Quale umanità nel XXI secolo? – Simone Santamato
Nella storia della filosofia, magari sottintesa o data per scontata, è da sempre presente la categoria della soggettività. A prescindere da quanto ogni momento culturale abbia potuto esporla, il fatto di pensare è sempre riferito a una soggettività e l’umano, nello specifico, non può che essere un soggetto pensante. Tra l’altro, essendo una forma esistenzialmente attiva e pensante, può rapportarsi alle cose in modo consapevole, usandole tecnicamente (vedi M. Heidegger, Essere e tempo, §15; §22). Insomma, l’accesso al mondo è scortato da soggettività che lo pensano e ne riadattano la dura materialità ai loro concetti. Tra le varie caratteristiche dei soggetti, la lingua è quella che più evolve: in quanto struttura dinamica rielabora le parole per i tempi correnti ma, nel processo, può capitare che si perda o scarichi il significato originale di qualche termine. Per questa motivazione, ricorrere all’etimologia può rappresentare un’utile via interpretativa: capita che con essa si ricucia lo strappo del tempo, ricostruendo il significato originario di un termine. O quantomeno, può essere un’opportunità mica da poco per immergersi nell’intimità delle espressioni di oggi.
Nel corso di questo articolo ci occuperemo dei soggetti cercando di comprendere cosa ne vada della loro integrità nel mondo contemporaneo. Se davvero mediante l’etimologia è possibile, come detto, aprire linee di interpretazione più nitide, sarebbe bene esaminare il termine “soggetto”.
La sua etimologia, riporta il vocabolario Treccani nell’apposito lemma, indica ciò che sottostà, quel che soggiace o, meglio, giace sotto. Con termini più filosofici il soggetto sarebbe, dunque, la sostanza. Seguendo il Dizionario di filosofia (Rizzoli, Milano 1976), la sostanza è il permanere sotto il mutamento degli attributi, nonché gode del carattere della stabilità. Mi verrebbe: esprime il criterio della fissità. Il soggetto è internamente immobile, e dispiega la sua personalità con una determinatezza temprata dalla sua esistenza: non è possibile che io sia altri che me stesso. Certe volte, preme dirlo, questa puntualità è stata vista come una costrizione che porta alla disperazione: quella di non voler essere sé stessi (vedi S. Kierkegaard, La malattia mortale, Mondadori, Milano 2019).
Malgrado questo, o forse proprio per questo, la soggettività è il perno su cui poggia la realtà, quella che riguarda ognuno di noi nella sua unicità. Se è vero che il soggetto è sostanza, e dunque è interiormente fisso, è pure vero che ognuno sia un soggetto per sé e rappresenta, per così dire, un’irripetibilità esistenziale. Non è possibile che si diano due esistenze identiche in quanto chiunque incarna una forma specifica, data dalle sue sembianze e dall’insostituibile quotidianità della sua vita. È certamente possibile vivere gli stessi eventi di qualcun altro, o ancora è probabile vivere con altri un certo momento, ma pure nella condivisione ogni soggetto vive l’accadere con la sua propria unicità.
Oggi l’integrità del soggetto, ovvero le sue fissità e determinatezza, sono minacciate. Il mondo contemporaneo, che incapsula visioni megalomane e globalizzate, stringe i soggetti, incastrandoli in una dilatazione che ne sfibra la sostanza. L’attualità non chiude le soggettività in un individualismo sfrenato – come alcuni dicono – ma proprio all’opposto penso ne allarghi a dismisura il tessuto, strappandone la fibra.
Facciamo un passo indietro: in che modo la globalizzazione intacca la natura dei soggetti? Ebbene, la si può pensare così: la logica globalizzata del XXI secolo muove da alcuni presupposti fondamentali, uno dei quali sarebbe la necessità di avere individui (che già nel loro corredo etimologico prevedono l’indivisibilità) espansi e costantemente connessi. Bisogna dirla tutta: il mondo ha cominciato ad aprirsi ben prima che gli uomini avessero l’occasione di essere online; può essere utile pensare agli imperialismi dell’ottocento, così come alle industrializzazioni dello stesso secolo che, mano a mano, hanno contribuito a uniformare la condizione tecnologica delle Nazioni. Eppure si farebbe un errore a credere che questo tipo di aspirazioni abbia esaurito la propria energia a seguito della Seconda Guerra Mondiale o della Guerra Fredda. Quello che penso, diversamente, è che oggi si presentino sotto forme diverse, riconoscibili solo se messe a fuoco.
La globalizzazione dei nostri tempi poggia, come detto, sulla connessione delle soggettività. Ci sono svariati modi per rimanere in contatto, il primo a cui si può subito pensare è internet. L’internet è una rete di interconnessioni che ha per oggetto gli individui: si tratta di saldare l’ingombro del corpo, quello che non permetterebbe di stare tutti insieme in uno stesso luogo perché alla fine non ci sarebbe più spazio. Internet risolve proprio questo inconveniente, specie considerandone il lato della socialità virtuale: il mondo intero è nello stesso luogo e può comunicare istantaneamente.
Detto questo, quella dell’internet deve essere intesa come una realtà di massa, o direi meglio come un ammasso di realtà con-fuse: i soggetti si diluiscono nella realtà “internettiana”, aderendo a una vulgata che promuove la collettività a scapito della specificità. Lo abbiamo detto: il soggetto è sostanza in quanto ognuno di noi, in virtù della sua storia, è una singolarità irripetibile. I social network la vedono in altro modo: se in ballo c’è l’immediatezza delle connessioni e la loro perenne disponibilità, è necessario che ogni individuo si sciolga in un contesto che lo veda sempre reperibile.
La globalizzazione dei giorni nostri non si inquadra solo con una nuova socialità virtuale, ma dirama le sue radici in altri settori. Ad esempio quelli economici, letti da Bauman come incentivanti un consumismo che intacca l’affermazione individuale:Chi vive nel mondo liquido-moderno […] Vaga per i meandri dei centri commerciali, spinto e guidato dalla speranza semiconsapevole d’imbattersi proprio nel badge o segno di riconoscimento che gli occorre per tenere aggiornato il proprio io. (Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Bari 2005, p. 27)
Mi muoverei verso una inflessione filosofica della globalizzazione, che si nota, a mio parere, soprattutto nella filosofia del con (d’ora in poi “con-ontologia”) del J.-L. Nancy di Essere singolare plurale (Einaudi, Torino 2020).
Gli autori parlano di sé molto meglio di chiunque possa presentarli, pertanto lascerei a Nancy dire che la con-ontologia riguarda il fatto che il senso, inteso così assolutamente, si è trasformato nel nudo nome del nostro essere-gli-uni-con-gli-altri: noi non abbiamo più senso perché siamo noi stessi il senso. (Ivi, p. 5). Il soggetto non è più sensato in sé stesso, nella sua sostanzialità diremmo noi, ma assume sensatezza nella compartecipazione, nella coincidenza, nella mistura con altre soggettività. Il senso sta insomma nell’essere in relazione; più correttamente, il senso è la relazione. La filosofia di Nancy risulta essere una dottrina all’avanguardia, al passo coi tempi: pensando una soggettività sensata solo nella pluralità delle relazioni, incentiva una sensatezza più grande dei singoli, aderente perciò alla globalizzazione digitale.
Si rincara la dose quando si scopre che nel mondo con-ontologico i soggetti nella loro singolarità, fondamentalmente, non esistono: «l’esistenza è con: oppure niente esiste» (ivi, p. 8), dice. Pare una devitalizzazione del soggetto, ammesso che ancora ci si possa riferire alle soggettività: la quotidianità di ogni individuo è insulsa, perché acquisisce potenza solo se soppesata dagli altri. La gente è strana, ci dice Nancy, ma credo sia più stranente che nessuno conti davvero qualcosa perché solo il tutto fa senso. Una suggestione di Morton (Noi, esseri ecologici, Laterza, Bari 2018) riporta che le parti sono maggiori dell’intero, opponendosi all’assunto aristotelico per cui il tutto sia maggiore della somma delle sue parti:
L’intero non è più grande della somma delle sue parti. In realtà è meno della somma delle sue parti. Suona talmente folle […] Ma appena lo capisci, allora appare davvero come una maniera più facile di pensare. (Ivi, p. 90)
Questa inversione di marcia è importante perché Morton, all’opposto di Nancy, consegna una lettura che potenzia i soggetti in quanto ognuno, pure nella sua parzialità, esiste con una certa dignità e quotidianità, e ciò lo rende sensato di per sé, anche più dell’intero a cui apparterrebbe. La con-ontologia è per vie traverse una filosofia “internettiana”, non nel senso che esibisca l’internet o riguardi questo, ma che ne è una costola fondamentale. La liquidità del soggetto contemporaneo, colpito dal consumismo da una parte e dal digitale dall’altra, accusa un ulteriore scacco matto da parte delle filosofie più all’avanguardia, come appunto quella di Nancy.
In un’epoca dove dilaga la tristezza, un gran capo di imputazione va rimesso alle tossiche ottiche globali che ingrigiscono le soggettività. L’individuo è un sistema cortocircuitante, le cui parti entrano in combutta con l’intero e non trovano altra soluzione che lasciarsi fondere dall’apparente sicurezza del tutto, che dovrebbe abbracciarle. Benasayag e Schmit, ne L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, Milano 2013), offrono una lettura destabilizzante della tristezza dei giorni nostri, tremenda nel suo evidenziare l’insopportabile banalità del reale: viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinoza chiamava “passioni tristi”. Con questa espressione il filosofo non si riferiva alla tristezza del pianto, ma all’impotenza e alla disgregazione. (Ivi, pp. 20-21)
Gli autori del saggio sono due psichiatri specializzati nel trattamento terapeutico di bambini e adolescenti che, notando una crescente richiesta di terapia, decidono di denunciare una realtà che sembra generare una delle più rognose patologie emotive: la tristezza. I giovani del nostro tempo, gli adulti di domani, sono tristi, irrimediabilmente sfaldati e compromessi della loro personalità. La nostra attualità disincentiva la coltivazione della propria identità con paradigmi così globalizzati da indebolire l’unicità di ognuno: quanto conta davvero il mio apporto nel mondo, se questo pare sfuggirmi non appena cerco di acchiapparlo?
L’analisi di Benasayag e Schmit non è solo fortemente visionaria ma pure terrorizzante in quanto non si tratta più di una infelicità emotiva, dovuta a traumi localizzati o psicologicamente circoscritti: quella odierna è una tristezza ontologica, che riguarda il tessuto della soggettività, e che smembra il senso del nostro essere-nel-mondo.
I soggetti, gli individui, le persone sono l’urgenza del nostro tempo: diluiti in un mondo spersonalizzante e liquido, hanno bisogno di ricostituirsi, non solo per concepire la loro unicità ma soprattutto per essere felici di stare al mondo.
Simone Santamato