“Dante Templare” di Robert L. John – IX e ultima parte – Beatrice, “corpo mistico” dellʼOrdine Templare? – Piervittorio Formichetti
(prosegue…)
La Beatrice del Purgatorio dantesco è figura apocalittica nel senso etimologico del termine: ella infatti si presenta levandosi il velo, svelandosi al “predestinato” Dante, e a lui si rivolge non senza severità: «Guardami ben: ben son, ben son Beatrice!» (XXX, 73). La donna segnante per la vita e lʼopera del Poeta nomina se stessa, lʼunica volta in tutta la Divina commedia, nel verso centrale dellʼintero canto trentesimo: esso ha 72 versi prima e 72 dopo. Le cifre 7 e 2 sommate dànno 9, il numero emblematico di Beatrice, cosicché i due gruppi di 72 versi, che le fanno quasi da corteo, risultano assimilabili a due 9. Questa centralità anche numerologica non può essere casuale, bensì attentamente calcolata da Dante stesso per rendere quanto più possibile solenne il momento dello svelamento di Beatrice; inoltre, il XXX canto del Purgatorio è il sessantaquattresimo della Commedia: cioè è preceduto da 63 canti e seguito da 36: le cifre di entrambi questi numeri, sommate, dànno di nuovo 9, sicché la rivelazione di Beatrice è, per così dire, incorniciata in modo sacrale dal suo numero. Dicendo «ben son» – fa notare Robert L. John – Beatrice non intende la parola bene soltanto come avverbio (“guardami bene, sono proprio io, proprio io Beatrice”), ma anche come sostantivo: ella si presenta a Dante (e allʼumanità) dicendo di sé: io sono il bene, io sono il bene che beatifica;
vale a dire, la perfezione morale e la guida alla beatitudine celeste, sia per Dante il fiorentino, sia per Dante come allegoria dellʼumanità. Essa è lʼessenza di ciò che il poeta intende quando allude alla santa e pura Chiesa spirituale (DT, p. 271),
cioè, contemporaneamente, immagine metaforica della Chiesa dʼispirazione gioachimita-templare, di quella forma di dottrina cristiana che lʼautore chiama «gnosi templare», e della teologia come scienza nobile che Dante aveva abbandonato per dedicarsi alla politica. Infatti Beatrice mette in luce la colpa del Poeta quasi sotto forma di infedeltà sentimentale:
Questi si tolse a me e diessi altrui,
[…]
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
(Purg. XXX, 126-132)
Come si è già visto, secondo lo John gli studi teologici giovanili di Dante:
inclusero certo anche la conoscenza di una teologia gioachimitico-templare, di cui faceva parte anche la pericolosa dottrina di una Chiesa carnale [ossia compromessa con i poteri mondani] oltre alla Chiesa spirituale. Lʼinterruzione degli studi teologici di Dante e il suo ritorno a una vita interamente laica furono quindi davvero una specie di infedeltà nei confronti della Beatrice teologicamente contemplativa e gioachimitico-templare; egli però non lʼabbandonò mai completamente […]: quando cessò di essere chierico templare rimase però adepto templare. (DT, p. 273)
I cultori della Commedia ricorderanno che Dante, mentre ascolta contrito le parole di Beatrice su di lui e a lui rivolte, non ha il coraggio di alzare lo sguardo dal prato sotto i suoi piedi per vederla in volto: perciò Beatrice a un certo momento lo richiama dicendogli «alza la barba»; una frase che si può benissimo intendere come “alza il mento”, o “guardami in faccia”. Anche in questo punto del Poema, però, lo John ritiene si celi un altro riferimento allusivo allʼambito templare e al fatto che Dante se ne fosse allontanato:
Il templarismo, che nel Paradiso terrestre è sempre in giuoco, doveva accontentarsi dappertutto di allusioni segrete. Una di queste è il passo in cui Beatrice ingiunge a Dante di “alzar la barba” per vedere la rampognatrice, oltre che udirla (vv. 67-68). Solo Dante comprese “il velen dellʼargomento” (vv. 72-73). In che cosa consiste quel veleno? Se le parole avessero solo il senso di sottolineare la sua età matura, nella quale egli (che in realtà non porta la barba!) è costretto a subire la rampogna, si tratterebbe di un modo di dire tanto banale, che Dante non avrebbe certo preteso di essere lʼunico a comprendere quel termine “velenoso”. […] Non è quindi lecito interpretare la menzione della barba come un riferimento alla maturità di Dante. Invece, il decorso del processo ai Templari conferiva a Beatrice il pieno diritto di ironizzare sullʼessere senza barba, considerandolo un atto di infedeltà verso la vita contemplativa templare. Infatti, tutti i Templari che volevano attestare davanti agli inquisitori la loro rottura con lʼOrdine, si presentavano alla sbarra senza mantello e senza barba (DT , p. 276).
Ad esempio, infatti, il 13 maggio 1310 si presentò a deporre allʼinterrogatorio il cavaliere Aimery de Villiers-le-Duc, con «la barba rasata, senza mantello né lʼabito di Templare, dellʼetà, a quanto egli dice, di circa cinquantʼanni» (rasa barba et sine mantello et habitu Templi, etatis, ut dixit, L annorum vel circa) [49]. Nonostante ciò – aggiungiamo – non è assolutamente certo che Dante fosse sempre rasato (anche se il ritratto eseguito da Giotto, lʼunico suo contemporaneo che ne abbia dipinto il viso, lo presenta così), perché ad una barba bruna di Dante allude anche Giovanni Boccaccio in un aneddoto riportato nel suo Trattatello in laude di Dante, che include la famosa e forse prima descrizione fisica dellʼAlighieri:
Questo nostro poeta [fu] di mediocre statura, e poi che allʼetà matura fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, dʼonestissimi panni sempre vestito, in quello abito chʼ era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto era quel di sopra avanzato; il colore [della pelle] era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre ne la faccia malinconico et pensoso. Per la qual cosa, avvenne un giorno in Verona, essendo già divulgata per tutto la fama delle sue opere, e massimamente quella parte della Comedia la quale egli intitola Inferno e esso conosciuto da molti uomini e donne, che, passando egli davanti a una porta ove più donne sedevano, una di quelle, pianamente non però tanto che bene da lui e da chi era con lui non fusse udita, disse a lʼaltre donne: – Vedete colui che va ne lʼinferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù sono? – Alla quale una dellʼaltre rispose semplicemente: – In verità tu devi dir vero: non vedi tu come egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fumo che è là giù? – Le quali parole udendo egli dir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza [credulità] delle donne venivano, piacendogli e quasi contento che esse in cotale oppinione fossero, sorridendo alquanto passò avanti. [50]
Dato che lʼepisodio – realmente accaduto o pettegolezzo che fosse – accadde a Verona e non a Firenze, potremmo ipotizzare pure che il Poeta si fosse lasciato crescere la barba soltanto dopo la condanna in contumacia e lʼesilio, per essere meno identificabile da parte di cittadini toscani che lo conoscevano almeno di vista e si trovavano anchʼessi fuori dal loro territorio per varie ragioni commerciali, politiche o anche penali (banditi, fuggiaschi, spie…).
Comunque sia, secondo Robert John, durante il suo discorso Beatrice si identifica implicitamente da sé nella comunità Templare, o potremmo dire – servendoci di un concetto cristologico – del “corpo mistico” di tale comunità: interpretando i vv. 50-51 del canto XXXI in modo più letterale di quanto solitamente non si faccia negli studi danteschi, lo John afferma che
quando ella sottolinea la passata bellezza terrena che aveva contrassegnato il suo corpo ora sepolto, noi restiamo perplessi di fronte allʼespressione:
… le belle membra in chʼio
rinchiusa fui, e che soʼ in terra sparte.
Le membra della defunta Monna Beatrice deʼ Bardi non erano affatto state sparse: cʼerano invece adepti templari sparsi in ogni parte dʼItalia, e del resto lʼespressione qui usata da Beatrice ha evidente il carattere del modo di esprimersi dello gnosticismo (DT, pp. 275-276),
perché, come ricorderà lʼautore nelle penultime pagine di Dante Templare,
le ossa di Monna Bice deʼ Bardi, come quelle di suo padre Folco Portinari, giacevano e probabilmente giacciono ancor oggi tranquillamente nella loro tomba. Le “membra in terra sparte” di Beatrice […] sono (lo ripetiamo) i numerosi membri, sparsi per tutta Italia, delle associazioni spirituali templari che la Donna nobilissima designa con quel nome schiettamente gnostico. Le “membra sparte” si ritrovano con questo stesso significato nel Vangelo gnostico detto di Eva: “Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei, là sono io, e in tutti io sono sparsa. E tu mi raccogli da dove vuoi, ma raccogliendo me, raccogli anche te stesso”. (DT, pp. 350-351)
Dante avrebbe dunque conosciuto almeno qualche nozione del Cristianesimo gnostico, di cui si sarebbe servito pur non condividendo necessariamente, o totalmente, il contenuto filosofico-misterico di tale insieme di correnti religiose? Comunque sia, Beatrice come immagine umana della comunità templare promette che questo stato di abbandono delle sue «membra» terrene non sarà eterno: al fervido auspicio dei destinatari delle sue parole – in primis Dante stesso, rappresentante gli adepti dei Templari e, più in generale, di tutti gli «affamati e assetati della giustizia» (Matteo, 5, 6) – la donna mirabile risponde che vi è da attendere fermamente e con fede il momento, stabilito da Dio e non lontano, allorché potranno rivederla nuovamente gloriosa. Questa incoraggiante risposta è espressa con una frase latina tratta direttamente dallʼultimo discorso di Gesù prima della crocifissione (Giovanni, 16, 16): «Ancora un poco e non mi vedrete; un altro poco ancora, e mi vedrete» (Modicum, et non videbitis me; iterum, modicum et videbitis me): vale a dire,
il processo ai Templari sottrarrà sì per un certo tempo agli occhi dei suoi fedeli la gnosi templare (che Beatrice non cessa naturalmente di essere, anche quando rappresenta la Chiesa spirituale), ma il templarismo non tarderà molto a rivivere. Vedremo subito che Dante […] sperava nella restaurazione del Tempio e che proprio per questa speranza si fa lodare in Paradiso da san Giacomo, che sulla speranza lo interroga [Paradiso, XXV, 52]:
La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza…
(DT, pp. 289-290)
A questo punto è inevitabile domandarsi: la Beatrice della Vita nova e della Divina Commedia è dunque soltanto unʼallegoria in forma umana, soltanto uno pseudonimo femminile per designare una realtà mistica sovra-individuale, se non addirittura la personificazione di un concetto? Che ne è dellʼintenso, sofferto, segnante sentimento dʼamore per lei da parte del Poeta? Niente di più che una finzione letteraria, per quanto geniale, potente, articolata e suggestiva?
Robert L. John – come già visto – non esclude che i primi contatti di Dante con il pensiero templare siano avvenuti molto presto, addirittura prima della sua adolescenza, ossia negli anni che Dante ricorderà nella sua prima opera rilevante, la Vita nova (conclusa tra il 1294 e il 1295). Come è noto, tra i fatti importanti della propria vita rievocati da Dante in questʼopera, quelli fondamentali sono senza dubbio i primi due incontri significativi con Beatrice: il che non significa che questi due incontri siano stati letteralmente gli unici due nellʼarco di diciotto anni, come si è creduto di poter dedurre forse fin troppo spesso (e talvolta, probabilmente, allo scopo più o meno conscio di presentare come inverosimile, se non addirittura falso, il racconto dantesco). A sostegno di questa semplificazione si allega sovente un elemento di presunta ovvietà, cioè che i bambini delle due famiglie Alighieri e Portinari, essendo quasi vicine di casa, non potevano non vedersi pressoché ogni giorno. È invece ben possibile che eventuali altri sguardi reciproci siano avvenuti, reali e concreti tanto quanto i due registrati, ma siano stati taciuti dal Dante del 1295 perché privi di caratteristiche tali da farli apparire significativi in senso simbolico, sacro ed esistenziale. In ogni caso, stando al racconto, quando Dante e Beatrice si vedono per la prima volta, Dante ha quasi 9 anni mentre Beatrice ne ha circa otto e mezzo (siamo perciò nella primavera del 1274) ed è «vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno» (Vita nova, II), cioè di rosso vivo; dopodiché, Dante e Beatrice si rivedono e si guardano negli occhi nove anni dopo (nel 1283), cioè quando entrambi ne hanno quasi 18, e ora «questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo» (Vita nova, II).
Lo John si guarda bene dal negare lʼesistenza storica di Beatrice Portinari (o dal sostenere che, dopotutto, non importa se sia esistita o meno perché “ciò che conta è il simbolo”, come probabilmente pensano alcuni nostri contemporanei); che essa sia realmente esistita – ricorda lʼautore – è indicato da più di un documento:
Lo sappiamo dal testamento di suo padre, il pio e generoso patrizio Folco dei Portinari. La sua consorte, monna Cilia dei Caponsacchi, fu madre di Beatrice. Quando il 15 gennaio del 1288 messer Folco scrisse il suo testamento, provvide anche a sua figlia Beatrice che era già moglie di un Simone deʼ Bardi, il quale lʼaveva sposata da vedovo, in età piuttosto avanzata; [inoltre] le case degli Alighieri e dei Portinari erano molto vicine tra loro… (DT , p. 15);
Gli storici usano abitualmente come fonte storica la Vita nuova (fonte apparentemente confermata da Purgatorio XXXII, 2) e fissano la data di nascita di Beatrice alla fine del 1265 e la morte all’8 giugno 1290 (DT , p. 301) [51];
Il primo ad affermare, sia pure in modo vago, che Beatrice sia stata una reale giovane fiorentina amata da Dante fu nel 1324 il segretario di Stato bolognese ser Graziolo de Bambaglioli. Il suo commento latino all’Inferno osserva sul discorso di Virgilio nel secondo canto: …ipsa domina erat olim (anima) generosa dominae Beatricis et domini… [la stessa Donna era stata un tempo l’anima generosa di Donna Beatrice e di messer…] Dopo la parola “domini”, ser Graziolo lascia una lacuna che evidentemente intendeva colmare non appena avesse appreso qualcosa di più sul padre della Domina Beatrix. Ma ne apprese tanto poco che quella lacuna si ritrova ancora nella traduzione italiana del suo commento, pubblicata nel 1848 da Lord Vernon, il quale ignorava che si trattasse dell’opera del Bambaglioli. È vero che esiste un codice del 1386 nel quale la lacuna appare colmata dalle parole “figliuola che fu di folco portinari”. Luigi Rocca però mise in evidenza che queste parole sono state scritte con inchiostro diverso e da mano diversa. Tutti gli altri codici (meno uno) conservano la lacuna dell’originale. L’unica eccezione è costituita dal Codice Magliabechiano che contiene il seguente passo piuttosto guasto: “anima nobile di mona biatrice che fu … folco de’ Portinari di firence e molgie che fue di me… di geri de’ bardi di firenze” (DT , p. 304).
Questʼultima citazione, secondo lo John, è molto probabilmente basata sui testi scritti da Giovanni Boccaccio a partire dagli anni ’50 del Trecento: il Trattatello in laude di Dante, la rielaborazione di questo testo, intitolata Compendio, la Vita intera e il Commento (DT , pp. 304-306).
Tutto ciò, per il docente austriaco, non esclude comunque che Dante, ricordando nel racconto retrospettivo della Vita nova i due colori significativi del vestito, della bambina prima (rosso) e della ragazza poi (bianco candido), come unici suoi attributi visivo-fisici, abbia quasi letteralmente “vestita” Beatrice dei due colori dellʼabbigliamento Templare, il bianco e il rosso: tali furono rispettivamente, su decisione di papa Eugenio III nel 1146, la veste del cavaliere del Tempio e la croce a otto punte cucita su di essa sulla parte sinistra del petto (DT , pp. 151-152). In tal modo, Dante avrebbe alluso al suo graduale apprendimento della versione templare del Cristianesimo fin dalla fanciullezza (9 anni), riconoscendola in seguito (18 anni) come dottrina beatrice, ossia beatifica, efficace nel condurre l’anima umana alla beatitudine. Il Poeta, insomma, si sarebbe servito della figura storica di Beatrice, che conosceva personalmente, come di un supporto vivente per il significato allegorico della «gnosi templare», decisiva per la sua visione filosofica del mondo e del destino umano:
Dante aveva accolto in sé profondamente, fin dalla giovinezza, questa gnosi templare: essa, e nullʼaltro, era la Donna dello spirito suo, che egli servì fedelmente per tutta la sua vita (DT , p. 355).
E fin qui, tutto sommato, lʼinterpretazione templare della vita e dellʼopera di Dante in relazione a Beatrice non si distanzierebbe in modo così eclatante dalle conclusioni cui è pervenuta la maggior parte degli studi storico-letterari “canonici”, se non fosse per quel «e nullʼaltro». È su questo inciso limitativo, che esclude con troppa semplicità lʼesperienza della Beatrice-donna da parte del Dante uomo, separandola dallʼelaborazione della Beatrice-allegoria da parte del Dante scrittore religioso, che lo scrivente non può essere dʼaccordo.
Personalmente, come già sostenuto altrove [52] a proposito del numero nove quasi sempre intrecciato alle circostanze relative a Beatrice e agli incontri significativi di Dante con lei, anche nel caso dellʼaspetto e delle vesti di Beatrice a 9 anni e a 18 anni riteniamo ben plausibile che non sia necessariamente e soltanto un elemento “puramente simbolico”, nel senso superficiale e riduttivo di “non corrispondente ad alcun elemento concreto”, introdotto artificialmente dal Poeta; al contrario, potrebbe benissimo trattarsi di una combinazione di effettive concordanze anagrafiche, temporali, estetiche e anche cromatiche, per quanto riguarda le due vesti, appartenenti allʼambito di quelle che sei secoli e mezzo più tardi si sarebbero chiamate «coincidenze significative» o «sincronicità».
Dal nostro punto di vista, il Dante di 9 anni può benissimo aver visto che Beatrice Portinari a quasi 9 anni era veramente una bambina più carina delle altre ed indossava un vero vestito rosso; il Dante di 18 anni può in seguito aver visto che la Beatrice di quasi 18 anni era davvero una ragazza molto più affascinante delle altre ed indossava un vero vestito bianco; e soltanto in seguito a queste reali esperienze e sulla base di esse, Dante può avere poi interpretato come messaggio soprannaturale di “orientamento” templare la coincidenza significativa tra la bellezza e la grazia della ragazza da un lato, e i due colori templari dallʼaltro. In sostanza, Dante visse un autentico, segnante amore passionale e sentimentale per la Beatrice umana, e quindi sentì anche unʼintensa attrazione intellettuale per il significato simbolico e trascendente (templare o meno) che egli intravide, o credette di intravedere, personificato in lei. Non vi è alcuna ragione obiettivamente valida per negare questa possibilità, se non una sorta di scetticismo svalutante e presuntuoso nei confronti di tutto ciò che è sublime in senso kantiano [53] ed extra-ordinario (ma non impossibile), tipico della mentalità postmoderna, ben espressa dallʼantica favola classica della volpe che non riesce a raggiungere lʼuva.
LʼAlighieri scrisse la Vita nova nella prima metà degli anni ʼ90 del Duecento, cioè quasi ventʼanni prima che avessero luogo i processi contro i Templari e lo scioglimento dellʼOrdine. Se Dante ebbe stretti contatti con alcuni adepti dellʼOrdine, poteva sapere molto bene che il nove era un numero estremamente ricorrente e peculiare nelle vicende e nellʼorganizzazione dellʼOrdine templare fin dalla sua fondazione. Ma tutti i dati storico-numerologici relativi al 9 nel contesto templare [54], di per sé, non possono rendere ragione di una creazione letteraria articolata come la Vita nova, in cui sʼintrecciano molti altri elementi umani e letterari non numerologici, aventi un valore umano e letterario autonomo: autobiografia, visioni allegoriche e simbolismi, riflessione sulla propria ispirazione ed evoluzione poetica, rievocazioni di frammenti di vita significativi con i propri amici, i sentimenti per essi e per le donne, la genuinità dellʼautore nel descrivere se stesso in preda ai propri turbamenti sentimentali e alla propria insicurezza di fronte alla bellezza carismatica (è proprio il caso di dirlo) della giovane Beatrice. Senza la concreta straordinarietà della Beatrice-donna, non sarebbe potuta esistere la Beatrice-simbolo.
Quindici-sedici anni dopo la conclusione della Vita nova, Dante poteva trovarsi proprio a Parigi mentre nove cavalieri, i «più fermi e più arditi», durante la prigionia scrissero un memoriale di autodifesa datato 7 aprile 1310, «che è la più pressante requisitoria contro i procedimenti degli agenti del re, e una difesa degna degli eruditi moderni» [55]. Che questo giudizio non sia eccessivamente elogiativo si evince dal senso di rettitudine e di dignità che emerge dal brano forse più importante di questo documento:
Chiunque entra nel predetto Ordine promette quattro cose essenziali, da sapere: obbedire, restare casto, restare povero e consacrare tutte le sue forze al servizio della Terra Santa, cioè alla conquista della Terra Santa di Gerusalemme e – se Dio farà la grazia di conquistarla – di conservarla, custodirla, difenderla, per quanto in suo potere; egli è ammesso in onestà, col bacio della pace, e quando si riceve lʼabito con la Croce che essi portano perpetuamente esposta sul petto in reverenza di Colui che è stato crocefisso per noi e in ricordo della Sua passione, gli si insegna a conservare la Regola e gli antichi costumi dati ai Templari dalla Chiesa romana e dai santi Padri. Ecco lʼunica professione di fede di tutti i fratelli del Tempio, che è e fu conservata nel mondo intero da tutti i fratelli dellʼOrdine dalla fondazione fino al presente. E chiunque dice o crede altrimenti, sbaglia completamente, pecca mortalmente e si allontana del tutto dalla via della verità.
E per questo, relativamente agli articoli proposti contro lʼOrdine – articoli disonesti, orribili, terrificanti e detestabili così come impossibili e gravemente vergognosi – essi [i Templari] dicono che questi articoli sono menzogneri e falsi, e coloro che hanno suggerito queste inique menzogne al nostro signore sovrano Pontefice e al nostro serenissimo signore il Re di Francia, sono dei falsi cristiani, o meglio, dei perfetti eretici, denigratori e corruttori della santa Chiesa e di tutta la fede cristiana […] mossi da un cupido zelo e da un invidioso ardore […]. È per tutto questo che in seguito sono derivate per lʼOrdine così grandi sciagure, come anche lʼarresto, la spogliazione, le torture, gli omicidi, le violenze continue sui fratelli, che, minacciati di morte, confessavano contro la loro coscienza […] ed essi erano forzati a confessare questi crimini perché il suddetto signore re, talmente ingannato da questi seduttori, riferì al signore papa tutto quanto qui precede, in modo tale che il signore papa e il signore re furono ingannati dai loro falsi pareri. […]
Essi [i Templari] protestano per tutte [queste] cose e lo dicono sempre in tutte le loro difese, presentate e che presenteranno da parte del Tempio, in particolare, separatamente o insieme, ora o nellʼavvenire, per la difesa o in favore del detto Ordine. E se delle cose sono state prodotte, o apportate, o dette, che possano tornare a detrimento o pregiudizio al detto Ordine, essi le ritengono interamente nulle, vane e senza valore [56].
I documenti accusatorii da parte del re Filippo IV e del suo entourage, viceversa, sono caratterizzati da una tendenziosa retorica che, talvolta, ricorda addirittura alcuni discorsi dei rappresentanti del potere politico mondiale e nazionale odierno. La questione dellʼingiusta fine dellʼOrdine Templare da un lato e la genesi e la struttura della Divina Commedia dallʼaltro, risultano perciò molto attuali, a prescindere da quanto sia fitto lʼintreccio fra entrambi i grandi fenomeni storici. In ogni caso, Robert L. John così riassume la prospettiva dantesca che, verosimilmente, rappresenta proprio questo intreccio:
Dante ha donato allʼumanità il suo poema come una dottrina templare della beatitudine, secondo la quale non è possibile alcuna salvezza se la suprema direzione del genere umano non dispone dellʼAquila e della Croce congiunte in Roma. Entrambe le potenze derivano direttamente da Dio, entrambe sono necessarie perché il mondo non vada in rovina. Sotto il simbolo della Croce, Dante intende però una Chiesa ideale in senso gioachimita: una Chiesa che non abbia nulla in comune con una ricchezza che non sia al servizio dei poveri, con una sovranità territoriale impigliata in affari, discordie, guerre temporali, con la persecuzione di eretici ad opera di tribunali inquisitoriali, e in particolare con la sanguinosa persecuzione e soppressione dellʼOrdine templare stesso. Dante scorge lʼorigine di tutti i mali della Chiesa nella donazione costantiniana, seguita inevitabilmente dalla mondanizzazione della Chiesa e da un corrispondente indebolimento dellʼImpero. Per lui, però, lʼImpero è la “Monarchia”, cioè la comunità di tutti gli Stati cristiani, a capo dei quali si trova non già lʼimperatore tedesco […] bensì lʼimperatore dei romani: questo, però, a sua volta non è neppure un imperatore italiano, bensì solo il protettore della Città eterna e del diritto naturale in tutto lʼorbe abitato: e con ciò, il baluardo unico della giustizia sulla terra. […] Per quanto grande e solido, il singolo Stato è sempre solo un componente dellʼImpero. LʼImpero poi è lʼalleanza di pace sopra-statuale della civiltà cristiana, unʼassociazione che può prosperare solo sotto il monarca, perché solo costui (in forza della sua giurisdizione territorialmente illimitata) è esente da ogni tentazione di avidità territoriale (DT , pp 297-298).
Per concludere, nellʼattuale dibattito sulla vita e sullʼopera di Dante Alighieri, probabilmente almeno in Italia il punto di vista di Robert Ludwig John sembra non aver conquistato molto spazio, o forse nessuno, tra gli studi utili a comprendere la Commedia e il suo autore; a differenza, purtroppo, di molte altre “volgate” più o meno ideologiche o fantasiose sia sul Poeta – cʼè chi ha affermato che Dante si procurasse visioni soggettive dellʼAldilà assumendo sostanze allucinogene; altri hanno sostenuto che i sonni-svenimenti improvvisi di Dante nellʼInferno e nel Purgatorio rispecchierebbero la narcolessia di cui il Poeta avrebbe sofferto… – sia sui personaggi storici e mitologici da lui collocati in una delle tre dimensioni metafisiche (indimenticabile lʼopinione di un lettore che ha voluto vedere nellʼUlisse dantesco un archetipo politico precursore dellʼanarchia e dei partigiani antifascisti, il che è assurdo a prescindere da qualsiasi valutazione si possa dare dellʼideologia anarchica e del fenomeno storico della Resistenza).
Si può quindi terminare questo insieme di riflessioni sullo studio del professor John condividendo, nonostante siano trascorsi più di settantʼanni dalla sua realizzazione e più di trenta dalla “provvidenziale” versione italiana, la considerazione con cui Willy Schwarz, lʼautore della traduzione, chiudeva la propria «Premessa del traduttore» a Dante Templare (DT , p. III):
Spetterà naturalmente agli studiosi della storia e del pensiero teologico medievali valutare il merito delle argomentazioni di Robert John. Ma riteniamo che in ogni caso gli studi sul pensiero di Dante e sulla Commedia non potranno dʼora innanzi non fare i conti con questʼopera. Che essa sia rimasta per quarantʼanni ignota alla storiografia dantesca è davvero singolare […]. È oggi in grado, la nostra cultura, di recepire un punto di vista finora inesplorato sul mondo di Dante?
Note:
49 – La questione templare. Atti del processo 1307-1312, cit., p. 123. Da questa citazione emerge che, come è noto agli storici, durante il Medioevo buona parte delle persone di ceto medio-basso non conosceva precisamente la propria data di nascita.
50 – Trattatello in laude di Dante, in Giovanni Boccaccio, Opere, a cura di B. Maier, Bologna, Zanichelli, 1967 (citato in Guido Armellini, Adriano Colombo, La letteratura italiana, vol. 1, Duecento e Trecento, Bologna, Zanichelli, 1998, p. 312).
51 – Secondo altri, la data di morte di Beatrice sarebbe il 19 dello stesso mese.
52 – Piervittorio Formichetti, Il «Gran Fior» del Paradiso». Dante, la Candida Rosa e il Sacro Graal, cit., pp. 69-70.
53 – Cfr. ad es. Immanuel Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, collana I classici del pensiero, Milano, Fabbri Editori, 1989 / 1996.
54 – I primi Templari fondatori dell’Ordine (che ebbe poi la convalida papale dopo nove anni) furono probabilmente nove cavalieri (vedi M. Barber, La storia dei Templari, cit., pp. 18-19). Per tutti i riferimenti al numero nove nel contesto templare, P. Formichetti, «Papè Satàn, Papè Satàn Aleppe». Dante Templare contro l’Anticristo francese?, cit., pp. 33-35.
55 – La questione templare. Atti del processo 1307-1312, a cura di Carla Montiglio, Torino, Regione Piemonte, 1996, p. 14.
56 – La questione templare, cit., p. 121.
(fine)
Piervittorio Formichetti