Intervista alla Prof.ssa Rosa Ronzitti – a cura di Luca Valentini
Rosa Ronzitti, dopo aver prestato servizio presso l’Università per Stranieri di Siena come ricercatrice a tempo indeterminato, è attualmente Professore Associato di Glottologia e Linguistica presso il Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo dell’Università di Genova, dove insegna Glottologia e Sanscrito. Da anni si occupa di Indoeuropeistica, Studî Vedici, Etimologia e Indologia. È autrice di cinque monografie e ottanta articoli su riviste nazionali e internazionali.
1 – L’enorme patrimonio della cultura classica è spesso stato limitatamente analizzato negli angusti ambiti dell’archeologia o del passato immemore: quanto, invece, ritiene, secondo la sua analisi glottologica e filologica, che le fonti greco-romane siano riconducibili a un discorso più ampio di comparazione con altre tradizioni ancestrali?
Dal 1853, almeno, le lingue classiche greca e latina hanno acquistato una nuova dimensione comparativa, sulla scia della disciplina che era sorta nelle università tedesche ai primi dell’Ottocento: la Vergleichende Sprachwissenschaft –Linguistica Comparata– in Italia generalmente Glottologia o Linguistica Storica. In quella data lo studioso tedesco Adalbert Kuhn rese noto dalle pagine della sua rivista che alcune espressioni formulari contenute nei testi più antichi dell’India erano esattamente comparabili (parola per parola, fonema per fonema) a formule omeriche, laddove si intende che queste espressioni linguistiche discendevano da una “protoformula” identica, da collocare nella preistoria comune a greco e indiano antico (ben presto sono state aggiunte altre lingue indoeuropee). Egli cominciò con la formula della “gloria immortale” e, da allora, la ricerca in questo campo non si è mai arrestata, passando attraverso la celeberrima scuola dei Neogrammatici, un gruppo di giovani studiosi tedeschi che ha perfezionato il concetto di legge fonetica – l’asse portante della disciplina. Abbiamo addirittura raccolte imponenti di formule, che fanno parte di un ampio repertorio comunemente denominato “lingua poetica indoeuropea”. Le due più importanti sono state fatte da Rüdiger Schmitt nel 1967 e da Calvert Watkins nel 1995. Segnalo anche una fiorente scuola italiana, che ha avuto il suo centro a Pisa grazie a Romano Lazzeroni ed Enrico Campanile e che ha prodotto centinaia di lavori (un volume del Campanile, le Ricerche di cultura poetica indoeuropea, è stato riedito recentemente da Reina de Jancour con mia prefazione). Le tecniche della ricostruzione linguistica e della comparazione si sono affinate sempre di più. Il terreno di indagine ricomprende ormai tutti i rami della famiglia indoeuropea, anche se alcuni sono più importanti di altri perché conservano una documentazione più ricca e più antica e la struttura formulare si mantiene, ovviamente, meglio nella poesia che nella prosa. A partire dagli Anni Venti del Novecento un balzo delle conoscenze è stato compiuto grazie all’acquisizione delle tavolette ittite (peraltro l’ittito è solo una fra le numerose lingue anatoliche). In sostanza, quasi tutti i rami indoeuropei contribuiscono alla ricostruzione non solo di singole parole, ma di interi testi. In tal senso l’archeologia della parola supera l’archeologia dei manufatti. Mi spiego: con il metodo comparativo-ricostruttivo ricavo in modo piuttosto preciso la protolingua indoeuropea, mentre non abbiamo “rovine materiali” di una civiltà protoindoeuropea, men che meno iscrizioni. Possiamo sospettare che alcuni insediamenti preistorici per età e collocazione geografica siano stati creati e abitati da popoli parlanti forme di indoeuropeo anteriore alla separazione (c’è tutto un filone di studî in tal senso), tuttavia non ne abbiamo la prova. Invece le protoforme che ricostruiamo ci forniscono molti dati sulla cultura, i valori, la religione e l’immaginario di questo “protopopolo”. Il passato comune ai popoli parlanti varietà indoeuropee non è quindi affatto immemore, perché parla attraverso la ricostruzione linguistica.
2 – Nell’ambito di tale ampliamento di visuale ermeneutica, quanta importanza assume la possibilità di analisi tramite la grande ed estesa koinè indoeuropea?
Le potenzialità sono enormi: la ricerca è ancora in gran parte da fare e si ha l’impressione che tutti i rami contribuiranno via via all’accrescimento di queste conoscenze. Come dicevo, alcune tradizioni sono, per la qualità della documentazione, davvero cruciali. Mi riferisco all’indoiranico (vedico, sanscrito, avestico, antico persiano), al greco (Omero, Lirici, Orfici, Presocratici, Platone), all’anatolico (testi ittiti) e al germanico settentrionale (Edda). La situazione del latino è particolare: della fase arcaica propriamente detta ci è giunto poco (ne erano consapevoli i Romani stessi!), ma una certa tradizione poetica (Virgilio), grammaticale (Varrone) e tanti commentatori e autori del tardo antico (Servio, Macrobio) ci permettono di farci un quadro della Roma arcaica che ha spiccatissime somiglianze rituali con quello dell’India antica. Quando si parla di koinè bisogna però fare attenzione: la parola koinè può dare l’idea di qualcosa che si è mescolato a posteriori. Il punto di partenza della Glottologia a base tedesca è invece l’opposto: esisteva una protolingua, presumibilmente più antica di quello che immaginiamo, poi separatasi in rami (gli indoeuropei regionali) e quindi mescolatasi, ovviamente, con tradizioni non indoeuropee e addirittura, per osmosi storica e geografica, con altre tradizioni indoeuropee seriori. Per questo motivo ho scritto che “le differenze fra culture geneticamente imparentate e non più in contatto diretto possono essere recenti, mentre le somiglianze si rivelano antiche”. Il tema della protopatria e della sua collocazione occupa tuttora un grande spazio nel dibattito sull’origine degli Indoeuropei. Ci sono interessanti indagini pionieristiche che retrodatano di molto l’unità indoeuropea e, inoltre, propongono nuove interpretazioni di cose note: la recente scoperta in una tavoletta sumerica di due toponimi vallindi del terzo millennio a.C. chiaramente indoeuropei apre alla possibilità che la valle dell’Indo fosse già abitata proprio da questi popoli e non, come comunemente si crede, da popolazioni non-indoeuropee. Inoltre, in tavolette eblaitiche del 2355-2335 a.C. sono presenti forme di onomastica anatolica (le lingue anatoliche sono testimoniate direttamente solo dal secondo millennio a.C.).
3 – La linguistica, la religiosità e le testimonianze di una grande e poliedrica tradizione indoeuropea perché, secondo lei, incontrano tanto ostracismo in ambito accademico e di studi delle civiltà antiche in generale?
Qui il discorso diventa complesso e delicato. Si scivola in vicende che più nulla hanno a che fare con la scienza e il rigore degli argomenti. L’onda culturalmente distruttiva che ha percorso l’Europa soprattutto dagli Anni Sessanta in poi ha travolto gli studî di natura storica e antichistica. La fascinazione che il Nazismo provò per la Glottologia, nel tentativo di associare alla lingua indoeuropea una razza indoeuropea, ha ovviamente nuociuto alla fama della materia. Vi furono a seguire notissime polemiche sull’opera di Georges Dumézil, il grande linguista francese accusato di simpatie ambigue, e sull’operato di alcuni indoeuropeisti (non solo del dodicennio 1933-1945). Naturalmente queste accuse sono ridicole e pretestuose. Molti glottologi furono ebrei e patirono persecuzioni, esilio, emarginazione. Voglio anche ricordare la figura di Albert Debrunner, svizzero protestante, cristianista e indologo, che abbandonò la prestigiosa cattedra di Vergleichende Sprachwissenschaft a Jena nel 1935 per spiccate posizioni antinaziste: egli è l’autore di uno dei più bei libri di linguistica storica mai scritti, il volume II/2 della Altindische Grammatik (1950) – capolavoro insuperato e insuperabile della Glottologia in lingua tedesca (e non solo). Il problema è che a questo “stigma” ideologico si è unito, negli ultimi decenni, un pauroso degrado della cultura umanistica proprio nella sua culla, ovvero l’Europa continentale e mediterranea. L’emarginazione scolastica delle discipline che hanno formato la nostra civiltà, subdolamente e falsamente presentate in antitesi con quelle scientifiche, ha ridotto il numero degli studenti e la loro preparazione. In alcune sedi la materia è stata spenta, in altre si è trasformata, nel senso che per adeguarsi alle conoscenze degli studenti gli studî di linguistica assumono aspetti e forme che nulla hanno a che vedere con la Glottologia propriamente detta (e a volte neppure con la Linguistica Generale, sua sorella “moderna”). Un settore così importante e formativo diventa marginale, ridotto, sospetto e come tale eliminabile al primo refolo di vento avverso. L’abbattimento delle conoscenze è stato praticato ovunque in Occidente con una certa ferocia ideologica. È su questo che varrebbe la pena di far polemica e non sulle inclinazioni politiche degli studiosi (gran parte dei medici tedeschi aderì al Nazismo – si è forse proposto di abolire la Medicina?). La Glottologia fornisce agli studenti un metodo scientifico e una prospettiva che sono un valore aggiunto della formazione umanistica: il metodo di ricostruzione etimologica, essendo scientifico perché predittivo e sottoponibile a falsificazione, è uno strumento critico indispensabile (ancora oggi si leggono ovunque etimologie grottesche, che ignorano 150 anni di studî glottologici); i concetti di famiglia linguistica, indoeuropeo, legge fonetica e asse genetico dovrebbero appartenere a qualsiasi persona umanisticamente istruita che abiti oggi l’Eurasia, spazio geopolitico di cruciale importanza. Il fatto è che la base di partenza minima, ovvero la conoscenza del greco, del latino e del sanscrito, richiede studenti sempre più rari da trovare e si assiste quindi al fenomeno che ho sopra descritto: trasformazione dei contenuti della materia in altri contenuti più generici. La formazione di un linguista storico è lunga e rigorosa e richiede l’acquisizione di conoscenze tecniche molto precise che riguardano le leggi fonetiche, la morfologia ricostruita del nome e del verbo, la sintassi e persino l’etnoantropologia delle società antiche. Solo dopo anni si studio è possibile arrivare al livello della ricostruzione testuale e culturale del protoindoeuropeo.
4 – Si è occupata, anche tramite saggi apparsi su Pagine Filosofali, della valenza non solo semantica, ma anche sostanziale di alcune costanti “spirituali” comuni al mondo grecoromano e al mondo indiano, vedico o post- vedico: vi sono degli archetipi in tali comparazioni che emergono e che è necessario valorizzare nell’ambito dei suoi studî di Glottologia?
Assolutamente sì. In tal senso si sono indirizzate molte delle mie ricerche che qui riassumo velocemente: il mito del diluvio, dell’età dell’oro, l’allegoria del carro, l’immagine dell’albero rovesciato e dell’uomo nel pozzo, il rito dello sposalizio con la conoscenza, la descrizione dell’inferno, alcuni aspetti della cosmologia e dell’escatologia. Si tratta di veri e propri fondamenti del sapere umano, ma bisogna qui operare una distinzione cruciale: alcuni di questi contenuti sono certamente universali o, almeno, non esclusivamente indoeuropei (il diluvio, per esempio) e molti sono sicuramente archetipici (la simbologia dell’albero), ma il tentativo che fa un glottologo orientato alla ricostruzione linguistica testuale è ricavare temi e testi che assumono uno specifico aspetto formale indoeuropeo. Così, per esempio, comparando il famosissimo brano platonico del carro nel Fedro con l’analogo discorso di Yama (dio dei morti) della Kaṭha Upaniṣad si ricava non solo l’impressione di una somiglianza sorprendente, del resto da tempo oggetto di mille interrogativi circa la sua origine, ma che sia Platone sia l’autore indiano sembrano riecheggiare, nella descrizione rispettivamente dell’iperuranio/paradiso di Viṣṇu, una sorta di poema in versi sul divino. Il tutto ho cercato di dimostrare nel saggio “Platone, l’Oriente, il carro alato”, in Vie della Tradizione. Rassegna semestrale di orientamenti tradizionali, uscito nel 2019. Esistevano sicuramente immagini di tipo sapienziale che erano oggetto di allegorie spiegate da maestri ad allievi e tramandate in circoli ristretti di tipo sacerdotalpoetico (India, Roma, popoli germanici) e filosofico (Grecia): ciò che possiamo comparare è verosimilmente il resto di questi insegnamenti preistorici, resto che, paradossalmente, assume l’aspetto di qualcosa di arcaico nelle culture antiche, mentre da un punto di vista indoeuropeistico è la sopravvivenza più recente di un processo lunghissimo e sconosciuto di trasmissione dapprima nella protolingua, poi negli indoeuropei regionali e infine nelle varietà storiche: Platone, da questo punto di vista, è fra gli ultimi grandi brāhmaṇi della tradizione eurasiatica. Ci sono anche settori della ricerca meno battuti perché appartengono al mondo domestico, per esempio formule di maledizione e persino filastrocche per addormentare i bambini. Io stessa mi sono occupata di comparare un ritmo di ninna nanna contenuto in un inno vedico, in Simonide e in una tavoletta ittita (l’articolo “Is it possible to reconstruct Indo-European lullabies?” è uscito nel 2017 sull’Indo-Iranian Journal); ho inoltre svolto ricerche analoghe sui canti di lavoro e devo dire che una delle comparazioni più sorprendenti in cui mi sia mai imbattuta è stata quella fra un poema eddico minore (il Grottasǫngr ‘Canto del mulino’) e un passo dell’Odissea (libro XX), che hanno entrambi per tema lo sfruttamento del lavoro femminile e sembrano, per così dire, la versione bilingue di uno stesso soggetto.
5 – Oltre alla filologia e all’archeologia, nei suoi studi ha approfondito anche le assonanze astronomiche e simboliche che si sono palesate nelle diverse civiltà indoeuropee: quanto il cielo ed i miti che lo rappresentano possono disvelarci gli arcani dell’anima profonda del passato?
Lo studio dei nomi di astri e costellazioni è un capitolo affascinante della ricerca linguistica: in genere si distingue fra denominazioni colte e denominazioni popolari, le prime essendo in Occidente di origine grecolatina o araba, le seconde appartenenti a civiltà rurali e a culture popolari (in termini marxiani: subalterne). Sugli astri indoeuropei non si è scritto moltissimo per svariati motivi: la comparazione di astronimi, tolti i luminari maggiori, non porta a grossi risultati e la visione indoeuropea del cielo non conduce a una religione propriamente astrale, ma piuttosto celeste e solare (quest’ultima in verità piuttosto sbiadita già in fasi arcaiche delle singole culture, che privilegiano divinità encoriche). I numerosi catasterismi di cui ci narra la cultura ellenistica sembrano narrazioni mitologiche legate a fasi mature del mondo classico e non paiono quindi ereditarî. Vi è però un’eccezione piuttosto importante: fra gli inni scritti in avestico, la varietà iranica più antica a noi conosciuta (forse prima metà del primo millennio avanti Cristo), se ne trova uno dedicato a Sirio e si comprende che questa stella, immaginata come un guerriero che lotta contro il demone della siccità e contro le stelle cadenti, ha un ciclo mitologico suo proprio (in Italia se ne è occupato a fondo il Prof. Antonio Panaino). Il nome iranico è Tištrya (forse ‘dalle tre stelle’ = la cintura di Orione), che potrebbe avere un riscontro nell’antroponimo vedico Tisya, un eroe menzionato alcune volte nella letteratura indiana più antica. L’impressione è, però, che l’Iran debba la sua tradizione astrale a quella babilonese o “caldea”, a sua volta tributaria di quella sumerica. I magi, sacerdoti iranici, vennero considerati nel mondo ellenistico esperti di astri e il nome stesso del profeta Zarathustra fu deformato in Zoroastro per influsso della parola greca ἄστρον. È un caso in cui si vede la commistione fra culture: gli iranici, parlanti una lingua indoeuropea del ramo indoario, ereditano e proseguono la grande tradizione astrologica sumero-babilonese. Per quanto riguarda invece le denominazioni cosiddette popolari degli astri, una ricognizione appena superficiale dei dialetti neolatini rivela miniere in parte ancora inesplorate. In questo campo sono state fatte ricerche sui nomi di Orione, delle Pleiadi, di Sirio etc. Personalmente ho approfondito una denominazione popolare della Via Lattea, ovvero La via della paglia, trovandone testimonianze (non letterarie, bensì folkloriche) lungo un continuum che va dalla Sardegna all’Iran: questo studio è ora in corso di stampa presso una rivista tedesca.
6 – Anche la letteratura italiana ed europea, nelle sue narrazioni, nelle sue intuizioni, ha saputo perpetuare un retaggio di conoscenze ancestrali riconducibili alle tematiche e alle tradizioni da Lei analizzate: è un campo di studio assolutamente innovativo e pensa ci siano ancora margini di approfondimento?
In realtà l’idea di scorgere una linea ininterrotta che dalla preistoria arriva fino alle soglie del mondo moderno (la rivoluzione industriale, specie dopo il XIX secolo, ha distrutto l’assetto sociale ed economico dell’Occidente e con esso molte conoscenze di tipo tradizionale) è stata a lungo coltivata dallo studioso Mario Alinei (1926-2018), il quale partiva però da una concezione per svariati motivi inaccettabile e già criticata, ovvero la retrodatazione dei dialetti romanzi a millenni prima dell’epoca del latino (essa è nota come la Teoria della Continuità Paleolitica). Alinei ha scritto centinaia di articoli per dimostrare che termini dialettali, folklore locale, sistemi di parentela, di antroponimia, di zoonimia sono organizzati su basi prelatine (addirittura risalenti al Paleolitico) oppure latine ma non letterarie, bensì popolari e sotterranee. Partendo dai presupposti del materialismo dialettico, lo studioso mostra che le cosiddette classi subalterne, rimaste fuori dai processi di livellamento, razionalizzazione, cancellazione culturale, hanno avuto un ruolo straordinario nel conservarci un’antichità che altrimenti non ci sarebbe pervenuta. Strumento di questo approccio sono i cosiddetti atlanti linguistici, carte dialettali che coprono ormai tutta l’Europa e che mostrano il modo in cui un determinato referente o concetto si denomina secondo l’area geografica. Ricomprendere il patrimonio dialettale nell’indoeuropeistica è un percorso da tenere in seria considerazione: Dialettologia e Glottologia non dialogano molto perché si assume che la complessità, la recenziorità e la variabilità dei dialetti escano dal campo d’azione delle leggi fonetiche. Inoltre lo studio del folklore dialettale in relazione a fasi più antiche è in genere appannaggio degli etnoantropologi, che privilegiano i contenuti e non l’indagine onomasiologica. Più volte viene, però, il sospetto che certo materiale romanzo, la cui facies linguistica è beninteso neolatina, provenga da tradizioni anteriori al latino o collaterali. Come dicevo prima, ho provato a mettere lungo un asse diacronico diverse testimonianze letterarie di canti di lavoro (ancora cantati nelle nostre zone rurali fino agli Anni Sessanta del Novecento) a partire da attestazioni tratte da testi indiani antichi, germanici, greci e latini trovando una continuità di moduli espressivi davvero notevole. Per passare alla letteratura cosiddetta “alta”: in essa sono senz’altro rielaborate e introdotte conoscenze ancestrali che provengono da un’unità indoeuropea, ma non è semplice discernerle. Mi spiego: i cosiddetti temi “orientali” che si trovano nel Medioevo europeo sono davvero frutto di contatti recenziori o corrono invece lungo gli assi genetici a partire da forme unitarie protoindoeuropee? È una domanda che vale la pena di farsi ogni volta che ci troviamo di fronte a comparazioni di una precisione impressionante, anche con riscontri linguistici di lessemi e radici. Ho già detto, a proposito di Platone, che il discorso delle somiglianze è stato più volte impostato e non sempre del tutto risolto. Si può aggiungere un altro esempio: il famoso apologo dell’uomo che cade nel pozzo perché viene inseguito da una belva feroce è stato portato in Occidente attraverso il romanzo di Barlaam e Ioasaf (scritto in greco bizantino, XI secolo), che rifà la storia del Buddha e la diffonde nel Mediterraneo. In realtà l’apologo sorge da una versione molto più antica raccontata nel Mahābhārata indiano e proprio in questa versione (non in quelle buddhiste) ha molti punti di contatto con il primo canto della Divina Commedia: sono contatti puntuali, anche di lessemi (ne ho scritto in “Su alcune congruenze fra il prologo della Divina Commedia e il libro XI del Mahābhārata: problemi e ipotesi”, in Campi immaginabili. Rivista semestrale di cultura 2018). Mi sono anche occupata di un tema lirico manzoniano, il famoso Addio ai monti recitato da Lucia nei Promessi Sposi, per metterlo a confronto con l’addio di Sīta ai suoi luoghi natìi nel Rāmāyaṇa (“Trame parallele: dal Rāmāyaṇa a I promessi sposi”, in Campi immaginabili. Rivista semestrale di cultura 2020), nell’ambito di una reinterpretazione del capolavoro manzoniano come storia di un matrimonio per ratto (che è un tema tipicamente indoeuropeo). Che conclusioni dobbiamo trarne? È la persistenza diacronica di nuclei narrativi protoindoeuropei o la riproposizione ciclica di archetipi o sono, infine, coincidenze casuali? C’è ancora molto lavoro da fare ed è un lavoro interdisciplinare, al confine tra la Glottologia e la Comparatistica. La suddivisione in settori scientifico disciplinari delle materie accademiche non incoraggia purtroppo questo tipo di ricerche.
7 – Infine, nel ringraziarla per questa intervista, può preannunciarci le sue future investigazioni glottologiche e le sue prossime pubblicazioni?
Nell’ambito del Progetto di Interesse Nazionale che è stato vinto quest’anno da 5 unità di ricerca, tra cui quella di cui faccio parte, intraprenderò con i colleghi di Cagliari, Milano, Pisa e Roma la traduzione e il commento dell’Atharvaveda (prima metà), la più antica raccolta di inni magici giuntaci in una lingua indoeuropea, il vedico. La scuola indologica italiana, che conta un buon numero di docenti giovani e alcune eccellenze, si potrà fregiare di un lavoro prestigioso che verrà svolto a stretto contatto con docenti di altre università europee. Nel frattempo prosegue la pubblicazione della rivista scientifica Lumina: Studi di Linguistica Storica e di Letteratura Comparata, da me co-diretta. È, questo, un progetto editoriale fondato con Simone Turco nel 2017 e giunto ormai al sesto numero. Con il Dottor Turco, anglista e comparatista, abbiamo voluto dare vita a una pubblicazione periodica per continuare l’opera della nostra comune maestra, Enrica Salvaneschi, che ha insegnato per 40 anni Semantica e Letterature Comparate all’Università di Genova e rappresenta per noi e per tutti i suoi numerosi allievi un modello di lavoro e di vita. Si tratta di temi volutamente alti, che vanno dall’antichità ai giorni nostri, senza alcuna concessione alle mode e al politicamente corretto. Siamo molto soddisfatti dal riscontro che sta avendo questa nostra proposta, incentrata sui valori umanistici forti della cultura europea ed extraeuropea. Il momento di crollo è evidente a chiunque, ma speriamo di dare un esempio, per quanto piccolo, di non adeguamento allo squallore del presente.
Ringrazio Luca Valentini e tutti coloro che leggeranno questa intervista. Gran parte delle mie pubblicazioni è disponibile sulla pagina personale del sito Academia.edu.