“Dante Templare” di Robert L. John – VIII parte – Il Paradiso terrestre, specchio della Spianata del Tempio – Piervittorio Formichetti
(prosegue…)
Si è già accennato al fatto che per i Templari, probabilmente, la giusta dottrina religiosa sarebbe stata costituita da un Cristianesimo capace di includere alcune concezioni mistico-teologiche ebraiche e islamiche, forse tentando di realizzare una sintesi concorde delle tre maggiori religioni monoteistiche. Come è noto, queste ultime si incontrarono e scontrarono, geograficamente e storicamente, a Gerusalemme, e precisamente nellʼarea sulla quale erano stati eretti, a circa nove secoli di distanza tra loro, i due Templi dedicati al «Dio dʼIsraele»:
Quel luogo era dunque degno di venerazione per tutte e tre le religioni monoteistiche. È del tutto naturale che in seno allʼOrdine templare (che lì ebbe la sua patria e la sua casa-madre) si sviluppasse a poco a poco una spiritualità nella quale confluirono il pensiero islamico, quello ebraico e quello cristiano, nelle forme dei misteri antichi: confluirono in un insieme che costituì il nucleo di ciò che abbiamo definito gnosi templare […]. Ovviamente, una spiritualità di questo genere […] esigeva un esoterismo chiuso verso lʼesterno, e in ambienti artistici si affidava a un simbolismo e a un allegorismo tali da non offrire appigli allʼintervento dellʼInquisizione. Lo ripetiamo ancora una volta: non è che la gnosi templare per se stessa fosse eresia, ma a quei tempi era talmente stretta lʼinterconnessione fra la tiara e la corona temporale dello Stato pontificio, che anche unʼopposizione puramente politica poteva far sorgere il sospetto di eresia. (DT , pp. 235-236)
Dante, secondo il professor John, condividendo almeno in parte questa impostazione avrebbe concepito lʼarea principale del suo Paradiso terrestre come lʼesatto antipodo geografico del piazzale del Tempio di Gerusalemme, e quindi inclusivo di non pochi riferimenti ai Templari.
La smisurata montagna del Purgatorio, come si sa, è concepita da Dante come lʼestroflessione di unʼimmensa massa di terra emersa nellʼOceano, agli antipodi dellʼarea sulla quale, al principio della storia, era precipitato Satana-Lucifero dopo essere stato scacciato dal Paradiso: la sua caduta “fisica” aveva provocato sul nostro pianeta una enorme voragine (lʼInferno dantesco) al fondo della quale egli restò imprigionato per lʼeternità; lʼaltopiano del Purgatorio, proiettato verso i cieli, è occupato dal giardino Eden (o Paradiso terrestre), dal quale, secondo la Bibbia, ebbe inizio la storia umana. Una simile concezione orografica del Purgatorio si trova in alcune fonti islamiche, le quali potevano essere state veicolate in Europa tramite i teologi dellʼUniversità di Parigi, i Templari e, forse, le élite colte delle comunità ebraiche spagnole. Alcuni mistici musulmani probabilmente credevano che il Purgatorio fosse unʼimmensa montagna situata tra Terra e Cielo: ad esempio, Miguel Asín Palacios, il primo studioso che mise in relazione Dante e la Commedia con lʼislamico Libro della Scala (La escatología en la Divina Commedia, Madrid, 1919), ricordava che il Purgatorio era immaginato così dallo spagnolo musulmano Abenarabi de Murcia, morto nel 1240 (DT, p. 239). Curiosamente – notiamo noi – il più accogliente tra i nobili che ospitarono Dante negli anni del suo esilio fu il veronese dal cognome simile al titolo del libro islamico: Cangrande della Scala, al quale Dante scrisse diverse lettere, compresa lʼepistola XIII (da alcuni studiosi ritenuta di mano estranea), in cui si spiega la struttura della Divina Commedia e il fatto che lʼopera, come la Sacra Scrittura, possa e debba essere letta non in un solo «senso» ma in quattro; un omonimo Abenarabi, anch’egli spagnolo ma morto a Damasco nel 1258 (salvo un errore dello John per intendere sempre Abenarabi de Murcia), fu autore, fra l’altro, del testo Rivelazioni della Mecca, «un viaggio mistico di Maometto nell’Aldilà che presenta numerosi ed evidenti parallelismi con la Divina Commedia», acquisiti da Dante possibilmente tramite l’Ordine templare:
I suoi sette cerchi infernali, il monte del Purgatorio con le sue suddivisioni, il suo Cielo (che in un annesso schizzo schematico corrisponde perfino al piano dell’Empireo dantesco) costituiscono senza dubbio per Dante dei modelli messi facilmente a sua disposizione tramite i Templari. (DT , p. 328)
Il Paradiso terrestre dantesco sarebbe simile anche a quello descritto nel testo islamico detto Enciclopedia dei Fratelli Puri di Bassora (cfr. DT, p. 241). Di derivazione islamica sarebbe inoltre lʼidea che tale montagna sacra sia situata sullʼisola di Sri Lanka (ex Ceylon), dove si trova il cosiddetto Picco di Adamo, un monte che gli antichi Greci conoscevano col nome Taprobane (DT, pp. 238-239). Questo luogo – che, secondo R. L. John, forse anche i Templari ritenevano sede del Paradiso terrestre (DT, p. 241) – fu collegato alla Divina Commedia da Angelo De Gubernatis nel suo studio del 1896 Il tipo indiano di Lucifero in Dante (Le type indien du Lucifer chez le Dante, in “Giornale Dantesco”, 3, pp. 49-58), ricordato sia dallo John sia, più recentemente, dallo studioso di questioni eurasiatiche Alessandro Grossato [44]. Non per caso, secondo De Gubernatis, proprio Adamo è nominato quasi allʼunisono dalle anime del Purgatorio quando Dante si avvicina allʼalbero centrale del giardino primordiale:
Al centro dell’Eden, circondato da una selva, rigogliosa, Dante vede infatti stagliarsi l’Albero della Vita. Un Albero di tale altezza e sviluppo di fronde da ricordargli, curiosamente, come possibile equivalente terreno, solo quanto si racconta degli alberi che prosperano nelle foreste dell’India:
Io senti’ mormorare a tutti “Adamo”;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.
La coma sua, che tanto si dilata
più quanto più è su, fora dall’Indi
ne’ boschi lor per altezza ammirata.
(Purgatorio XXXII 37-41) [45]
John nota unʼanalogia tra il sito gerosolimitano e il Purgatorio dantesco fin dalla collocazione dei rispettivi punti dʼaccesso, entrambi situati ad est. La Porta dʼOro, unico accesso alla spianata del Tempio di Gerusalemme (detta poi in arabo Haram es-Sherif, «Recinto Nobile»), si trova ad est, come la porta che separa lʼAntipurgatorio dal Purgatorio vero e proprio; è non è un caso che davanti a entrambe le porte vi sia un guardiano che non deve aprire a chiunque:
Al tempo delle Crociate, la Porta dʼOro era quasi certamente ben custodita da fratelli serventi dellʼOrdine dei Templari. E siccome i conversi dellʼOrdine non portavano il bianco manto dei cavalieri, bensì un abito grigio o bruno, anche lʼangelo portiere dellʼingresso al Purgatorio porta una veste color di terra (Purg. IX, 115-116). Né il poeta ha dimenticato di notare che quella porta, come la Porta dʼOro di Gerusalemme, è volta a Oriente. Lʼangelo aveva in mano una spada, non solo perché era anche custode del Paradiso terrestre […] ma perché i raggi abbaglianti del sole nascente, riflessi nellʼarma, ricordassero a Dante che la porta e lʼangelo guardavano a oriente (Purg. IX, 82-84) (DT , pp. 259-260). [46]
Come è noto, la prima persona umana che Dante – e con lui il lettore – incontra inaspettatamente nel Paradiso terrestre, è la suggestiva figura di Matelda, che anticipa l’apparizione di Beatrice. Secondo John, questa sarebbe unʼallegoria più politica che mistico-religiosa, ma non estranea al legame (considerato molto importante in ambito templare) tra le due dimensioni fondamentali per la comunità umana, la pace terrena e quella celeste:
la donna che vive nel Paradiso terrestre, tanto variamente interpretata, [sarebbe] chiaramente interpretabile come la contessa Matilde di Toscana (morta nel 1115): essa aveva governato nella patria del poeta esiliato quando ancora vi regnava la pace, ed era idonea come poche altre figure storiche a simboleggiare la felicità scaturita da una vita attiva schiettamente cristiana. A questo si aggiunga che con la donazione da lei fatta nel 1102 dei suoi vasti possedimenti alla Santa Sede, con la riserva però del diritto di supremazia, essa realizzò pressʼa poco quello che nella Donazione costantiniana Dante considerava il limite del lecito. Se il Paradiso terrestre, posto sullʼaltopiano che corona il monte del Purgatorio, essendo il punto più alto di questo mondo, rappresenta il simbolo della felicità terrena, il Paradiso celeste […] è il più alto di tutti i cieli e quindi il simbolo della felicità eterna. […] Se non fosse prima pervenuto al paradiso terrestre, Dante non avrebbe raggiunto nemmeno quello celeste. Beatrice gli viene incontro solamente là dove già si trova Matelda (DT , pp. 42-43).
Matelda si rivelerebbe dunque una figura simbolica della pace terrestre come condizione ausiliaria, se non necessaria (come si ricaverebbe dal trattato politico di Dante, il De Monarchia, e dagli autori antichi su cui egli si basò per scriverlo, soprattutto Aristotele) affinché la comunità umana raggiunga la beatitudine celeste: Dante – sintetizza John, con unʼattualissima riflessione sulla correlazione reciproca fra la decadenza collettiva e la condizione psicologico-spirituale dellʼindividuo –
concepisce e vede sempre l’umanità come un tutto, perciò riconosce che per essa, in quanto organismo sociale, la beatitudine eterna diverrebbe quasi irraggiungibile, qualora, per effetto di continua ingiustizia, stoltezza, debolezza e sfrenatezza, il suo benessere terreno dovesse precipitare in un abisso di miscredenza, di disperazione e di odio. Il singolo deve certo sempre e dovunque operare per la propria salvezza avvalendosi anche, nelle circostanze più difficili, delle grazie che gli vengono offerte, ma in un mondo divenuto preda della più sfrenata dissolutezza ed ingiustizia, un mondo di follia politica e sociale, finirà per tendere all’estirpazione radicale di tutto quanto è connesso col cristianesimo, con l’amore per Dio e per il prossimo, con la speranza di una vita nel “Cielo”. Non c’è dubbio: se fosse strappata su vasta scala all’umanità la prospettiva di una felicità terrena, nel senso in cui Dante la intende, immense masse umane andrebbero perdute anche per la felicità celeste. (DT , pp. 39-40)
L’esigenza – personale e collettiva – di una rinnovata armonia tra l’ambito terreno-politico e quello celeste-religioso, è auspicata e rappresentata allegoricamente dal Poeta anche nei due simboli della Croce e dell’Aquila; secondo lo John, di entrambe le immagini è sfuggita alla stragrande maggioranza degli studiosi la derivazione dall’ambito Templare:
Dante sottopone al simbolismo della Croce e dell’Aquila, che percorre l’intera Commedia dall’inizio alla fine, le due forme di vita, la contemplativa e l’attiva, le corrispondenti felicità: l’eterna e la temporale, nonché i due poteri che guidano l’umanità nelle due direzioni: il potere papale e l’imperiale. Nel simbolo della Croce, Dante indica la vita contemplativa, la Chiesa e il papato; in quello dell’Aquila, la vita attiva, l’Imperium e l’istituzione imperiale. […] L’ingegno di Dante seppe configurare le variazioni del tema in modo tale che il motivo di fondo della Commedia passò per secoli inosservato […] sebbene quelle ricorrenti simmetrie allegoriche della Croce e dell’Aquila figurino tra i punti più splendidi del poema. Il merito di averle intuite, piuttosto che scoperte, spetta a Michelangelo Caetani di Sermoneta [autore dello studio Della dottrina che si asconde nell’ottavo e nono canto dell’Inferno della Commedia di Dante Alighieri, Roma, 1852] e poi al poeta Giovanni Pascoli una quarantina d’anni più tardi [G. Pascoli, Minerva oscura, Bologna, Zanichelli, 1892]. In modo sistematico le studiò per primo Luigi Valli, che riuscì a scoprire nella Commedia non meno di trenta di queste simmetrie [L. Valli, Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia, Bologna, Zanichelli, 1892]. Purtroppo però […] Il Valli […] fa di Dante il seguace di una qualsiasi oscura setta italiana [i Fedeli d’Amore]. […] Dante non fu membro di una setta, bensì un adepto dei Templari, e come tale egli si rivela anche e specialmente nelle sue ingegnose simmetrie Croce-Aquila. Non solo in quanto per lui la Chiesa simboleggiata dalla Croce è la Chiesa ideale, nel senso templare, ed è un Impero ideale anche quello raffigurato nell’Aquila, ma già la scelta stessa di questi due simboli e la loro congiunzione in un tutto inscindibile è patrimonio spirituale templare: infatti l’Aquila congiunta con la Croce non era altro che l’insegna raffigurata nel sigillo del Gran Maestro dell’Ordine dei Templari. In origine il sigillo del Gran Maestro raffigurava due cavalieri sopra un solo cavallo; in seguito raffigurò l’immagine della testa di Cristo incoronata di spine, con una stella sui due lati: e sebbene recasse la scritta Sigillum Magistri Templi Hierosolimitani [Sigillo del Maestro del Tempio di Gerusalemme] fu usato anche dai Maestri provinciali. Alla fine del Duecento, poi, fu adottato un nuovo sigillo che mostra un’aquila sopra una roccia, con le ali spiegate, sormontata dalla Croce dell’Ordine [cioè quella con i bracci a due punte] e da due stelle (DT , pp. 44-45). [47]
Una delle prime caratteristiche che Dante – e con lui il lettore – coglie del Paradiso terrestre è il prato fiorito sul quale cammina Matelda. I fiori ai piedi della giovane donna vengono indicati come vermigli e gialli, e anche questo dettaglio non sarebbe soltanto estetico:
Perché sono rossi e gialli i fiori ai piedi di Matelda? Ma perché il rosso e il giallo erano i colori di Gerusalemme! Lo stendardo della città santa recava le ben note cinque croci di colore rosso su fondo dʼoro; per cui i colori del regno di Gerusalemme erano rosso e giallo. Il Templare Dante si fa dunque riconoscere anche dai fioretti vermigli e gialli! […] Io sono certo che i Templari letterati si riconoscevano tra loro dalla menzione dei fioretti gialli e rossi, se non addirittura dai colori propriamente templari, il rosso e il bianco, come nel sonetto Voglio del ver di Guido Guinizelli, nel quale la sua donna è chiaramente confrontata non solo con le rose e i gigli, ma anche con i fiori gialli e rossi. Il simbolico sito del Tempio ha dunque anche i suoi fiori simbolici (DT , p. 262).
Del rigoglioso altopiano liminale fra il mondo e lʼAldilà, risulta particolarmente importante un settore. I due ruscelli del Paradiso terrestre, il Lete e lʼEunoé, originano da una medesima sorgente, ma procedono in direzioni diverse: lʼEunoé scorre verso est, il Lete verso ovest, curvando poi verso nord quasi al centro del Giardino; in questo modo i due corsi dʼacqua delimitano unʼarea che corrisponde approssimativamente al nord-est su un quarto di cerchio; e proprio lʼarea nord-est di Gerusalemme è quella occupata dalla Spianata del Tempio. Tutte le drammatiche scene e le potenti visioni allegoriche degli ultimi canti del Purgatorio, il cui apice è lʼapparizione-rivelazione di Beatrice, avranno luogo appunto sulla superficie di quel quarto di cerchio: nellʼinterpretazione dello John, ciò significa che per Dante lʼunico luogo dove potesse trovarsi la conoscenza beatrice, ossia la teologia cristiana nella versione mistico-eterodossa dellʼOrdine templare, non poteva che essere la Spianata del Tempio di Gerusalemme, cioè lʼOrdine dei Templari, che lì aveva le proprie radici:
Il poeta si raffigura disperso nellʼallegorica selva oscura degli effetti del peccato originale, in quanto rappresenta la cristianità deviata dalla retta via, e nella “trista selva” di Firenze (“che non lasciò giammai persona viva”), in quanto era il fiorentino Dante Alighieri. La via alla salvezza terrena e celeste gli è tracciata dalla sua conoscenza templare delle giuste premesse per la beatitudine del genere umano. La gnosi templare sola conosce cosa significhino una vera Chiesa e un vero Impero. La via che Dante ha da percorrere conduce dunque inevitabilmente al luogo dove sorge il Tempio. Soltanto lì potrà incontrare Beatrice, soltanto partendo da lì potrà pervenire, oltre le stelle, alla pienezza della vita contemplativa: alla visione di Dio. E la via che egli deve seguire è anche quella che ha da percorrere lʼumanità, almeno chi nellʼumanità è dotato di conoscenza. (DT, p. 250)
Dunque la sede perfetta da raggiungere per poter successivamente accedere al Paradiso metafisico è la dottrina cristiana nella versione templare, alla quale Dante avrebbe dato, per così dire, il volto e il corpo dellʼamata Beatrice, che infatti appare nuovamente vestita dei due colori dei Cavalieri Templari, il bianco del velo e il rosso della veste, con aggiunto ora anche il verde del manto, lo stesso colore degli angeli che – come si è già visto – avevano difeso il capitolo templare, “criptato” nei prìncipi negligenti di Purgatorio VII-VIII, dallʼinsidia della «biscia», cioè della bolla papale Callidi serpenti.
È inoltre possibile, secondo lo John, porre in parallelo la concezione dei due fiumi scaturiti da una sola sorgente ed un elemento giudaico della «gnosi templare» connessa allo spazio sacro del Paradiso terrestre, sempre che tale elemento non sia stato di per sé il modello della sorgente edenica dantesca:
Anche i tratti gnostico-giudaici provenienti dalla Cabbala e riscontrabili in Dante devono con tutta probabilità ricondursi alla gnosi templare, piuttosto che allʼinflusso del suo amico ebreo Emmanuel ben Salomon di Firenze: tanto più che proprio mentre fioriva il Dolce Stil Novo, apparve lʼopera più importante della gnosi giudaica, il Sèfer Zohar (Libro dello Splendore) di Mosè de León, unʼopera certo non passata inosservata da parte dei Templari. Così ad esempio lʼattraversamento del muro di fuoco prima del Paradiso terrestre (Purg. 27) ci riconduce al libro Zohar , dove le anime (ugualmente sul limite del giardino dellʼEden) prima di ricevere il loro involucro di luce assomigliante al vecchio corpo deposto, vengono fatte passare attraverso un fiume di fuoco. Ugualmente derivata direttamente dal Sefer Zohar è lʼidea di unʼunica sorgente comune ai due fiumi Lete ed Eunoè: vi si legge infatti che il fiume Jobel nasce nellʼEden e si biforca in due rami che portano i nomi delle due colonne Jachin e Boaz del Tempio di Salomone. E qui risuona una segreta connessione fra lʼEden e i Tempio, certo un pensiero che rallegrava il cuore dei Templari (DT , p. 352).
La solenne processione composta di personaggi umani, esseri mitologici e immagini allegoriche che rappresenterebbero il prossimo avvento della Chiesa spirituale “gioachimita”, proviene appunto dalla parte orientale del simbolico sito del Tempio, ed è composta da quattro gruppi più un elemento finale:
- la schiera dei sette candelabri dʼoro (DT, p. 266), che rappresentano i sette doni dello Spirito Santo (scienza, intelletto, sapienza, consiglio, fortezza, devozione, timore di Dio), e avanzano schierati come una prima «linea di combattimento»: così infatti erano stati definiti da san Bernardo di Chiaravalle i sette doni dello Spirito (Sermo de diversis, XIV) [48];
- i ventiquattro vegliardi o seniori, a coppie: cioè gli autori dei testi dellʼAntico Testamento (DT, p. 268);
- i quattro esseri viventi, anticipatori e simboli degli evangelisti: lʼangelo (o uomo alato) per Matteo, il leone per Marco, il bue per Luca, lʼaquila per Giovanni; Dante però si prende la libertà di introdurre altre due volte Giovanni, come uno dei quattro personaggi «in umile paruta» (perché Giovanni fu autore anche delle tre Lettere conservate nel Nuovo Testamento) e come «un veglio solo» immerso nel sonno (perché ritenuto anche autore dellʼApocalisse, scandita da visioni che potrebbero essere assimilate ai sogni). Inoltre, i quattro esseri non hanno ciascuno quattro ali come nel Libro di Ezechiele (nel quale compaiono per la prima volta), bensì sei (come i serafini visti dal profeta Isaia proprio allʼinterno del Tempio), perché non rappresentano il passato ma il futuro della Chiesa (cioè la sua fioritura in senso gioachimita-templare) (DT, p. 268);
- al centro, trainato dal Grifone, il carro trionfale sul quale si trova Beatrice, come Dante scoprirà poco dopo. Il Grifone è color dʼoro per quanto riguarda il corpo di uccello, bianco e rosso nelle parti leonine: le due nature animali alludono alle due nature del Cristo, divina e umana, i due colori ancora a quelli dellʼOrdine del Tempio, associati a quelli sullo stendardo del Regno di Gerusalemme (Ibidem, ivi).
Il punto del Paradiso terrestre nel quale sostano prima Dante e Matelda (concluso il percorso dei cento passi di cui si è detto in precedenza) e poi il corteo trionfale di Beatrice, risulta poco più a destra dellʼangolo sud-ovest formato dalla curva del Lete verso nord: la zona in questione, secondo John, è lʼantipodo esatto del punto del piazzale del Tempio dove sorgeva la «chiesa madre» dei Templari, ottagonale e chiamata esplicitamente Templum Salomonis; oggi non è più esistente, ma doveva essere vicina allʼattuale moschea Al-Aqsa. Non a caso, il corteo che prepara la rivelazione di Beatrice è aperto dal canto di unʼinvocazione tratta dal Cantico dei Cantici (Veni, sponsa, de Libano, cap. 4 v. 8), attribuito al re Salomone, fondatore del primo Tempio (DT, pp. 265-266).
Allorché la sacra processione allegorica torna indietro verso oriente, fermandosi accanto allʼalbero della conoscenza del bene e del male, Dante afferma che il successivo inno cantato da quelle presenze e da lui ascoltato in questo frangente, non era mai stato udito né cantato sulla Terra:
io non lo intesi, né qui non si canta
lʼinno che quella gente allor cantaro
(Purg. XXXII, 61-62);
ciò perché questo canto, secondo lo John, sarebbe un inno di lode nei confronti di Beatrice in quanto rappresentante della Chiesa spirituale che – come auspicato dal Poeta secondo lʼinterpretazione gioachimita-templare – rinuncia al possesso dello Stato pontificio (DT, p. 281). Ma prima che il percorso della processione evolva in questo modo, nel Paradiso terrestre dantesco hanno luogo gli eventi fondamentali e conclusivi del Purgatorio: lo svelamento di Beatrice, il suo rimprovero a Dante, il pentimento e il definitivo lavacro spirituale del Poeta.
Note:
44 – Alessandro Grossato, Dante e lʼIndia, in Sguardi su Dante da Oriente, a cura di Carlo Saccone, “Quaderni di Studi indo-mediterranei” IX / 2016, pp. 314-319.
45 – Grossato, Dante e lʼIndia, cit., p. 318. In nota, questa pagina riporta una ulteriore, interessante considerazione del De Gubernatis: «L’Albero di Adamo richiama a Dante particolarmente l’immagine degli alberi indiani, come la ficus religiosa, la ficus indica, che propagano e dilatano in modo gigantesco i loro rami, spesso disadorni di fronda». Lʼalbero descritto da Dante è dunque quasi certamente il pipal o banyan – sotto un esemplare del quale il principe-eremita Siddharta Gautama divenne «Risvegliato» (Buddha) – visto in India nel 1937-38 anche da Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (1901-1981), il discepolo italo-francese di Gandhi: cfr. G. G. Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle Sorgenti. Il mio incontro con Gandhi e con lʼIndia, Milano, Jaca Book, 1978, pp. 200-201; citato anche in Piervittorio Formichetti, Viaggio al centro dell’Uomo. Il pellegrinaggio di Lanza del Vasto in India (1937-1938), https://www.academia.edu/35739016/Viaggio_al_centro_dellUomo._Il_pellegrinaggio_di_Lanza_del_Vasto_in_India_1937_1938.
46 – Quelli che John chiama «serventi», per Malcolm Barber (almeno nella traduzione italiana) sono i «sergenti», che indossavano appunto una veste bruna: «A differenza dei cavalieri, cui spettava il privilegio delle clamidi bianche, i sergenti indossavano una tunica nera con una croce rossa davanti e dietro, unitamente a una clamide nera o bruna» (Barber, La storia dei Templari, cit., p. 222.), mentre il cavaliere aveva diritto a due vesti bianche, una delle quali dotata di pelliccia per lʼuso invernale (ibidem, ivi, p. 221).
47 – Al riguardo è utile anche M. Barber, La storia dei Templari, cit., p. 19: «Gli esordi umili e poveri [della confraternita Templare] comparvero in seguito come elemento costitutivo della tradizione accolta dallʼOrdine, e lo si può vedere nella rappresentazione simbolica della povertà, coniata sul sigillo, che mostra due cavalieri in groppa ad un solo cavallo (fig. 17 [sic, ma in realtà è la n. 16 a p. 210 del testo]), anche se è possibile che sia stato lʼascetismo cistercense veicolato da san Bernardo, il famoso abate di Clairvaux, ad aver contribuito a questa autorappresentazione».
48 – In Jacques Paul Migne (a cura di), Patrologia Latina (1855), 183, 574.
(continua …)
Piervittorio Formichetti