La sincope dell’Occidente: le radici cristiane del mondo moderno – Giandomenico Casalino
“..il cristianesimo si presenta come una forma disperata di dionisismo. Formatosi essenzialmente in vista di un tipo umano spezzato, esso fece leva sulla parte irrazionale dell’essere e al luogo delle vie dell’elevazione <<eroica>>, sapienziale ed iniziatica, pose come organo fondamentale la fede, l’empito di un’anima agitata e sconvolta spinta confusamente verso il soprannaturale“ [1].
Il concetto di “actus essendi”[2]proviene dal dualismo cristiano e risiede nel pensare alla possibilità che l’essere debba essere o, in termini creazionistici, pensare all’atto creativo (per pura volontà del Dio ebraico-cristiano) di ciò che deve essere (non per necessità intrinseca al mondo ma sempre per volontà del Dio…); pensiero che Suarez svilupperà, inaugurando il soggettivismo noetico[3] moderno, affermando che l’ente può anche non esistere! La radice di tale astrazione antireale consiste nella distinzione operata da Tommaso (in virtù del suo creazionismo) tra essenza ed actus essendi: l’essenza è il mondo delle forme che Tommaso, negando Aristotele, considera addirittura come quello della “potenza” cui solo l’actus essendi (operato dal Dio cristiano) conferisce concreta realtà agli enti determinati. È qui che nasce la modernità. Infatti tale dualismo cristiano anticipa quello che sarà il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, per la semplice ragione che Aristotele (e tutta la grecità come per dire la visione indoeuropea del mondo) considera l’essenza tutt’uno nell’esistenza della sostanza reale e la sostanza individuale stessa fa riferimento ad una struttura gerarchica di realtà formali. Per Aristotele l’ enérgheia come atto (attuosità dell’ente…) coincide solo con l’esistente e cioè con il necessario. In Tommaso è l’atto creativo (divino) che fa passare la forma dalla potenza all’atto dell’esistenza della sostanza individua, la cui necessità non è in re ipsa e per se ipsam (come per Aristotele) ma è “necessità” relativa poiché atto di donazione di Dio ed effettuale a ciò che potrebbe o avrebbe potuto anche non conferirle la esistenza individuale e cioè all’atto creativo che pur definendosi “essendi” lo è solo nel senso esplicato. Ora, la separazione tra il mondo delle forme, considerato addirittura il mondo della potenza, e il mondo dell’atto, capovolgendo così Aristotele dove la forma è l’atto – è inevitabile in Tommaso poiché da cristiano e quindi secondo il pensiero dualistico tipico del creazionismo, l’attuosità dell’atto non può essere più potenza (dýnamis) insita (non-duale) nella forma medesima, anzi non può essere più la stessa natura, funzione, essenza intima della forma – che per il Greco è divina- ma sarà potenza-dýnamis in “possesso” solo del Principio (Dio) della esistenza stessa delle forme, poiché esse non hanno vita per sé ma solo poiché è il Dio creatore che gliela dona, facendole passare dalla potenza all’atto.
Tutto ciò è radicalmente estraneo alla spiritualità greca (e cioè indoeuropea) la quale ha sempre affermato, con serena consapevolezza, che la Forma è eterna e nessuno l’ha mai creata e, pertanto, lo svolgimento logico e metafisico di tale pensiero, è stato esplicitato da Hegel nella seguente guisa: esso consta di due “momenti”, il primo è l’ essere-in-sé,facoltà, attitudine, dýnamis-potenza; l’altro è l’essere-per-sé,attualità, effettualità, enérgheia, di modo che ciò che è non può non essere e non può essere se non ciò che è; ed Hegel, da buon greco, chiosa tale pensiero, tematizzando la identità tra essere e dover essere, chiudendo così la porta a qualsiasi “romantico” e “dionisiaco” concetto di infinito! Il pensiero non-duale, qualità intrinseca alla visione del mondo indoeuropea, è effettuale all’assenza, naturale in ogni vera Tradizione metafisica, di ogni credenza creazionistica, poiché vi è la conoscenza, gnosi, che il Cosmo è eterno, essendo divino ed è perfetto in ogni suo punto e aspetto, nulla mancando ad esso, altrimenti mancherebbe di qualcosa e non sarebbe divino; tanto che se esso è Divino, il Divino è nel mondo anzi vi si identifica e, pertanto, il cosmo è immerso nell’anima come la rete nel mare (Plotino), l’anima pertanto è il corpo animato, la Res publica, o la Polis, sono la Comunità degli Dei e degli Uomini (mai la cultura indoeuropea avrebbe potuto immaginare l’allucinazione agostiniana della “città di Dio” contrapposta, “altra” nei confronti di quella “cosiddetta degli uomini”…) dove gli Dei abitano e vivono con gli uomini e le donne, avendo i loro diritti e statuti, onori e “spazi” cioè majestates. La natura è, pertanto, divina nella sua Idea o meglio la Idea della natura, come campo molteplice delle forme luminose della Vita, è Divina, il Pensiero è la Intelligenza nella e della Natura e il Sacro si “crea” (nel significato esoterico e rituale del concetto), si rinnova, si conosce e si onora con il Rito, nella e tra la Natura, i boschi e le foreste e nei templi le cui colonne ricordano proprio la sequela degli alberi di quelle foreste primordiali dove, nella più alta preistoria dell’Heimat originaria indoeuropea, venivano celebrati i Riti della religiosità cosmica e della spiritualità nordica.
La Forma è nella esistenza, è Forma della esistenza, poiché essenza ed esistenza coincidono nella necessità del mondo (visione sapienziale confermata nella modernità solo da Spinoza ed Hegel; sul punto vedi G. Casalino, Sul Fondamento. Pensare l’Assoluto come Risultato, Genova 2014) e degli enti, delle sostanze individue, dove la loro Forma, esplicita Hegel, è l’essenza del e nel processo che giunge al Risultato, il quale, che è l’Assoluto, è presente da sempre cioè dall’Inizio, in quanto Essenza eterna che è nella esistenza ma, al contempo, ne è “fuori”, non nel senso “dualistico” come “oltre” ma nel senso che l’ente partecipa della Forma ma non è la Forma, come il divenire partecipa dell’Essere ma non è l’Essere, il Tempo partecipa dell’Istante ma non è l’Istante; tutte sono immagini mobili (e quindi le uniche realtà visibili…) di “qualcosa”, la Forma, che è intelligibile, “visibile” all’occhio dello Spirito, al noéin, non all’occhio fisico, pur essendo unita da sempre alla sua immagine. Essa per l’uomo non può che essere tale, per l’uomo che così pensa e vede; mentre se fosse possibile fare proprio il punto di vista degli Dei, del Dio greco per eccellenza, Apollo, la cosa unicamente vera e potentemente esistente è la Forma, anche se di quella individua sostanza, poiché il Dio indoeuropeo, essendo Luce e Vita, non può vedere e quindi conoscere il movimento, il non-essere, il diverso, la morte come frattura, dissociazione, nonostante egli dia la morte, ma con l’arco e cioè da lontano. Ecco perché sia Platone[4] che Aristotele[5] nel concetto della omologazione agli Dei (omòiosis theò) vogliono esprimere proprio l’idea del fare proprio, anche se per un Istante (che nel Dio è l’Eternità) il punto di vista divino che è il Pensiero di se stesso, ossia il nous che vede il nous e solo il nous, cioè la Forma intelligibile che vede e conosce solo la Forma intelligibile, poiché il Mondo è Forma intelligibile che conosce se stessa, è Pensiero di Pensiero, è contemplazione di se medesimo come essenza universale, è ciò a cui invita, esorta e ricorda il Signore di Delfi: conosci te stesso! Tale Legge che altro è se non il Dire: sii, anche per un Istante, nel quale sarai nell’Eterno, Pensiero di Pensiero, Contemplazione pura e felice; sii quello che Plotino, secondo sia quanto egli stesso attesta che quanto riferisce Porfirio, è stato, anche se per attimi, cioè Uno, dove il Due, l’Altro, il Movimento, lo Specchio, sono stati riconosciuti come tali e lasciati alle spalle e, dopo aver visto tutti i simulacri, ci si è trovati “da solo a solo” con Lui, con l’Uno, identificandovisi e cioè semplificandovisi.
Nel momento, però, in cui il mondo cristiano ha avvertito la necessità filosofica, tentando di attenuare le conseguenze teoretiche del dualismo, di porre il problema del rapporto tra Idea e realtà, tra Pensiero-Pensato e mondo, tra il pensare Dio, tra Dio come pensiero e la oggettività come esistenza dello stesso, in quel momento il dualismo cristiano mostra i suoi limiti e tenta di uscire dall’aporia. Ciò inizia già con Anselmo[6] e con tutta la vicenda della cosiddetta “prova ontologica”. Sul punto ha indubbiamente visto giusto Hegel il quale discute il fatto relativo all’affermazione (e dimostrazione), oggetti dell’argomento ontologico, che l’Idea di Dio non può non avere oltre che essenza, sul piano del pensiero e cioè dell’idea, anche esistenza nella oggettività concreta ed a tale ragionamento obietta che, se è giusto e corretto porre la questione in tali termini, è, comunque, inadeguato e inefficace porla in guisa problematica, considerando, dualisticamente, i due poli (essenza-idea-pensiero ed esistenza-oggetto concreto) come due realtà separate; ciò significa infatti guardarli con l’intelletto e non con la Ragione (che è la autentica speculazione), inducendo a non vedere la Realtà Unitaria degli stessi che sono, pertanto, “momenti”, in tensione, nell’Unità del Principio, il quale vive anzi è il mutarsi di quei “momenti” che, come dice Platone nel Parmenide, non mutano se non nell’Istante che è l’Eterno. Hegel, nonostante tutto il suo sistema possa intendersi una nuova e diversa “prova ontologica” dell’esistenza di Dio[7], non ritiene pertanto sufficientemente adeguato il ragionamento che sta alla base della storica “prova ontologica”, per la ragione che l’identità (Pensiero-Essere) è “costruita”, è astratta, è come aggiunta all’intero sistema; i due concetti sono cioè “aggiunti” l’uno all’altro. La quaestio, secondo Hegel, il quale rinnova in cotal guisa il sistema di pensiero dei Greci, consiste non nell’annullare le differenze e le distinzioni tra Pensiero-concetto ed Essere ma anzi nel far valere al massimo i loro diritti e «…si mostri che il finito non è il vero, che queste determinazioni sono per sé unilaterali e nulle e che l’identità, quindi, è un ‘identità per cui quelle determinazioni stesse passano e in cui esse sono conciliate,..»[8].
La visione del mondo indoeuropea, cioè dei Greci come dei Romani, in quanto non-dualista, non è stata mai preda di tale aporia, che è conseguenza filosofica, cioè concettuale, della fede nel creazionismo. Se la forma, infatti, l’essenza, l’idea, il concetto sono “frutto” della volontà creatrice del Dio, quale “rapporto” vi sarà tra esse e la “materia bruta” che è anch’ essa “frutto” della creazione? E le forme-essenze-pensieri-idee “esistendo” potenzialmente (Tommaso) dall’eternità solo nella mente del Dio cristiano, come possono poi passare ad essere nell’esistenza? E la “materia” informata come può essere la stessa cosa della forma? E il Dio, se è “altro” dal mondo, che è sua creazione, come si dimostra, filosoficamente, la sua esistenza, come anche quella del mondo? Tali sono le aporie del dualismo, monoteistico e creazionistico, peraltro intrinsecamente ateo e nichilista[9]. Esso si fonda infatti sulla credenza (pistis) che il mondo è privo di anima ed è quindi senza il Divino.
Anzi si può dire che, come tutta la spiritualità asiatica, tale convinzione è, nella sostanza, una forma di acosmismo: il cosmo è una non-realtà per due ordini di ragioni che sono una effettuale all’altra. La prima è che il mondo è creato, la conseguenza di ciò è che l’anima, la vita, il divino non sono il mondo stesso nella sua più intima natura ma sono “qualcosa” che non ha nessuna relazione con la “materia”, con la “natura”, essendo la stessa priva di qualsiasi sacralità. L’acosmismo cristiano, simile a quello ebraico ed a tutta la spiritualità orientale (Vedanta…), consiste pertanto nel considerare unica realtà che è essere, anzi l’unico Essere, poiché è Pensiero, Forma, Idea e Concetto, il Dio che è da sempre, mentre il mondo, l’esistenza è talmente transeunte (può o sarebbe potuta anche non esistere) che è il non-essere e quindi non ha l’essere per sé e da sé. Da tutto ciò discenderà poi, in Tommaso, il concetto di actus essendi e la problematica ad esso connessa. La religione acosmica è, pertanto, come forma dello spirito e nella sua intima natura, internazionale ed apolide poiché è staccata da qualsiasi Ethnos, da tutte le identità dei popoli, da qualsiasi Tradizione, è lontana e nemica della Terra e pretende, nel suo utopico universalismo astratto, che tutti i popoli siano strappati dalla vita, dallo Stato, dal mondo; che tutti i popoli siano privati delle loro identità; così avranno, devono avere un’unica identità, quella del Dio unico, un’unica patria, che è quella celeste, sovraterrena, “altra” dal mondo, un unico “stato” che è la cosiddetta Città di Dio (per Agostino, infatti, lo Stato è un’associazione a delinquere e ciò ab origine). Saranno assorbiti, pertanto,tutti i popoli, dalla Entità antimondana e, nel momento storico in cui l’evento psichico fede scompare, si manifestano tanto la secolarizzazione che il nichilismo che sono questo stesso “discorso” però mondanizzato, laicizzato ed è infatti la modernità (illuminismo, marxismo, liberalcapitalismo) e la sua utopica ubiquità apolide, cioè l’ideologia perversa del Mondialismo dell’alta Banca[10].
Note:
[1] JULIUS EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1993, p. 342;
[2] TOMMASO D’AQUINO, L’ente e l’essenza, Milano 2002;
N. COLAFATI, L’actus essendi in Tommaso D’Aquino, Catanzaro 1992;
[3] Suarez fonda e tematizza la prima forma moderna di noetizzazione dell’ente reale: questo diviene cioè un ente di pensiero. Vedi F. SUAREZ, Disputazioni metafisiche, Milano 2007; J.F. COURTINE, Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta di Suarez, Milano 1999;
[4] Teeteto, 176a – 177b;
[5] Etica Nicomachea, V17 e X7-8;
[6] ANSELMO D’AOSTA, Proslogion, Milano 1992;
[7] Se per Tommaso D’Aquino l’epistème è una parte della scienza teologica, essendo “ancilla” della stessa, per Hegel, invece, la vera scienza teologica è l’epistème: l’autentica teologia non può che essere, quindi, teosofia, in ciò riaffermando le ragioni della sapienza ellenica, da Platone a Proclo. Vedi G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, Bari 2004, Tomo Primo, pag. 31;
[8] G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle Scienze filosofiche, Torino 2000, par. 193, p. 419;
[9] H. CORBIN, Il paradosso del monoteismo, Genova 1986, pp. 131 ss..;
[10] G. CASALINO, Tradizione classica ed era economicistica, Lecce 2006.
Giandomenico Casalino