante ricorrenza. Secondo un elevato numero di studiosi, il termine “carnevale” non sarebbe altro che l’usura fonetica dell’espressione latino-medievale “carnem levare”, che serviva ad indicare il lauto banchetto che si teneva l’ultimo giorno di Carnevale (martedì grasso), precedendo il periodo di astinenza e di digiuno della Quaresima che l’anno liturgico cattolico inaugura nel giorno successivo, il Mercoledì delle Ceneri. In tale particolare contesto, si spiega perché il periodo di Carnevale abbia una cadenza mobile, strutturata a seconda della Pasqua, anch’essa ricorrenza mobile, perché celebrata nella domenica che segue il primo novilunio di primavera. Vi sono, però, altre ipotesi meno accreditate sull’origine del termine “Carnevale”. La prima di queste riguarda l’eventuale espressione spuria “carnem levamen” che, comunque, farebbe riferimento allo stesso significato di “eliminazione della carne”; la seconda ipotesi, per la verità poco credibile, farebbe risalire il termine alla parola “carnualia” (giochi campagnoli); la terza, infine, ancora più forzata, rievocherebbe l’espressione “carrus navalis”, traducibile letteralmente con l’espressione “nave su due ruote”, come esempio tipico di carro adoperato per le sfilate carnevalesche (2).
Come abbiamo introdotto in precedenza, seppure il Carnevale, come noi siamo abituati a pensarlo, abbia origine nell’alveo della tradizione cristiana, le principali caratteristiche delle sue dinamiche intrinseche hanno radici molto più antiche. Nella Grecia classica, come lontane antenate del Carnevale, possiamo annoverare le “feste dionisiache”, mentre nel contesto romano, è possibile individuare alcune similitudini con i “saturnalia” (3). In entrambe le celebrazioni, anche se con elementi specifici molto differenziati, ciascun partecipante era sciolto dai propri obblighi sociali e dalle gerarchie, lasciando il posto al rovesciamento dell’ordine costituito consueto, allo scherzo e perfino alle pratiche dissolute, che spesso confluivano in riti orgiastici. Pertanto, dal punto di vista storico e religioso, si trattava di festeggiamenti che non solo tendevano al divertimento, ma in primo luogo al rinnovamento simbolico della vita collettiva, durante il quale il caos si impadroniva dell’ordine solito che, tuttavia, una volta terminato il ciclo festivo, ritornava prepotentemente in vigore, garantendo stabilità e sicurezza, fino ai festeggiamenti dell’anno successivo.
Mi piace ricordare quanto racconta Lucio Apuleio nel libro XI delle Metamorfosi, a proposito della festa in onore della dea Iside, la più grande divinità egizia, ma importata nell’intero contesto ellenistico e nel pantheon romano, In tale occasione, alcuni gruppi mascherati sfilavano in processione ed, in particolare, durante le celebrazioni chiamate “antesterie”(4), in onor e di Dionisio,sfilava il carro di colui che doveva restaurare l’ordine del cosmo dopo il ritorno al caos primordiale. E’ significativo fare riferimento anche a ciò che accadeva a Babilonia nei giorni immediatamente seguenti all’equinozio di primavera, quando si cercava di riattualizzare il processo di fondazione del cosmo, che era descritto in maniera mitica con la lotta del dio salvatore Marduk contro il drago Tiamat, concludendosi con la vittoria, in chiave soteriologica, del primo. In occasione di tali cerimonie, si svolgeva una processione in cui si rappresentavano, in modo allegorico, le forze del caos che cercavano di contrastare l’armonizzazione dell’universo: nel corteo si faceva sfilare anche una “nave a due ruote”, sulla quale era collocato il dio Luna ed il dio Sole (entrambi maschili nell’antica Babilonia), circondati da uomini mascherati che percorrevano la “via della festa” , simbolo della parte superiore dello Zodiaco. La processione aveva termine nel grande “santuario di Babilonia” che simboleggiava il nostro pianeta, la Terra (5).
In epoca medievale, le prime testimonianze sull’uso del termine “carnevale” o “carnevalo” sono attestate nei testi del poetico giullare Matazone da Caligano verso la fine del tredicesimo secolo, nonché in alcuni scritti del novelliere Giovanni Sercambi all’inizio del quindicesimo. In epoca umanista e rinascimentale, i Medici a Firenze già organizzavano grandi sfilate mascherate su alcuni carri chiamati “trionfi”, accompagnando le allegre processioni con canti carnecialeschi, di cui alcuni composti dallo stesso Lorenzo il Magnifico. A tale proposito, ritengo opportuno citare il famoso componimento “Il trionfo di Bacco e Arianna” (6), composto proprio dal Signore di Firenze. Nella Roma papalina, invece, tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età del Rinascimento, si svolgeva la cosiddetta “corsa dei barbieri” (cavalli da corsa) e la “gara dei moccoletti accesi” che i partecipanti cercavano di spegnere reciprocamente. Una curiosità da non trascurare, in una sintesi che riguardi le tradizioni relative al “Carnevale”, è il fatto che dove si osserva il “rito ambrosiano”, ovvero nella maggior parte della giurisdizione dipendente dall’Arcidiocesi di Milano ed in alcune diocesi geograficamente prossime, il ciclo di festeggiamenti termina con il sabato che precede la prima domenica di Quaresima. Pertanto, l’ultimo giorno di Carnevale cade quattro giorni dopo il Martedì grasso del consueto calendario liturgico romano. La tradizione racconta che Sant’Ambrogio, impegnato in un pellegrinaggio in territori lontani, avesse annunciato il proprio ritorno per l’ultimo giorno di Carnevale, per celebrare i primi riti della Quaresima in città, ma a causa di un inconveniente sul percorso, fu costretto a rientrare nella città lombarda quattro giorni dopo. I fedeli milanesi lo aspettarono con pazienza e nello stesso tempo pensarono bene di prolungare i festeggiamenti giocosi, posticipando di fatto il rito delle Ceneri alla prima domenica di Quaresima (7).
Al giorno d’oggi, le città italiane più rappresentative per le manifestazioni carnevalesche sono senza dubbio Venezia e Viareggio, pur presentando caratteristiche del tutto diverse e di cui ci occuperemo in maniera più dettagliata in seguito. Meritano particolare menzione anche altre tradizioni sparse su tutto il territorio nazionale. Il Carnevale di Acireale, ad esempio, è uno dei più antichi di Sicilia e brilla per l’originalità dei suoi carri colmi di fiori freschi che offrono un suggestivo spettacolo multi-colore anche nelle ore notturne, attraverso migliaia di lampadine e di luci, unitamente a spettacolari scenografie cangianti durante le esibizioni dei vari artisti invitati. Spostandoci in Piemonte, troviamo lo storico Carnevale di Ivrea, che culmina con il cruciale momento della “Battaglia delle Arance” ed è considerato uno dei più antichi ed affascinanti del mondo. Tale cerimonia intende commemorare, sotto forma allegorica, la rivolta dei cittadini contro il tiranno della città, da individuare probabilmente nella persona di Ranieri di Biandrate che pretendeva, secondo quanto tramandato, di esercitare lo “ius primae noctis” con le giovani spose (8).
Scendendo verso l’Italia centrale, ricordiamo il Carnevale d’Abruzzo che si svolge a Francavilla al Mare, in provincia di Chieti, ma molto prossima alla città di Pescara. Nella ridente cittadina sull’Adriatico, sfilano suggestivi carri colorati, realizzati grazie alla bravura di maestri cartapestai desiderosi di tramandare e prolungare una ricca tradizione. Ed ancora, il Carnevale di Putignano, in Puglia, è considerato tuttora la manifestazione continuativa più antica d’Europa dove, in linea generale, si procede con quattro grandi eventi, prima dell’arrivo del Mercoledì delle Ceneri. Anche a Putignano si realizzano ricchi e raffinati carri di cartapesta, dedicati al mondo della cultura, della politica e della società. Un cenno particolare non può non essere indirizzato al Carnevale di Cento, in Romagna, anch’esso di origini molto antiche, come evidenziano alcuni affreschi del pittore seicentesco Giovanni Francesco Barbieri, detto “il Guercino” (9), che ritraggono alcune scene dei festeggiamenti e delle celebrazioni carnevalesche della città. A partire dal 1990 la manifestazione ha acquisito una dignità ancora più rilevante, grazie al prestigioso gemellaggio con Rio de Janeiro, dove per alcuni anni hanno sfilato maschere del carro vincitore dell’edizione precedente e per la frequente presenza di personaggi dello spettacolo italiano ed internazionale. L’elenco delle numerosissime tradizioni del nostro Paese sarebbe ancora più lungo, per cui mi scuso in anticipo se, in questa breve rassegna, non ho reso il giusto merito a tutte le interessanti manifestazioni che si svolgono nella nostra meravigliosa penisola.
Come abbiamo anticipato prima, Viareggio è una delle mete più ambite del periodo carnevalesco: le sue sfilate sono famose a livello non solo europeo, ma perfino mondiale. I suoi carri sono fra i più grandi al mondo ed affrontano, ogni anno, temi legati alla satira, alla politica, alla società ed alla cultura. La tradizione della sfilata dei carri viareggina risale al 1873, nascendo dapprima come una sfilata di calessi, quando un gruppo di ricchi borghesi decise di mascherarsi in segno di protesta contro le tasse imposte dal governo. Alla fine del diciannovesimo secolo cominciarono ad apparire i primi carri trionfali in stucco, tela ed altri materiali consistenti che furono poi sostituiti, nel corso del tempo, dalla carta pesta modellata, per raggiungere, infine, già una discreta complessità e raffinatezza negli anni Trenta del secolo scorso. Dal 1971, nel periodo d’oro della Versilia, si svolse il primo Carnevale rionale in Darsena. In epoca più recente, soprattutto a partire dall’edizione del 2011, le sfilate hanno battuto record di incassi, con migliaia di persone che applaudivano i carri di cartapesta che sfilavano lungo la bellissima passeggiata a mare tipicamente viareggina. Alcuni maestri dell’arte della cartapesta hanno contribuito ad elaborare materiali di scena per le pellicole cinematografiche. Arnaldo Galli, ad esempio, insieme al fratello Renato e a Silvano Avanzini, collaborò nella costruzione di alcuni materiali per i films di Federico Fellini (Casanova e Boccaccio ’70), plasmando anche una versione dell’attrice Anita Ekberg di dimensioni enormi. La nuove sede di elaborazione dei carri mascherati, chiamata “Cittadella del Carnevale” è stata inaugurata il 15 dicembre 2011, nella zona nord della città, secondo il progetto di Francesco Tomassi. I carri sono posizionati all’interno di hangar che sono aperti ai visitatori non solo nel periodo del Carnevale. Non si tratta, tuttavia, di un luogo adibito alla mera costruzione ed alla conservazione dei carri, ma di un vero e proprio centro di cultura e di spettacolo, con spazi accessibili durante tutto l’anno, prestandosi quale ottima location per organizzare concerti ed eventi mondani (10).
Ogni anno i carri di Viareggio stupiscono per qualità ed originalità, suscitando ammirazione nei visitatori che assistono all’atmosfera surreale ed accattivante che si crea durante le sfilate. Peraltro, i carri allegorici, pur presentando delle tematiche consuete e ricorrenti, non risultano mai ripetitivi e ridondanti, offrendo in ciascuna edizione nuove e emozioni e differenti prospettive per interpretare gli eventi politici, sociali, religiosi e culturali contingenti. In relazione all’edizione del 2024, tra i carri più significativi segnalo “Và dove ti porte il cuore” di Jacopo Allegrucci, vincitore delle ultime due edizioni, che coniuga spirito poetico e magnificenza spettacolare. Nella creazione di Allegrucci non vi è una sola figura che appaia statica, con la figura del ragazzino che riesce ad alzarsi in piedi sulla valigia adoperata come tavola da surf, come a simboleggiare l’intento di superare un mare, cioè la vita, piena di insidie. Aggressivo e spettacolare si staglia “Più denti” di Luca Bertozzi, trasfigurato in un enorme dinosauro che impressiona grandi e piccini per la plasticità della sua espressione. L’immagine del rettile mostruoso che divora il domatore si impone quale emblema dell’aggressività della società contemporanea che tende a fagocitare l’individuo comune. Avendo assistito di persona all’inaugurazione dello scorso 3 febbraio, ho trovato esilarante l’esibizione di “Bla Bla Bar” dei fratelli Cinquini, per la graffiante ironia espressa con intelligenza e garbo, attraverso le immagini del locale fiabesco, dove il caprone e la rana sono circondati da un grande numero di bottiglie, ciascuna delle quali rappresenta un diverso argomento di conversazione. Il messaggio è chiaro: ad un’informazione così generalizzata ed invadente come quella attuale non corrisponde un altrettanto livello di capacità di giudizio nel comprendere situazioni ed eventi. Molto attuale è “Svegl.I.A” di Lebigre & Roger che, mediante l’immagine di un giovane che si desta dal sonno con il cellulare in mano, affronta la scottante tematica dell’intelligenza artificiale. Ed anche quest’anno Alessandro Avanzini ci sorprende con “Il circo dei sogni”, dove un Salvator Dalì, dipinto con i colori surreali presi a prestito dai suoi quadri, evoca quasi un’onirica resurrezione di sé stesso. Carlo Lombardi, invece, sceglie un carro intimistico e complicato, affidandosi al “Profumo delle rose” che trae spunto da una scultura realizzata dai pazienti di un ospedale psichiatrico a Trieste, un imponente cavallo azzurro, simbolo di rinascita di un mondo sommerso in cui, solo in apparenza, manca la speranza e la gioia di esistere. Anche “Octopus” di Luigi Bonetti affronta il tema dell’intelligenza artificiale, mediante l’immagine di un grande polpo fantascientifico che vuole significare il futuro distopico che forse è già iniziato. Lasciando il lungomare di Viareggio, l’immagine del Burlamacco, la tipica maschera versiliana, sembra salutarci con il suo aspetto giocoso. Il nome della celebre maschera deriva dal canale che attraversa la città, il “Burlamacca”, non per niente “Ondina” è la sua compagna, richiamando il movimento sussultorio delle acque del canale. Un’altra ipotesi vede il Burlamacco derivante da un personaggio romanzato, il Buffamalco, uno dei personaggi presenti nel Decameron di Boccaccio (11).
La tradizione secolare del Carnevale veneziano si tinge dei colori e dei motivi più disparati. Fin dall’età medievale, durante la seconda parte dell’inverno, i Veneziani si concedevano trasgressioni di ogni genere, utilizzando le maschere per poter mantenere l’anonimato e dedicarsi a qualsiasi gioco proibito ed in opposizione alle normali regole sociali. Per le vivaci calli, il saluto ricorrente era “Buongiorno Siora Maschera”, abbattendo ogni barriera di identità personale e di classe sociale di appartenenza, poiché tutto doveva confluire nella grande illusione del Carnevale, prima della “tristezza” e del “pentimento” della Quaresima. Insomma, tutti erano invitati a divertirsi, prima di affrontare un periodo di riflessione e di stenti. Gli artigiani che fabbricavano le maschere, denominati “mascherieri”, si diedero uno statuto codificato già nel 1436. Vi è da dire che le maschere, nelle loro diverse tipologie, erano utilizzate anche in altri periodi dell’anno, ad esempio durante i giorni dell’Ascensione od in occasione di banchetti ufficiali e feste della Repubblica. La “bauta”, composta da un manto nero chiamato “tabarro”, un tricorno nero che si indossava sul capo ed una maschera chiamata “larva”, si adoperava in molteplici e diversificate circostanze (12). Le donne, invece, usavano solitamente la “moretta”, che era una maschera ovale di velluto nero di importazione francese, ornata da veli, velette e cappellini a falde. Al giorno d’oggi, a Venezia si continua a celebrare il Carnevale come un importante evento internazionale, in un tripudio di costumi, soprattutto in stile settecentesco, rievocando forse uno dei peggiori periodi della Serenissima, quando ormai la città stava vivendo un inesorabile declino perdendo prestigio ed indipendenza. Appare quasi sintomatico che ormai le ricorrenze carnevalesche veneziane siano ispirate alla languida Venezia di Goldoni e di Vivaldi, sospesa tra la gloria del passato e le incertezze del futuro. L’emozionante volo dell’angelo apre in maniera ufficiale i festeggiamenti in Piazza San Marco, in una suggestiva cornice di rievocazioni storiche in costume, in ripresa diretta su network nazionali ed internazionali, preceduto dal pittoresco corteo “del Doge”. L’edizione del 2024 si intitola “Ad Oriente, il mirabolante viaggio di Marco Polo”, celebrando i 700 anni dalla morte di grande avventuriero, uno dei cittadini più illustri ed iconici della città lagunare. La città appare immersa in un’atmosfera fantastica, dove le civiltà e le culture incontrate da Marco Polo trovano espressione tangibile negli addobbi e nei mascheramenti individuali. L’evento più atteso del Carnevale veneziano è il tradizionale volo dell’aquila dal campanile di San Marco che segna la chiusura del periodo di festeggiamenti e che coincide con il “martedì grasso” (quest’anno il 13 febbraio).
L’oggetto, o meglio lo strumento, che maggiormente associamo al Carnevale è senza dubbio la “maschera”, ciascuna originata da una tradizione diversa, In realtà, l’utilizzo della cosiddetta “maschera” ha origini antichissime, che possono farsi risalire alla stessa preistoria per lo svolgimento di pratiche animistico-religiose, come simbolo della linea sottile che separa il mondo visibile da quello invisibile. Sull’etimologia del temine “maschera” sono state avanzate varie ipotesi, tra cui quella più accreditata fa riferimento alla radice preindoeuropea “masca”, traducibile in italiano come “fuliggine” o, in maniera meno letterale, in “fantasma”. Un’altra ipotesi diffusa, abbastanza compatibile con la precedente, è quella che farebbe derivare il termine “maschera” direttamente dal latino medievale “masca”, usato come sinonimo di “strega”, citato peraltro nel testo dell’Editto di Rotari. Alcune tracce del vocabolo si rinvengono anche negli antichi idiomi germanici e nel provenzale, dove la parola “masc” era adoperata nel significato di stregone. Una parte dei filologi ha evidenziato l’assonanza del termine “maschera” con la locuzione araba “mascharat” o “maschara” che significa “scherzo” o “burla”, arrivata in Europa nel periodo delle Crociate, mentre altri esegeti riconducono la sua origine all’antico verbo francese “rabsachier” (fare confusione) (13).
Come già accennato, l’utilizzo della maschera è accertato già in età preistorica, costituendo un efficace strumento di linguaggio per mettere in comunicazione il mondo umano con quello “degli spiriti”. Infatti, colui che indossava la maschera perdeva la sua identità, per immedesimarsi nel soggetto rituale che desiderava rappresentare. Presso le civiltà antiche si diffuse, poi, l’uso della maschera a scopi funerari, come in Egitto e nella Grecia classica. Nel vivace contesto culturale ellenico, tuttavia, la maschera cominciò a costituire un simbolo di natura figurativa, diffondendosi nel teatro attico e nelle cerimonie cultuali di altri territori. In particolare, in determinate rappresentazioni teatrali, la maschera era destinata a svolgere un doppio ruolo: quello di attribuire una peculiare caratteristica al personaggio e quella di fungere da mezzo di risonanza per rendere i dialoghi più chiari, attraverso i metodi di amplificazione acustica. Nei culti misterici di età ellenistica, la maschera costituì uno dei più importanti simboli della “morte iniziatica” e, di conseguenza, del passaggio ad un nuovo stadio di consapevolezza spirituale. Nella Roma imperiale, invece, cominciò a diffondersi l’uso della maschera nell’accezione giocosa e burlesca. Si pensi, a tale proposito, alla descrizione di Virgilio delle maschere indossate in onore del dio Bacco, nella sua celebre opera “Georgiche” (14).
Prima di passare ad una sintetica trattazione sulle principali maschere italiane, legate alla tradizione del carnevale, aggiungo qualche brevissima nota sul significato “antropologico” della maschera. Nei culti ancestrali, l’effigie della maschera doveva somigliare, quanto più era possibile, allo spirito umano od animale con il quale si voleva entrare in contatto, celando la vera identità di chi la indossava. E’ interessare notare che, per i popoli antichi, il soggetto mascherato non intendeva imitare la divinità, come si potrebbe pensare in maniera superficiale, ma tendeva a dare forma concreta alla divinità stessa che ne prendeva possesso. Nell’evoluzione semantica e con lo sviluppo dell’applicazione delle scienze umanistiche, l’espressione “ indossare una maschera” è diventata più o meno la metafora per discernere i più svariati comportamenti che si assumono durante la nostra esistenza. In tale accezione, la maschera non cela più nulla, ma diventa il metodo privilegiato per mostrare soltanto qualche lato della nostra personalità, a seconda delle circostanze in cui ci troviamo. Con lo sviluppo tecnologico, il termine “maschera” è stato adattato per indicare un’immagine potenzialmente sovrapponibile ad altre, al fine di formare effetti di composizione mentre, in ambito digitale, indica la parte di interfaccia di un programma, con cui un determinato utente può compiere molteplici operazioni (15).
L’Italia ha una ricchissima tradizione di maschere di origini diverse, con riferimento alle usanze popolari o direttamente derivanti da rappresentazioni artistiche. Nella veloce rassegna delle principali maschere carnevalesche del nostro Paese, comincerei da quella che, forse, è la più famosa, Arlecchino, personaggio della commedia dell’arte, nato dall’unione di due differenti tradizioni: lo Zanni bergamasco ed alcune figure diaboliche farsesche del contesto francese (16). Si pensa che Arlecchino fosse anche un demone ctonio (sotterraneo), come nel XII secolo racconta Oderico Vitale nella sua opera “Storia Ecclesiastica”, parlando di un corteo di anime guidate dal demone Herlechin. Abbastanza simile è il demone “Alichino”, nell’inferno dantesco, come membro dei “Malebranche”, un gruppo di diavoli che tortura i dannati con la pece bollente (17). La maschera che prende forma nel Seicento si rifà proprio al ghigno nero del diavolo, presentando sul lato destro della fronte un piccolo corno. Anche la radice del nome evoca un’origine infernale : “Holle Konig” (re dell’inferno) in ambito germanico, trasformatosi poi in Helleking ed Harlequin. Questo spirito tormentato viene portato sui palcoscenici alla metà del Cinquecento, con l’attore bergamasco Alberto Naselli o Alberto Gavazzi, detto il “Zan”, riproposto alcuni decenni dopo dal mantovano Tristano Martinelli. Nel contesto della commedia dell’arte, Arlecchino perde progressivamente il suo carattere demoniaco, o elfico-satirico, come considerato dalla storiografia francese, per assumere una posa più farsesca e divertente. La prima incisione di Arlecchino conosciuta si trova nel libro del 1601 “Composition de Rhetorique” redatto dal già citato Tristano Martinelli (18), con la tunica larga bianca e numerose pezze colorate sparse. Nel successivo sviluppo del costume, Arlecchino ha poi assunto il vestito a losanghe di tutti i colori, la maschera nera ed il batacchio, una sorta di bastone composto da due listelli di legno, uniti insieme all’estremità ed adoperato come strumento musicale. Arlecchino diventa l’emblema del servo povero, piuttosto infedele al suo padrone, spesso obiettivo di scherzi e di imbrogli. Il suo atteggiamento è vivace ed irriverente, riuscendo a mostrare indifferenza anche davanti ad eventi sfortunati. Ad Arlecchino si associa il peccato capitale della gola: è sempre ghiotto e inventa un cumulo di scuse, pur di essere invitato a pranzo a scrocco. Il suo linguaggio è dialettale e, a tratti, scurrile, tranne quando si rivolge a Colombina, il suo storico amore. Molto più recente è l’origine di Gianduja, la famosa maschera piemontese, nata alla fine del diciottesimo secolo, grazie alla fantasia di due bravi burattinai, Bellone e Sales. Gianduja si presenta come un galantuomo allegro, dotato di buon senso e di coraggio, amante del vino e dei cibi gustosi. E’ presente in tutte le feste popolari piemontesi, insieme alla sua sposa Giacometta, con la quale non disdegna eleganti passeggiate in carrozza per le eleganti strade di Torino.
Ed ora facciamo un salto a Napoli, per incontrare la mitica maschera di Pulcinella. Nell’attuale forma, il personaggio di Pulcinella è stato inventato dall’attore Silvio Fiorillo all’inizio del Seicento, anche se il suo costume è stato perfezionato nel diciannovesimo secolo da Antonio Petito, in quanto la maschera originaria prevedeva un cappello bicorno, diverso da quello diffuso nella versione finale “a pan di zucchero”. Per quanto riguarda le più antiche ispirazioni al personaggio di Pulcinella, le interpretazioni sono diverse: alcuni lo fanno discendere da “Pulcinello”, un piccolo pulcino dal naso adunco, altri sostengono che tragga origine da un contadino di Acerra, Puccio d’Aniello che, all’inizio del Seicento, faceva parte di un gruppo di buffoni girovaghi che si guadagnavano da vivere con spettacoli improvvisati (19). Altri esegeti, come Margarete Bieber, ritengono che Pulcinella sia legato addirittura a “Maccus”, una figura delle “Atellane romane” (20), le cui rappresentazioni erano diffuse nel IV secolo d.C.. Maccus era raffigurato come un servo dal naso adunco e dalla faccia rubiconda, con ventre prominente ed una veste larga e bianca. Ed ancora, altri interpreti legano l’origine di Pulcinella a Kikirrus, ulteriore figura delle citate Atellane, una maschera teriomorfa (dall’aspetto animale), il cui nome richiama il verso del gallo. Molti autori hanno dato più importanza alla simbologia del personaggio che sembrerebbe incarnare in sé contrasti e contraddizioni, a partire da un presunto ermafroditismo intrinseco. In quest’ottica, andrebbe confermato il legame con il pollo-pulcino, animale non riproduttivo, di cui la maschera napoletana imita la voce. Pulcinella, nel contempo, si presenta come stupido e furbo, demone ed angelo, saggio e sciocco, sempre sospeso tra i pericoli della città e le insidie della campagna. E’ una maschera figlia della cultura popolare partenopea, intrisa di elementi propri della tradizione pagana, mescolata ad elementi della religiosità cristiana. Pulcinella, pur consapevole di tutti i suoi problemi, riesce sempre ad uscirne con allegria, deridendo i potenti pubblicamente e sorridendo, anche con amarezza, davanti ad ogni avversità (21). Davvero numerosi sono i personaggi illustri che hanno vestito i suoi panni, tra questi annoveriamo almeno il grande Eduardo De Filippo, Nino Taranto, Massimo Troisi e Massimo Ranieri.
Ci spostiamo a Bologna, la “dotta”, la “grassa” o la “rossa”, per incontrare il dottor Balanzone, chiamato anche dottor Graziano, o semplicemente “il dottore”. La maschera, tipica del capoluogo emiliano, deriva dalla commedia dell’arte del diciassettesimo secolo. Si tratta del classico signorotto serio e saccente, dottore in legge, simbolo del dotto e tronfio leguleio bolognese. Il suo stesso nome è ironico, in quanto Balanzone è la storpiatura dialettale di “bilancione” (la bilancia è, infatti, il simbolo della legge e della giustizia). La particolarità di Balanzone è costituita dal fatto che calza una maschera molto piccola che ricopre solo naso e sopracciglia, appoggiata sui grandi baffi. Ovviamente, il “dottore” indossa l’abito dei professori universitari: toga nera, colletto e polsini bianchi, gran cappello, giacca e mantello.
A Milano, invece, troviamo Meneghino, figura mutuata dal teatro milanese, creato da Carlo Maria Maggi (22), divenuto il simbolo della folclore popolare del capoluogo lombardo, al punto che l’aggettivo “meneghino” è di solito adoperato proprio per identificarne i cittadini. Il suo personaggio è caratterizzato dalla sincerità e dall’onestà, come dimostrano le sue prime rappresentazioni dove, a differenza degli altri personaggi della commedia reale, non indossava una maschera. Nel Carnevale ambrosiano, Meneghino sfila accompagnato dalla moglie Cecca nelle principali manifestazioni milanesi.
Tra i cangianti colori della laguna veneziana, nasce la tradizione di Pantalone verso la metà del Cinquecento, come il prototipo del mercante vecchio, avido ed ancora dedito ai piaceri della carne. Alcune figure più o meno simili erano già presenti negli spettacoli del tardo Medioevo, ma Pantalone prende forma proprio nel contesto culturale e commerciale della serenissima. Se ammiriamo alcuni dipinti di celebri artisti come Carpaccio, Jacopo o Giovanni Bellini, notiamo che il tipico “mercante veneziano” presentava gli stessi costumi del burlesco Pantalone: una lunga zimarra nera che copre una calzamaglia rossa.
E l’elenco delle maschere italiane sarebbe interminabile. Ne citiamo soltanto poche altre: da Rugantino, una tipica maschera del teatro romano, definito “er bullo de Trastevere” al fiorentino Stenterello, ideata dall’attore Luigi Del Buono, come un giovane magro e gracile; da Beppe Nappa, personaggio pigro ed ironico della splendida Sicilia a Capitan Spaventa, maschera nata nella Repubblica di Genova; da Farinella, personaggio pugliese e simbolo del brioso Carnevale di Putignano ai Mamuthones dell’iconografia tradizionale sarda.
Note:
1 – Luigi Angelino, La storia, le origini del Carnevale e la tradizione italiana, pubblicato su https://auralcrave.com, in data 02/03/2019;
2 – Giovanni Kezich, Carnevale. La festa del mondo, Ed. Laterza, Bari 2019;
3 – In particolare, i “Saturnalia” erano un ciclo di cerimonie che si svolgevano tra il 17 ed il 23 dicembre, dedicate all’insediamento nel tempio del dio Saturno ed alla rievocazione della mitica età dell’oro;
4 – Le “Antesterie” cadevano nel mese di antesterione tra metà febbraio e metà marzo, con l’avvicinarsi della primavera;
5 – Simona Chiocchia, A Carnevale ogni scherzo vale. Da Babilonia ai nostri giorni, pubblicato su https://www.cronacheletterarie.com, consultato in data 31 gennaio 2024;
6 – Si tratta di un componimento scritto dal Magnifico probabilmente nel 1490;
7 – Il rito ambrosiano è l’unico rito cattolico latino ad essere impiegato quotidianamente, nella propria area di giurisdizione, in alternativa al rito romano;
8 – Marianna Giglio Tos, Storico carnevale di Ivrea fra mito e realtà. Una volta anticamente, Edizioni Pedrini, Aosta 2023;
9 – Il Guercino nacque proprio a Cento nel 1591 e morì a Bologna nel 1666;
10 – Manrico Testi, Il Carnevale di Viareggio nella letteratura, Editore Pezzini, Viareggio 2018;
11 – Si tratta di di Buonamico di Martino, pittore fiorentino del quattordicesimo secolo;
12 – Gilles Bertrand, Storia del carnevale di Venezia dall’ XI secolo ai nostri giorni, CIERRE edizioni, Verona 2023;
13 – Luigi Angelino, Le maschere di Carnevale: la storia e gli esempi più importanti, pubblicato su https://www.auralcrave.com, in data 22 febbraio 2020;
14 – L’opera si divide in 4 libri, per un totale di 2188 versi;
15 – Anselm L. Strauss, Specchi e maschere. La ricerca dell’identità, Salerno 2017;
16 – Biagio Russo e Nicolina Galassi, Maschere italiane. Origini, storia, bellezza, Drakon edizioni, Pescara 2019;
17 – I Malebranche sono citati nei canti XXI, XXII e XXIII dell’Inferno di Dante;
18 – La prima pubblicazione uscì in Francia, nella città di Lione;
19 – Hetty Paerl, traduzione di F. Terrenato, Pulcinella. La misteriosa maschera della cultura europea, Apeiron editori, Bologna 2002;
20 – Le Atellane romane formavano un’antica farsa con maschere fisse, tra cui Maccus, Pappus e Furono composte originariamente in lingua osca già nel IV sec. a.C., diffondendosi prima in Campania e poi tradotte in latino ed importate a Roma;
21 – Scafoglio e Lombardi Satriani, Pulcinella. Mito e storia, Edizioni Guida, Napoli 2023;
22 – Carlo Maria Maggi (1630-1699), commediografo e scrittore, è considerato il padre della letteratura milanese moderna.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense e due master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nel 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 8 volumi: Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio e Sulla fine dei tempi. Con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; la trilogia thriller- filosofica “La redenzione di Satana” (Apocatastasi-Apostasia-Apocalisse); il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers”; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”ed una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Con auralcrave ha pubblicato la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa” ed ha collaborato al “Sipario strappato”. Nel 2021 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.