“Dante Templare” di Robert L. John – III parte – Un eretico soltanto apparente – Piervittorio Formichetti
prosegue …
Nonostante che lʼimpostazione teologica di Dante sia, tutto sommato, circoscrivibile nellʼortodossia cattolica rappresentata da san Tommaso d’Aquino, secondo Robert L. John sulla mentalità del giovane e poi adulto Poeta ebbe un influsso fondamentale anche la teologia mistica del noto monaco calabrese Gioacchino da Fiore (1130?-1202), il quale, dopo essere stato abate cistercense,
fondò in Calabria, con autorizzazione papale, un convento con regola benedettina inasprita, convento che divenne la casa-madre della congregazione Florense, estintasi poi nel sedicesimo secolo. Venerato come beato nella sua diocesi di origine, l’abate Gioacchino fu considerato un profeta. […] La più famosa delle opere realmente scaturite dalla sua penna è la Concordia Novi et Veteris Testamenti, […] [il cui] nucleo centrale è costituito dalla dottrina dei tre grandi periodi successivi della storia del mondo […]. Nell’ambito di tutto il corso della storia, quelle tre età sono dedicate alle tre persone divine, al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo. Ognuna di esse ha un suo tempo di preparazione che, per la seconda e per la terza età, realizza una transizione dall’età precedente. […] Gli eventi legati alla storia della salvazione si compiono in ciascuna delle tre età secondo un decorso simile, connesso con una serie di generazioni, ma su piani via via sempre più elevati. Per esempio, gli eventi dell’età del Logos (o Figlio) da un lato, sono già adombrati nei loro archetipi nella prima età, quella del Padre; ma d’altro canto sono essi stessi dei presagi di ciò che giungerà al suo pieno sviluppo solamente nell’età dello Spirito Santo. Gioacchino attribuisce a ciascuna delle tre grandi età del mondo una durata di 42 generazioni, che corrispondono alle 42 generazioni della genealogia di Cristo elencate da Matteo (1, 1-17): genealogia formulata in tre volte 14 generazioni, evidentemente in ossequio al numero davidico 14. Infatti la somma numerica della parola ebraica David è 14. Poiché l’abate calabrese assegna la durata di 42 generazioni anche all’età del Figlio, si comprende facilmente che l’anno 1260 divenne l’anno fatidico per l’intero movimento gioachimita, l’anno cioè nel quale era da attendersi la luminosa aurora della terza età del mondo, e con essa la Chiesa dello Spirito Santo. (DT pp. 61-63) [24].
La Chiesa dellʼetà dello Spirito Santo non è da intendersi come una realtà ecclesiale priva di gerarchie e contrapposta all’istituzione papale: John ricorda che nonostante alcune opinioni di Gioacchino sulla Trinità, in polemica con Pietro Lombardo, fossero state respinte dal IV Concilio Lateranense (1215), «Roma stessa ha sempre esplicitamente riconosciuto e preso sotto la sua protezione l’ortodossia di Gioacchino, come pure la fondazione del suo Ordine» (DT , p. 63). Dunque l’abate italiano non era un eretico o un anticlericale, come affermarono i già citati Gabriele Rossetti e Eugéne Aroux, per i quali, di conseguenza, la scelta di Dante di collocare Gioacchino nel suo Paradiso, insieme a san Bonaventura (XII, 139) sarebbe stata soltanto ironica (supposizione poco impegnativa!). Inoltre Gioacchino, che era stato monaco cistercense, «per tutta la sua vita nutrì un’entusiastica devozione per san Bernardo di Chiaravalle, il grande “secondo fondatore” dell’Ordine cistercense» (DT, p. 64) (il vero fondatore fu lʼeremita Robert de Molesme, oscurato dalla fama del suo successore); l’Alighieri colloca infatti Bernardo alle massime altezze del suo Paradiso, facendogli pronunciare anche la celebre preghiera alla «Vergine Madre». Riguardo all’anno-cardine 1260, lo John fa opportunamente osservare:
per Gioacchino, 30 o 40 anni in più o in meno non disturbano il calcolo generale: Admonendus est summopere lector… quatemus in initiis istorum aut in finibus eorum non sit scrupulosus exactor super una vel duobus generationibus [Occorre avvertire seriamente il lettore che, per quanto concerne l’inizio o la fine di quelle Età, egli non deve essere troppo scrupoloso nel computare una o due generazioni in più o in meno] (Ibidem, ivi).
Da questo punto di vista, come è stato notato, le prime due età della cronologia gioachimita possono corrispondere rispettivamente alle due raccolte di libri che compongono la Bibbia: l’età del Padre all’Antico Testamento, quella del Figlio al Nuovo. A questo proposito si rivela importante quanto scritto, alcuni anni dopo la morte di Robert L. John, dal critico letterario statunitense Harold Bloom nel suo celebre staggio Il canone occidentale (1994): in questo libro, Bloom definì Dante pervaso da un «fervore eretico», e della Commedia scrisse: «Il suo poema è una profezia, e si propone come un terzo Testamento, per nulla ossequioso rispetto all’Antico e al Nuovo», che esalta Beatrice fino al ruolo di «elemento cruciale nella gerarchia della salvezza» [25].
Possiamo quindi domandarci se Dante stesso concepì davvero la Commedia come terzo libro sacro della Rivelazione divina all’umanità, adatto alla terza epoca del mondo (quella dello Spirito Santo) profetizzata dall’abate Gioacchino. La risposta non può essere «assolutamente sì», tuttavia questa ipotesi si armonizzerebbe con un’altra, basata sull’anno di rinnovamento spirituale fissato intorno al 1260. Dante sapeva benissimo di essere nato non molto lontano da quell’anno, nel 1265, tra gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno: non sarebbe del tutto assurdo, quindi, immaginare che il Poeta, dopo un avvenimento segnante come la morte di Beatrice nell’anno in cui lui compiva 25 anni, abbia ritenuto di essere destinato ad un ruolo profetico connesso all’avvento della terza epoca del Cristianesimo. Questa eventuale convinzione non sarebbe affatto da interpretarsi come un sintomo di personale mitomania, bensì si inserirebbe nel contesto di sfondo a tutte le riflessioni dellʼautore sui rapporti tra gli auspici di rinnovamento politico ed ecclesiastico caratteristici dellʼideologia gioachimitico-templare e le loro possibili espressioni poetico-letterarie:
I Templari si consideravano come i portatori più idonei, anche se silenziosi, della nuova fiaccola dellʼèra ventura (DT , p. 347);
Senza dubbio, i Templari precedevano di molto il loro tempo nel riconoscere la necessità di una Chiesa rinnovata. Fu proprio questa convinzione gioachimita-templare del prossimo inizio di una spiritualizzazione delle due potenze-guida intese alla salvezza terrena ed eterna, a conferire a Dante lʼincrollabile speranza in una rinascita del Tempio distrutto da Filippo il Bello e da Clemente V (DT , p. 362).
Inoltre, sulla visione del mondo e della storia del Poeta, secondo John, ebbero un influsso non trascurabile altri due mistici cristiani contemporanei, la cui predicazione era pervasa da una tensione verso una purificazione della Chiesa e dell’umanità facenti parte, a loro modo, dello stesso milieu psicologico e religioso di Gioacchino da Fiore. Entrambi frati dell’Ordine Minore (cioè francescani) appartenenti alla corrente degli Spirituali (i quali, al contrario dei Conventuali, aborrivano la ricchezza materiale e i compromessi con i poteri politici), questi personaggi appaiono anche nel celebre romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa (1980) ambientato infatti negli anni ’20 del Trecento: Ubertino da Casale (incontrato dai protagonisti) e – soltanto menzionato – il suo maestro Pietro Giovanni Olivi (o Pietro di Giovanni Olivi).
Il piemontese Ubertino, già apprezzato predicatore nella chiesa dei Francescani di Firenze, considerava – in modo più estremistico rispetto a Dante – i primi papi del Trecento rappresentanti dell’Anticristo: papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani) sarebbe stato la prima delle bestie allegoriche di cui parla l’Apocalisse nel capitolo 13; Clemente V (Bertrand de Got) il suo continuatore; Giovanni XXII (Jacques de Cahors) la seconda bestia. Secondo Ubertino, soltanto un papa santo (il cui avvento egli riteneva imminente) e, in quanto gioachimita, riformatore della Chiesa – lo John ritiene possa coincidere con il Veltro preannunciato da Virgilio nel I canto dell’Inferno (cfr. DT , pp. 253 e 293) – avrebbe restituito legittimità e purezza al ruolo papale. Nel 1305, cioè mentre verosimilmente Dante aveva da poco cominciato a comporre la Commedia, Ubertino aveva concluso un libro intitolato Arbor Vitae crucifixae Jesu (Albero della Vita crocifissa di Gesù):
un’opera di edificazione, di tono profetico, piena di appassionate denunce dei radicati mali della Chiesa; il libro era stato scritto durante un divieto di predicazione imposto all’autore da Benedetto XI, divieto che lo aveva profondamente offeso e lo aveva indotto a ritirarsi nel piccolo convento della Verna, il monte sulla cui cima san Francesco aveva ricevuto le stigmate del Signore. […] Nell’ Arbor Vitae, egli si attiene strettamente alle tracce di Gioacchino da Fiore e, come lui, distingue sette periodi tra la prima e la seconda [futura] venuta di Cristo. Questa concezione della storia della Chiesa influì profondamente su Dante: nel libro dello spirituale francescano si trovano inconfondibilmente i modelli delle sette visioni storico-ecclesiastiche del Paradiso terrestre, ai piedi dell’albero della conoscenza (Purg., canti XXIX-XXXIII) (DT, pp. 69-70).
Al pari di Ubertino, se non maggiormente, Pietro Giovanni Olivi, nativo della Linguadoca, ebbe un’importanza molto particolare per Dante e per il suo Poema; di costui, lo John scrive:
L’Olivi, un teologo di altissime capacità speculative e spiccatamente estroso, era stato chiamato a Firenze nel 1287 come Lettore di teologia allo Studio Generale dei francescani; vi rimase per due anni, dopo i quali fu trasferito a Montpellier, nella scuola del suo Ordine, a quel tempo ancora più famosa di quella fiorentina. Dopo la sua morte (1298), i numerosi scritti di questo Spirituale straordinariamente venerato dai suoi seguaci, furono però condannati come eretici, la sua tomba a Narbona fu distrutta, le sue ossa bruciate (1318). Come ritiene anche il Davidsohn, è difficile immaginare che il giovane Alighieri non abbia avuto un rapporto personale con il celebre teologo francescano e col suo discepolo Ubertino, la cui predicazione attirava l’attenzione di tutta la città. Dante era troppo compenetrato dal pensiero gioachimita per non avvicinare personalmente i due gioachimiti francescani. […] Non sembra azzardato supporre che Pietro Giovanni Olivi, il teologo francescano venuto dalla Provenza, abbia messo in opera a Firenze un […] metodo di propaganda in favore degli Spirituali, e che anche per questa via Dante abbia accolto il patrimonio di idee del gioachimismo. Sta di fatto che, come si vedrà in seguito, la teologia molto personale dell’Olivi ha una parte straordinariamente importante nella Commedia (DT, pp. 73 e 78-79).
Per comprendere in quale modo il pensiero dellʼOlivi avrebbe trovato un ruolo importante nel poema, bisogna tener presente che durante il Concilio di Vienne del 1312 – appunto quello che decretò lo scioglimento dell’Ordine Templare – con la costituzione Exivi de Paradiso (6 maggio 1312) furono respinte in quanto eretiche le seguenti quattro affermazioni teologiche dell’Olivi:
- che il voto di povertà dei Francescani debba comprendere anche gli oggetti di uso stretto ed essenziale (usus arctus et pauper), cioè indispensabili al frate, per cui egli non dovrebbe essere proprietario nemmeno di questi;
- che il Cristo crocifisso abbia ricevuto il colpo di lancia prima di morire e non dopo; opinione (in effetti insostenibile) che Dante avrebbe espresso a sua volta tramite il discorso di san Tommaso d’Aquino nel canto XIII del Paradiso, vv. 37-45;
- che l’«anima razionale» umana non avrebbe alcuna funzione diretta nella formazione del corpo del nascituro durante la gestazione, in quanto subentrerebbe soltanto dopo che l’embrione è già stato, per così dire, modellato dall’unione tra l’«anima vegetativa» e l’«anima sensitiva» (mentre invece la teologia cattolica, basata sulla filosofia di san Tommaso d’Aquino, riteneva e ritiene tutt’ora che l’anima umana, pur articolandosi in diverse funzioni psicofisiche, sia unitaria fin dal principio, e quindi concorra interamente alla formazione del corpo); un’idea eretica della quale Dante avrebbe lasciato una traccia nel discorso di Stazio sull’animazione dell’essere umano nel canto XXV del Purgatorio;
- che i bambini battezzati non ricevano la grazia santificante e l’infusione delle virtù nel momento stesso del battesimo, bensì soltanto dopo alcuni anni, quando in loro avviene il «risveglio della ragione» (DT, p. 81): «Secondo l’Olivi, il sacramento del battesimo impartito a un bambino piccolo non avrebbe altro effetto che la cancellazione del carattere di colpa del peccato originale; il peccato originale stesso, invece, continuerebbe a gravare ugualmente sull’anima infantile» per alcuni anni, fin quando non avviene in loro, con la crescita, il risveglio della ragione (DT , p. 94).
Per lo John, nella Commedia si trovano tracce abbastanza significative di queste ultime tre asserzioni del predicatore francescano, sulle quali non possiamo soffermarci oltre. L’opinione sui bambini battezzati, però, merita attenzione, perché coinvolge la concezione dantesca della «candida Rosa», lʼimmenso anfiteatro formato dalle anime beate, «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua […], avvolt[e] in vesti candide» (Apocalisse, 7, 9; cfr. anche 3, 5), alla quale lo scrivente ha dedicato un precedente saggio [26]. Nel canto XXXII del Paradiso, san Bernardo di Chiaravalle illustra a Dante la struttura della «Rosa del cielo», al fondo della quale – cioè al centro del fiore di anime – stanno i bambini morti in tenera età; lo John fa quindi notare:
La cosa singolare è che si tratta solo dei bambini morti prima di Cristo. Essi stanno in Cielo, sia che i loro genitori fossero gente pia vissuta prima di Abramo (e ottennero la salvezza delle anime dei loro bambini con la sola speranza di una redenzione e con la preghiera), sia che, al tempo della legge [ebraica] della circoncisione, abbiano acquistato con questa la salvezza. Mancano però i bambini battezzati prima del risveglio della ragione! San Bernardo non tralascia, infatti, di menzionare che, dall’inizio del nuovo patto dovuto alla grazia [e non più alla legge], ai piccoli morti senza battesmo perfetto di Cristo (verso 83) è assegnata la dimora nel Limbo, nel “nobile castello”. I commentatori interpretano questo “battesmo perfetto di Cristo” come una espressione destinata a sottolineare il contrasto con la circoncisione, intesa come una specie di battesimo imperfetto. Senonché il “battesmo perfetto” è un’espressione derivata dal pensiero dell’Olivi: essa ci spiega perché i pargoli battezzati non si trovino nella rosa celeste. Secondo la concezione dell’Olivi, essi infatti non posseggono la grazia santificante per essere morti prima del risveglio della ragione. […] La morte di un bambino prima degli anni del discernimento impedisce lo stabilirsi dell’effetto del sacramento, e in tal caso il battesimo rimane appunto imperfetto. Si chiarisce in tal modo anche il fatto singolare che nel luminoso fondo della rosa celeste non si trovano, genericamente, pargoli defunti in tenerissima età, bensì quelli che morirono prima di Cristo. (DT , pp. 100-101)
A sostegno di tutto ciò, Robert L. John pone anche un possibile errore di trascrizione di un verso dell’Inferno, non a caso il v. 36 del canto IV, dove Virgilio parla per la prima volta a Dante delle anime nobili ma relegate nel Limbo perché (come Virgilio stesso) nate prima di Cristo e quindi non beneficiarie della redenzione: «perché non ebber battesmo / ch’è porta della fede che tu credi». Il battesimo sarebbe, metaforicamente, la porta d’ingresso nella fede cristiana; ma lo John evidenzia che la parola porta è probabilmente un’alterazione della parola parte, presente nei manoscritti della Commedia più antichi, sicché la frase sarebbe: perché non ebber battesmo / ch’è parte della fede che tu credi (DT, pp. 97-98). Il battesimo come «parte» (e non elemento intero, completo) della fede sarebbe allora da interpretare in questo modo: esso costituirebbe soltanto la prima parte dell’ingresso nella fede cristiana; la seconda parte, che rende il battesimo «perfetto», cioè attivo o completo nel suo effetto, sarebbe il successivo risveglio della ragione; e questa è per l’appunto la concezione eretica di Pietro Olivi.
Ma com’è possibile che l’Alighieri sembri far propri questi punti di vista contrastanti col suo cattolicesimo, tutto sommato, regolare? Secondo lo John, non può trattarsi dellʼappoggio inconsapevole ad idee eretiche, né del fatto che Dante si stia schierando consapevolmente contro la teologia ufficiale, alla quale egli mostra di aderire, soprattutto in quei canti del Paradiso nei quali viene interrogato da alcuni santi Dottori della Chiesa. Seguendo la tesi dello John, secondo cui la Divina Commedia incorpora ed elabora la polemica filo-templare del suo Autore, Dante si servì dei punti di vista eretici di Pietro Olivi non perché concordasse veramente con il loro contenuto, bensì per dichiararsi indirettamente avversario del Concilio di Vienne (cosa che i sodali di Dante avrebbero ben capito), in quanto questo concilio aveva decretato la fine dell’Ordine Templare:
Per Dante […] che aveva accolto fin dalla giovinezza l’idea gioachimita della Ecclesia carnalis e della sua infamia assoluta da cui non erano esclusi neppure il papa e il concilio (come avevano pensato già Ubertino e l’Olivi), la legittimità del concilio di Vienne era esclusa sotto ogni riguardo. Una tale legittimazione gli era vietata dalla sua entusiastica fedeltà al Tempio e a Beatrice, la Gnosi dei Templari. (DT , p. 110)
Allo stesso tipo di messaggi necessariamente contorti dal punto di vista formale, secondo lo John si può ascrivere la celebre e discussa condanna all’Inferno di papa Celestino V, «l’ombra di colui / che per viltade fece il gran rifiuto», intravisto fugacemente dal Poeta fra le anime degli ignavi per aver abdicato al suo ruolo di pontefice (ma, secondo altri interpreti, potrebbe trattarsi dell’anima di Ponzio Pilato, il cui gran rifiuto fu quello di prosciogliere Gesù; tuttavia non si saprebbe dire in che modo l’anima del governatore romano potesse essere riconoscibile istantaneamente alla vista di Dante, vissuto quasi milletrecento anni dopo di lui). Al contrario dei Francescani Spirituali come Ubertino da Casale, ai quali era pure ideologicamente vicino, Dante non considerò mai illegittimo il pontificato di Bonifacio VIII: nel canto XX del Purgatorio (vv. 86-90), tramite il discorso profetico di Ugo Capeto – capostipite altomedievale della dinastia regnante francese – egli assimila Bonifacio quasi alla figura di Gesù stesso, catturato e maltrattato dai rappresentanti dei poteri politico-istituzionali (il fiordaliso, fleur de lys, fiore del giglio, tipico emblema della monarchia francese):
veggio in Alagna [Anagni] intrar lo fiordaliso
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso,
veggio rinnovellar l’aceto e il fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
(citato in DT , p. 182)
Si tratta – come ricorda lo John – dell’atto intimidatorio nel quale ebbe luogo il famoso «schiaffo di Anagni» del 7 settembre 1303, inferto al papa da Giacomo “Sciarra” Colonna, il nobile romano alleato dei francesi, rappresentati dal vicecancelliere Guglielmo de Nogaret, accanito avversario dell’Ordine templare. Celestino V, da parte sua, fu addirittura dichiarato santo negli stessi anni in cui Dante scriveva la Commedia:
Se, ciononostante, Dante condanna all’Inferno Celestino, vissuto santamente e proclamato santo, egli non intendeva, come Ubertino, bollare la pretesa illegittimità della rinuncia al pontificato. Nel vestibolo dell’Inferno, Celestino soffre la pena degli ignavi, “a Dio spiacenti ed a’ nemici sui” (Inf., 3, 59). Da questo passo dell’Inferno, qualcuno trasse la conclusione che Dante ignorasse la canonizzazione di Celestino V, proclamato santo il 5 maggio 1313; [ma] esistono prove irrefutabili che la canonizzazione di quel papa fu conosciuta in Italia già nell’anno successivo, il 1314. E ammesso che Dante abbia composto quel canto dell’Inferno prima del 1313, la personale santità e purezza di cuore del pontefice eremita non poteva essergli sconosciuta. Dante non poteva ragionevolmente dubitare che Celestino avesse compiuto la sua rinuncia per il nobile motivo di un’umile conoscenza di sé, anche se vi avessero realmente contribuito le macchinazioni del cardinale Caetani [futuro Bonifacio VIII]. Perché dunque la sua assegnazione all’inferno?
A questa domanda noi rispondiamo: per Dante l’inferno in genere non è sempre l’espressione di un vero giudizio del carattere, bensì spesso esprime il giudizio su una certa [singola] azione: e qui naturalmente il poeta non separa l’azione da chi la commette. Nel caso in questione, però, e malgrado l’apparenza contraria, non è presa di mira principalmente né la persona di Celestino, né la sua abdicazione (sebbene Dante abbia sofferto gravemente per le sue conseguenze), bensì il fatto che egli fu proclamato santo da Clemente V. Questo, infatti, e non Bonifazio VIII, è il papa del quale il poeta ha il massimo orrore; questo papa è per lui il marchio d’infamia per la Chiesa, e nessuna delle sue azioni deve quindi conservare validità e durata: ed ecco che Dante assegna all’inferno chi da lui è stato canonizzato! L’inferno di Celestino V fa parte delle proteste di Dante contro Clemente. (DT, pp. 71-72).
In sostanza, le affermazioni apparentemente eretiche di Dante non indicano che egli fu un cristiano eterodosso; al contrario, egli desiderava fortemente una profonda conversione e purificazione della Chiesa cattolica proprio perché vi si sentiva inserito, se non altro perché a questa istituzione faceva capo lʼOrdine Templare; ma non potendo esprimere esplicitamente (per ovvi motivi) le proprie convinzioni filosofico-religiose filo-templari, Dante le avrebbe segnalate in modo allusivo e velato, comprensibile soltanto dagli iniziati filo-templari come lui, mediante questo genere di sottigliezze e di contraddizioni soltanto apparenti, basate sulla comune conoscenza del coevo dibattito teologico ed ecclesiale.
Note:
24 – Il nome David, scritto in ebraico senza vocali, DWD, si scompone infatti in D (dalet) = 4 + V (vaw) = 6, + D (dalet) = 4: totale 14.
25 – Citato in Guido Armellini, Adriano Colombo, La letteratura italiana, vol. 1, Duecento e Trecento, Bologna, Zanichelli, 1999, p. 364.
26 – Piervittorio Formichetti, Il «Gran Fior» del Paradiso. Dante, la Candida Rosa e il Sacro Graal, cit., pp. 49-80.
continua…
Piervittorio Formichetti