Consonanza quale Philotes, dissonanza quale Neikos – parte III: il sincretismo del reale nell’imeneo euripideo – Gabriele Cupaiolo
Giunge a conclusione l’analisi di quei generi poetico-musicali euripidei che, chissà che non stiamo parlando a sproposito, sarebbe stato interessante sottoporre all’attenzione di un Niccolò Cusano qualsiasi: recandogli a testimonianza l’efficacia sia della poesia pseudoepigrafa giudaico-ellenistica sia dell’eusebiana evangelizzazione – spesso d’impostazione dossografica -, perché non comparargli inno, peana e imeneo alla retta e al cerchio, intesi quali valide manifestazioni della sua amata coincidentia oppositorum?
Come al solito introduciamo il nostro genere. Lo ὑμέναιος costituisce un componimento tipico della poesia lirica corale, destinato alla celebrazione nuziale. L’etimologia del termine è facilmente riconducibile a Imene (o Imeneo), dio del matrimonio: a lui è rivolto questo tipo di inno cletico. Una leggenda narra che Imene fosse un giovane ateniese di modesta condizione, innamorato di una nobile ragazza; non sperando di poterla sposare la seguiva spesso, da lontano, come unica soddisfazione. Recandosi un giorno la fanciulla, insieme ad altre ragazze, presso il santuario eleusino di Demetra s’imbatté in dei pirati, che rapirono tutte quante: a salvarle provvede Imene, che otterrà così la sua amata, nonché le invocazioni degli sposi ateniesi per l’avvenire (tanto il suo matrimonio fu felice). Un altro racconto riporta che Imene fosse morto improvvisamente durante il connubio fra Dionisio ed Altea, mentre allietava col suo canto le celebrazioni, e che da allora venisse invocato quale protettore del rito del matrimonio, divenendo fra l’altro oggetto di culto ad Argo. I suoi attributi consueti sono la fiaccola, una corona di fiori e talora un flauto, e la sua invocazione è concepita sia in chiave cletica che deprecatoria, affinché il dio sia favorevole al bene della coppia e tenga lontano il male da essa. La differenza con l’epitalamio, altro genere nuziale, consiste nel fatto che quest’ultimo era cantato presso la camera degli sposi, la sera delle nozze o il mattino successivo, mentre l’imeneo era intonato mentre si portava la sposa alla casa dello sposo (Baccanti, v. 1273, ἐς ποῖον ἦλθες οἶκον ὑμεναίων μέτα;, A quale casa giungesti insieme ai canto nuziali?, quel che domanda Cadmo alla figlia Agave, stordita dal furor bacchicus). In Euripide ci imbattiamo nel termine imeneo innanzitutto nell’Ifigenia in Aulide, immediatamente prima che Agamennone, pentito, confessi al fidato servo il proprio terribile piano; fingendo le false nozze fra Ifigenia ed Achille avrebbe fatto giungere la figlia in Aulide, per poi sacrificarla e ottenere quindi il favore di Artemide: Εἰς ἄλλας ὥρας γάρ δὴ παιδὸς δαίσομεν ὑμεναίους (In altre stagioni celebreremo le nozze della ragazza) sono le parole inscritte nella tavoletta destinata a Clitemnestra, ai vv. 122-3, per salvare la figlia; il verbo δαίνυμι (celebrare con un banchetto, consumare) lascia intendere che qui imenei sia inteso come sineddoche per nozze (cfr. v. 624; Troiane, vv. 778-9; Elena, v. 722). Con questo significato, in maniera ancora più evidente, compare ὑμέναιος nelle Fenicie, v. 822, Ἁρμονίας δέ ποτ’ εἰς ὑ μεναίους ἤλυθον οὐρανίδαι (Un tempo alle nozze di Armonia intervennero i celesti): subito dopo è specificato che grazie al suono della cetra (φόρμιγξ) e della lira (λύρα) sorsero le mura e il bastione di Tebe, lasciando immaginare che questi due strumenti fossero stati portati proprio in occasione del matrimonio, e dunque per accompagnare l’imeneo. Interessante che fossero contemporaneamente presenti φόρμιγξ e λύρα: ciò offre uno spunto per accennare alla varietà strumentale che nell’antica Grecia connotava la famiglia dei liuti a giogo1.
La λύρα era lo strumento più piccolo, utilizzato in particolare dai giovani, durante l’educazione musicale, e dagli esecutori dilettanti, chiamata anche col nome di χέλυς (per via dell’utilizzo del guscio di tartaruga come cassa di risonanza: ciò rende l’idea in merito alle dimensioni); non conosciamo il numero di corde esatte che la caratterizzasse originariamente, ma dal tempo di Terpandro (VIII-VII sec. a.C.) la lira iniziò a possedere normativamente sette corde, fatte di intestino o tendini di animali, oppure di lino o canapa. La φόρμιγξ è il più antico dei liuti a giogo, ed era sovente utilizzata per accompagnare il canto dei rapsodi: di dimensioni intermedie fra la λύρα e la κιθάρα, era un raffinato strumento, spesso ornato d’oro (Pseudo-Esiodo, Lo scudo di Eracle, v. 203, χρυσείῃ φόρμιγγι; Iliade IX, v. 186, φόρμιγγι […] δαιδαλέῃ; Pindaro, Pitica I, v. 1, χρυσέα φόρμιγξ; Inno omerico ad Apollo, vv. 184-5, φόρμιγξ χρυσέου ὑπὸ πλήκτρου) e dotato anch’esso di sette corde. Abbiamo poi la κιθάρα, lo strumento più grande della famiglia: era lo strumento più adoperato nei concerti dei musicisti professionisti, e, stando allo Pseudo-Plutarco, fu inventato da un allievo di Terpandro, Cepione (De musica 6). Per esaustività facciamo menzione anche di altri tre strumenti: ci è noto il βάρβιτον, simile alla lira, ma dotato di un manico più lungo e di una cassa di risonanza più stretta: talvolta Alceo e Saffo sono raffigurati nei dipinti mentre lo suonavano (celebre un cratere greco del V-IV a.C., proveniente dal territorio di Agrigento), lasciando supporre un utilizzo particolarmente frequente in area eolica; esisteva poi l’ἐπιγόνειον, di origine egizia e che propriamente consiste in un salterio, dato l’elevato numero di corde (ben quaranta), piuttosto ingombrante e per questo suonato sulle ginocchia, ἐπì γόνυ, appunto; infine, il πανδουρίς, di origine assira e tale da detenere il primato di più antico strumento a corde fornito di tasti (quelli che troviamo sulla chitarra moderna, s’intende), di cui è importante fonte un marmo di Mantinea del IV sec. a.C., conservato al Museo Archeologico di Atene e raffigurante la mitica sfida musicale fra Apollo e Marsia, dove è suonato da una delle Muse, seduta su una roccia. Di questi strumenti abbiamo testimonianza anche in Euripide: il maggior numero di passi spettano alla κιθάρα (Eracle, v. 350; Ciclope, v. 444; Alcesti, v. 582; Baccanti, v. 562; Ione, v. 882; Ifigenia in Aulide, v. 1037; Ifigenia in Tauride, v. 1237), seguita dalla λύρα (Fenicie, v. 824; Alcesti, v. 430; Ifigenia in Tauride, v. 1129; Medea, v. 424; è chiamata χέλυς nell’Alcesti, v. 447 e nell’Eracle, v. 683), dalla φόρμιγξ (Fenicie, v. 823; Elena, v. 172; Ione, v. 164) e infine dal βάρβιτον (Alcesti, v. 345; Ciclope, v. 40): non compaiono mai gli altri due strumenti, di presenza decisamente più rara nel panorama letterario greco.
Tornando all’imeneo, ancora, ai vv. 436-8 dell’Ifigenia in Tauride:
καὶ σύ, Μενέλεως ἄναξ,
ὑμέναιον εὐτρέπιζε, καὶ κατὰ στέγας
λωτὸς βοάσθω καὶ ποδῶν ἔσθω κτύπος
E tu, o signore Menelao, tieni pronto l’imeneo, e presso le camere risuoni il flauto e vi sia il fragore della danza: queste sono le parole del messo, quando il ‘matrimonio’ di Ifigenia è ormai destinato a realizzarsi; si deduce che all’imeneo si collegano danze movimentate (fragore dei piedi), accompagnate dal flauto, strumento che compare dunque in un contesto di festa (cfr. n. 35, contrariamente all’idea che esso debba essere sempre strumentale dal suono cupo, in contrapposizione alla lira): λωτός infatti indica lo stesso strumento di αὐλός, il flauto – che era in verità più simile al clarinetto o all’oboe moderni2, specificandone però la natura materiale (la pianta di loto, originaria della Libia3; altri materiali potevano essere il legno, l’osso o l’avorio). Al v. 693 abbiamo prova del fatto che l’imeneo fosse intonato nell’atto di accompagnare la sposa a casa dello sposo (ὅταν σὺν ὑμεναίοισιν ἐξάγω κόρην, dice Clitemnestra), mentre la valenza cletico-deprecatoria è determinata ai vv. 1076-9:
Μακάριον τότε δαίμονες
τᾶς εὐπάτριδος γάμον
Νηρῇδός τ’ ἔθεσαν πρώτας
Πηλέως θ’ ὑμεναίους
Ossia Allora gli dèi predisposero le beate nozze della prima nobile Nereide e gli imenei di Peleo; così il Coro si esprime dopo il colloquio fra Achille e Clitemnestra, conclusosi con la rinuncia al matrimonio da parte del primo, essendo ormai stato rivelato lo scopo reale di Agamennone: lo stasimo rievoca con toni e colori squisitamente lirici le profezie di Chirone e il connubio tra Peleo e Teti, genitori di Achille (vv. 1036-1075), al quale gli dèi stessi erano invitati (per questo si rendono protagonisti del canto), in contrapposizione alla triste vicenda degli Atridi. Già ai vv. 1036-9 abbiamo menzione di questo accompagnamento innodico, che è intonato sulla base strumentale di un flauto libico e di una cetra, e associato alla danza:
Τίς ἄρ’ ὑμέναιος διὰ λώτου Λίβυος
μετά τε φιλοχόρου κιθάρας
συρίγγων θ’ ὑπὸ καλαμοεσ-
σᾶν ἔστασεν ἰαχάν
Facendo un raffronto con i vv. 436-9 si possono porre due interrogativi. Innanzitutto, I) se il flauto è in entrambi i casi detto λωτός , come fra l’altro avviene anche in Eracle, vv. 10-1 (ἥν πάντες ὑ μεναίοισι Καδμεῖοι ποτε λωτῷ συνηλάλαξαν, riferendosi a Megara figlia di Creonte), e se nel secondo passo si indica anche la provenienza, ossia la Libia, a testimonianza che molto spesso il loto dei flauti mediterranei proveniva originariamente da questa area – cfr. Elena, v. 171, Troiane, v. 544), è possibile che, il materiale e/o la provenienza geografica assumessero una specifica importanza entro questa forma d’inno? E ancora, II) dato che danza e cetra stanno fra loro in stretta correlazione – la cetra dei vv. 1036-9 è, infatti, definita φιλόχορος, di modo che sia possibile supporre la presenza, da un lato, per i vv. 436-9, di una cetra (anche se non è menzionata, ma vi è l’accenno alla danza), e dall’altro, per i vv. 1036-9, di passi di danza (anche se non sono menzionati; ma vi è l’accenno alla cetra φιλόχορος), in che rapporto stanno i momenti di esecuzione flautistica e della danza accompagnata da κιθάρα? Se i momenti erano separati, prevedevano contenuti testuali simili o differenti fra loro? Se no, flauto e cetra risuonavano assieme, e di conseguenza il flauto si addiceva anch’esso alla danza nuziale (dopotutto anche il dio Pan, di cui era prerogativa la siringa, dunque uno strumento anch’esso a fiato, è definito φιλόχορος da Eschilo, Persiani, vv. 448-9)? Impossibile saperlo.
Riguardo al primo punto, però, può essere utile ricordare che Teofrasto, nella Storia delle piante IV, 3, 4 afferma che il legno del loto era particolarmente adatto alla fabbricazione dei flauti, e perciò l’utilizzo di λωτός potrebbe semplicemente fare riferimento alla spiccata qualità degli strumenti, piuttosto che ad una speciale correlazione fra loto/Libia ed imeneo: inoltre nell’Alcesti, vv. 576-7 viene detto che Apollo, quando si degnò di trasformarsi in pastore – abitando nella dimora di Admeto -, eseguì συρίζων dei ποιμνίτας ὑμεναίους (con l’accompagnamento della zampogna intonò degli imenei pastorali): per quanto rimanga dubbio se l’uso della σύριγξ denotasse un’eccezionale caso campagnolo e – potrebbe lasciarlo credere l’attributo ποιμνίτας – oppure una valida e diffusa alternativa all’uso del λωτός, certo esso fa intendere una qualche, anche solo minima, malleabilità in merito al repertorio strumentale degli strumenti a fiato nel contesto dell’imeneo. Interessante, fra l’altro, che nello stesso passo, ma al v. 583, venga menzionata ancora la κιθάρα, al cui suono danzò il cerbiatto dal manto screziato (χόρευσε δ’ ἀμφὶ σὰν κιθάραν ποικιλόθριξ νεβρός), ammaliato da un vero e proprio canto spiegato (μολπᾶι): Apollo abbandona la prerogativa della lira per avvalersi di quello che Parker definisce a more rustic4 instrument, ma è possibile che la motivazione del cambiamento sia legata anche al genere di canto contemplato, magari particolarmente esigente nei confronti di quello specifico mezzo sonoro? E questo specialmente considerando che la cetra, per quanto strumento più rustico (nelle sonorità?), costituiva il mezzo d’accompagnamento dei professionisti proprio in contrapposizione alla lira, utilizzata in prevalenza da scolari e dilettanti, nonché facilmente ottenibile a partire da un semplice guscio di tartaruga: perché privarsene in un contesto amatoriale quale quello non urbano, e che ricorda da vicino il topos di Orfeo5 (il quale pizzicava una lira donatagli da Apollo in persona, incantando persino gli animali più feroci – cfr. vv. 579-81)?.
Un esempio isolato di imeneo letteralmente infelice, in questo caso intendendo genericamente le nozze6, è quello dell’Ippolito, vv. 553-4, ὦ τλάμων ὑμεναίων, in corrispondenza del racconto della vicenda di Iole, figlia del re d’Ecalia Eurito, conquistata con la forza da Eracle, il quale sarà poi però ucciso dalla moglie Deianira, tramite la tunica imbevuta del sangue di Nesso. Allo stesso modo è inteso οὐκ ὑπὸ λαμπάδων οὐδὲ χορευμάτων ὑμέναιος ἐμός, τέκνων, ἔτικτε σὸν κάρα, ai vv. 1475-6 dello Ione: qui Creusa si rivolge al figlio Ione, definendo matrimonio, seppure privo di privo di sanzione sociale7 (cfr. Oreste, v. 558, ἰδίοισιν ὑμεναίοισι), la violenza subìta da parte di Apollo (senza fiaccole né danze il mio matrimonio, o figlio, ha generato la tua testa). Euripide pare qui operare in maniera simile a quanto avevamo osservato per l’inno comunemente definito e per il peana: attraverso il rovesciamento del significato di un genere spiccatamente ottimistico ed apotropaico ottiene un effetto di shock e stupore nell’uditorio, che associa immagini di rovina e tristezza a canti che, nella vita di tutti i giorni, venivano esperiti con tutt’altro stato d’animo. Da inquadrare in un intento simile anche i vv. 915-22 di Alcesti, dove Admeto rimembra la gioiosa unione con Alcesti, contrapponendo i vecchi, felici ὑμέναιοι (v. 916) ad un nuovo controcanto d’imenei consistente nel pianto (v. 922), esprimendo, stavolta piuttosto esplicitamente, la contrapposizione tra un genere di canto gioioso ed il suo mesto, speculare capovolgimento: l’espressione ὑμεναίων γόος ἀντίπαλος contempla l’uso di ἀντίπαλος, che propriamente significa opposto nella lotta (Pindaro, Nemea 11, 26), più genericamente che lotta contro (Baccanti, v. 544); in questo caso l’idea di agonismo è pressoché nulla8, facendo supporre un’idea di complementarità (cfr. Baccanti 277-9, dove il vino è definito complementare al cibo) molto simile a quella resa sul piano musicale da ἀντίψαλμος, verbo tecnico di cui già ci eravamo occupati, ma allo stesso tempo in grado di evidenziare le opposte qualità dei due imenei.
Note:
1Per le caratteristiche dei liuti a giogo si veda Ioannidis 1999.
2Barberis 1995, 234.
3Ibidem.
4Parker 2007, 173.
5Ibidem.
6Barrett 1964, 264.
7Mirto 2009, 329.
8Parker 2007, 237.
BIBLIOGRAFIA:
U. Albini, F. Barberis, Euripide. Oreste – Ifigenia in Aulide, Milano 1995.
W.S. Barrett, Euripides, Hippolytos, Oxford 1964.
M.S. Mirto, Euripide. Ione, Milano 2009.
L.P.E. Parker, Euripides. Alcestis, Oxford 2007.
Gabriele Cupaiolo