Le caste nel mondo e nella storia secondo A. M. Hocart – Giovanni Sessa
L’esegesi corretta del mondo antico e delle civiltà tradizionali deve essere accompagnata, nello studioso serio, da un profondo lavoro che questi deve compiere su se stesso, mirato a liberare le sue intenzioni critiche dai pregiudizi imposti, da oltre due secoli all’immaginario collettivo, dall’ideologia occidentalista centrata sull’idea del progresso unilineare, che ha individuato nella civilizzazione contemporanea, liberale e utilitarista, il “migliore dei mondi possibili”. Lo si evince dalla lettura di un volume importante di Arthur Maurice Hocart, da poco apparso nel catalogo Arkeios, intitolato, Le caste nel mondo e nella storia, introdotto da Giovanni Monastra (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 169, euro 22,00).
L’autore è poco noto in Italia, perfino tra gli studiosi del pensiero di Tradizione. Ci pensa Monastra a informare compiutamente il lettore sulla vita e le opere di Hocart. Questi fu antropologo, apripista nei lavori di sociologia scientifica. Poliglotta, riuscì a padroneggiare addirittura gli idiomi delle Isole Figi e Salomone, dove lavorò sul campo per alcuni anni in un’importante spedizione etno-antropologica, sotto la guida di W. H. Rivers. Laureato a Oxford in discipline umanistiche, il suo approccio alla realtà “primitiva” era fondato sul rifiuto della riduzione dei “selvaggi” a esseri “quasi umani” (veri umani sarebbero stai, per i positivisti, solo i “civilizzati”, i moderni), inoltre, non si servì dell’esegesi psicanalista freudiana per interpretare i sogni delle popolazioni “primitive”, cui prestò, al contrario, attento ascolto. Egli, lo si sappia, si era formato al metodo critico-accumulatico, accademico-scientifico. Nonostante ciò, le conclusioni cui giunse sono, su alcuni temi, sintoniche a quelle dei grandi autori del tradizionalismo. Il mondo delle Università non gli dette il riconoscimento che avrebbe meritato. Al Cairo, dove si trasferì nel 1934, di ritorno dallo Sri Lanka, paese nel quale aveva ricoperto l’incarico di commissario archeologico, ottenne una cattedra di Sociologia. Morì, per un’infezione contratta in Egitto, nel 1939.
Le sue ricerche hanno, comunque, influenzato insigni studiosi: tra gli altri, Louis Dumont,Claude Lévi-Strauss e Marcel Mauss. Dumont ha scritto che: «tutto lo sforzo di Hocart mira a restare fedele al punto di vista indigeno e a restituirne la logica interna» (p. 13). Monastra ricorda che lo studioso: «identificava nel rito, nella sua accezione di atto sacro, l’origine della cultura» (p. 14). Riteneva, inoltre, che i riti fossero tra loro interconnessi in un’unità profonda e mirati a promuovere la vita individuale e comunitaria. Il rito primigenio, a suo dire, era quella dell’incoronazione, dell’intronizzazione del capo della comunità. Il re è figura divina. Questi aveva il compito di difendere, materialmente e in modalità “sottile”, la comunità che gli era affidata. Il re dell’origine era pertanto pontefice, come ben sapeva Evola. I sovrani erano sottoposti alla morte “simbolica”, alla morte iniziatica, atta a indurre una metamorfosi ontologica di chi la viva, come si evince dall’assunzione di un nome nuovo, a indicare la nuova “personalità” del sovrano. A differenza dei tradizionalisti, Hocart ritiene che la regalità costituisse: «un mondo a sé stante […] al quale possono (avrebbero) potuto accedere persone appartenenti a caste diverse» (p. 16). A proposito dei rapporti tra regalità e sacerdotalità, lo studioso è sostenitore di tesi prossime a quelle evoliane e di Benveniste: sottolineò il ruolo sacrale, oltre le caste, dell’arcaico rex indoeuropeo. Tale figura riassumeva in sé le tre funzioni sociali. Il re era, dunque, anche sacerdote. A tale conclusione, si badi, Hocart non giunse per scelta aprioristica, ma per via empirica, attraverso le ricerche condotte sul campo, sottoposte a giudizio comparativista. Hocart afferma, inoltre, che in India furono i sacerdoti a usurpare la funzione regale, non il contrario. Precisa Monastra: «la figura regale, proprio per i suoi caratteri di totalità, doveva […] racchiudere un significato androgino, di coincidentia oppositorum» (p. 19).
A proposito delle caste, vero e proprio tabù della cultura moderna, Hocart sostiene il tratto universale di tale istituzione. Tale sistema: «può essere definito come […] strutturato in base a esigenze rituali che vedono concorrere […] tutti i corpi sociali che lo compongono» (p. 19). È un organismo sociale totalizzante, in origine dotato di una certa flessibilità e dinamica interna. I fuori casta, coloro che non avevano adempiuto ai doveri castali, venivano esclusi dal sistema verso il “basso”, mentre gli asceti che, al contrario dei primi, erano sulla via della “realizzazione”, venivano considerati oltre le caste, in senso superiore. Si apparteneva ad una data casta, non semplicemente per nascita naturale, ma in forza dell’essere stati iniziati, di aver vissuto la “seconda nascita”, determinante realmente il tratto spirituale di un dato uomo, l’: «eredità biologica […] riveste un’importanza molto relativa nell’Induismo» (p. 23). Solo dopo le invasioni islamiche dell’India e, soprattutto, a causa del colonialismo inglese, il sistema castale si irrigidì, e tale decadimento trasformò la casta, a tutti gli effetti, in classe sociale.
Le caste chiuse, endogamiche, sono sorte solo recentemente in India. Ciò vuol dire che: «le caste indù sono del tutto prive di una base genetica omogenea […] Tutte le caste comprendono […] uomini e donne derivanti dal lungo periodo precedente caratterizzato da accoppiamenti liberi» (p. 26), tra popolazioni dravidiche e indoeuropee. In ogni caso: «La casta va interpretata come legge spirituale, il dharma, che regola e stabilisce la condotta degli esseri umani in ogni aspetto» (p. 23). In tal senso, ciò che distingue davvero, a dire di Hocart, i “civilizzati”, dai popoli tradizionali, è il primato concesso da questi ultimi allo spirito.
Giovanni Sessa