«La natura ha dipinto se stessa»: Nishida Kitarō e le radici metafisiche dell’arte – 4^ parte – Piervittorio Formichetti
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Come anticipato nella parte precedente di questo articolo, nella speculazione filosofica nishidiana, «lo spazio arriva a disfarsi […] di ogni carattere fisicamente determinato, per significare, con una metafora eminentemente spaziale, il luogo (basho) del nulla assoluto, condizione di possibilità e orizzonte illimitato di accoglienza per ogni fenomeno e per ogni evento. Tutte le traduzioni in lingue occidentali di questo difficile concetto mantengono il rapporto con la spazialità simbolicamente intesa – “luogo”, “lieu”, “place”, “topos” (in alcune versioni anglofone), “Ort”, “lugar” – che a sua volta è tratta da Nishida a partire dal concetto platonico di chóra» [56]. Questo spazio assoluto, che quindi non può coincidere soltanto con l’estensione dell’universo come fenomeno sensibile, ma che è necessariamente la matrice di ogni fenomeno e d’ogni evento, è talvolta definito dall’intellettuale giapponese «vuoto assoluto» e «nulla assoluto», e in questa definizione, in un certo senso paradossale, si può trovare un ulteriore possibile punto di contatto con la Qabbalah ebraica, nella quale è presente il concetto di «spazio senza limiti» come ambiente metafisico primordiale:
«Per i Kabbalisti, il punto di partenza del Tutto è, con un paradosso apparente, il Nulla. […] Nel Nulla è racchiuso il Tutto perché soltanto nel Nulla privo di qualsiasi cosa vi può essere la potenzialità di far nascere l’Infinito. […] Questo concetto veniva espresso dai Kabbalisti con il termine En, che è una particella simile all’alfa privativo del greco e indica “Assenza”. […] Per manifestarsi, l’Assenza ha bisogno di un supporto. Essendo Assenza, questo supporto non può essere un concetto positivo, ma necessariamente l’assenza di qualche cosa. Per cui, l’Assenza si manifesterà nel vuoto, ovvero nel Nulla privo di limiti. Questo concetto viene espresso con i termini En-sof, Assenza di limiti. […] L’assenza di un limite, peraltro, ha significato soltanto se si prevede uno spazio che del limite stesso sia privo; il passo successivo è dunque il concetto di En-sof-aur, “Spazio Senza Limiti”, ovvero il non-luogo di tutte le manifestazioni possibili. […] En, En-sof e En-sof-aur sono i “tre Veli del Negativo” che isolano l’inconoscibilità di Dio dall’infinità delle sue manifestazioni» [57].
Non a caso, nota Giangiorgio Pasqualotto, «alla fine del suo itinerario speculativo Nishida, nonostante in precedenza abbia sostenuto la tesi della coscienza come luogo del nulla assoluto, sembra credere che in realtà questo “luogo” è costituito dalla dimensione del Divino, che, come un orizzonte infinito, abbraccia e comprende anche la coscienza, empirica o trascendentale che sia» [58]. Ritorna in sostanza l’osservazione già espressa anche da chi scrive: è inevitabile che, a un certo punto, il concetto di una Volontà assoluta, matrice perenne di ogni fenomeno visibile e di ogni forma invisibile, venga a coincidere con il Divino trascendente e/o immanente, espresso poi nelle varie forme dell’esperienza religiosa e delle relative teologie. Da questo punto di vista – notiamo noi – la coscienza «empirica», cioè quella di ogni essere umano, o meglio localizzata in ogni essere umano, si potrebbe quasi concepire come una “sede decentrata” o una “succursale” della coscienza assoluta, della quale mantiene inevitabilmente l’attributo della «visione» dello e nello spazio, senza però essere onnicomprensiva, bensì settoriale, limitata; qui si ripresenta dunque la concezione della realtà «frattale» propria di Nishida, della quale abbiamo già detto e che, in questo caso, ci mostra l’essere umano come microcosmo simile al macrocosmo, in quanto entrambi sono sistemi organici che “ospitano”, seppure in modo differente, la coscienza cosmica della Divinità.
A questo punto troviamo una interessante analogia tra la concezione del rapporto tra coscienza divina e cosmo esperibile di Nishida, e quella dell’autore tedesco Jakob Boehme (1575-1624), secondo il quale Dio non soltanto ha il potere di specchiarsi nelle entità angeliche e negli esseri umani, ma, in principio, ha voluto «cifrarsi nella natura intiera. Perciò, argomenterà ancora Boehme, Iddio “non sta fra le stelle e neppure in nessun luogo fisso”, “…bensì in ogni momento e in ogni aspetto della creazione”» [59]. Ritornano così il punto di vista di Nicola Cusano sul Deus contractus, e quello della Qabbalah, con il suo analogo concetto di tzimtzum, «contrazione», entrambi già richiamati in precedenza e possibilmente affini al concetto shintoistico di «trascendenza immanente», ma arricchiti di un ulteriore elemento (che, come si vedrà in seguito, sarà affrontato anche dal Cusano): l’accento sul fatto che Dio c’è pur non essendo «in nessun luogo fisso», cioè in nessuna particolare frazione di spazio. Ciò ha una interessante corrispondenza nel Cristianesimo greco-bizantino e successivamente ortodosso, dove uno degli appellativi sacri del Cristo è Achoretou, «Senza Luogo», «Colui che non ha sito (o sede)» – poiché il Cristo, essendo Dio per quanto riguarda la sua natura divina, non è situato in nessun luogo particolare bensì in tutti [60] – il quale include il concetto di chóra, «luogo», cui si è già accennato nel ripercorrere le riflessioni di Nishida.
Il Divino si rivela dunque contemporaneamente contratto ed esteso, ristretto ed espanso, interno a ogni frammento particolare ed esterno a tutti: ciò fa venire in mente anche la definizione di Dio secondo il Liber XXIV Philosophorum (Libro dei 24 Filosofi), del secolo XIII, che con una curiosa e paradossale metafora geometrica, afferma: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo» (Deus est sphaera infinita, cuius centrum ubique est, et circumferentia nusquam) [61]. Marcello Ghilardi, ricollegando questo discorso all’estetica e all’arte, commenta infatti: «L’Ungrund di Boehme, che può essere fatto corrispondere al luogo del nulla assoluto, rispecchia al proprio interno – cioè si offre come luogo di formazione, accoglie, permette che si generino – le infinite “immagini riflesse” che sono di fatto i fenomeni stessi, i quali sussistono in quanto ‘negano’ il nulla assoluto. Essi si determinano e, determinandosi, determinano il luogo del nulla assoluto, e così facendo anche lo riaffermano, perché ne sono le manifestazioni. Analogamente, le opere d’arte ‘negano’ l’Arte, portandola a determinazione e definizione, e la riaffermano, perché ne sono le manifestazioni, i fenomeni sensibili. Tanto le forme fenomeniche naturali, quanto le forme organizzate dell’attività artistica sono “espressioni della vita”, o ancor meglio, auto-espressioni della vita. […] Queste differenti forme di auto-espressione della vita sono la sua concretezza, costituiscono la sua realtà effettuale e anche il suo significato più intimo, che si invera proprio nella concreta semplicità di un gesto comune come l’incontro con un’altra persona o un gesto apparentemente banale» [62].
In questa visione, il mondo è caratterizzato da quella che potremmo chiamare l’estrema capillarità del Divino: troviamo pertanto di nuovo un parallelo, almeno possibile, fra Nishida da una parte, e l’Ebraismo e il Buddhismo Zen dall’altra. Ad esempio, il filosofo ebreo Abraham Joshua Heschel (1907-1972) scrisse a proposito della presenza del Sacro anche negli eventi “umili”: «Nessuna abitudine all’ordine sociale, fisico e psicologico deve smorzare il nostro senso di sorpresa di fronte al fatto che questo ordine esiste. Noi ci esercitiamo a conservare il nostro senso di meraviglia recitando una preghiera prima di prendere il cibo. Ogni volta che stiamo per bere un bicchiere d’acqua ci rammentiamo dell’eterno mistero della creazione: “Benedetto sii Tu… ché tutto ebbe inizio per la Tua parola”. Ecco un atto di poca importanza e l’allusione al miracolo supremo. […] Quindi il “segno” nella vita ebraica tende a “sentire gli atti più banali come avventure spirituali onde percepire l’amore e la saggezza che si celano in tutte le cose”» [63]. Probabilmente è da intendere in questo senso anche un koan della tradizione zen cinese che, se letto o ascoltato da un profano, sembra non indicare affatto in che cosa consista il nucleo dell’insegnamento richiesto al maestro dal monaco, che a sua volta, nonostante riceva una risposta apparentemente banalissima, diviene «illuminato»: «Un monaco disse a Joshu: “Sono nuovo del monastero: Ti prego di insegnarmi”. Joshu domandò: “Hai mangiato la tua zuppa di riso?”. Il monaco rispose: “Si, l’ho mangiata”. Joshu disse: “Allora faresti bene a lavare la tua ciotola”. In quel momento, il monaco fu illuminato» [64].
Torna quindi indirettamente l’importanza della tematica del «vedere» o della «visione», intesa da Nishida Kitarō come conoscenza “illuminata” di ciò che sta oltre, o dentro, il visibile stesso. Chi raggiunge questo genere di visione acquisisce lo stesso punto di vista del Buddha, l’«Illuminato» o il «Risvegliato» per eccellenza in Asia. Per questo, nella sua ultima opera La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, Nishida può affermare: «Nel vedere la propria natura (kenshō) si diventa Buddha. […] “Vedere” non denota un guardare qualcosa in maniera oggettiva o esterna, né un guardare se stessi in maniera interna o introspettiva. […] “Vedere” è ciò che chiamiamo una conversione del sé ed è la stessa cosa che abbracciare la fede. Non c’è religione senza questa conversione o rovesciamento del sé» [65]. Come se si rovesciasse, o piuttosto si invertisse, la direzione della vista-coscienza (o della vista-consapevolezza) dell’essere umano, che dal “vedere” l’esterno dall’esterno passa a “vedere” l’interno dall’interno, egli “vede” tutta la sostanza di cui sono in-formati sia egli stesso, sia tutte le altre manifestazioni dell’Essere presenti nell’universo come fenomeni naturali e come forme di vita. Da questo punto di vista, l’acquisizione – o il recupero – di questo livello di intelligenza (intus-legere, leggere l’interiore) è confrontabile, e in parte coincidente, con il concetto cristiano-occidentale di metánoia, «conversione» o «superamento di mentalità»; e qui è forse possibile evidenziare una differenza tra la metánoia dei monoteismi europeo-mediorientali (Giudaismo, Cristianesimo, Islam) e quella della religiosità giapponese cui fa riferimento Nishida: la prima sembra essere stata intesa dottrinalmente soprattutto nel suo significato etico e morale (la conversione dai comportamenti errati o malvagi a quelli giusti o virtuosi) a scapito di quello filosofico-conoscitivo, mentre la seconda sembra più focalizzata su quest’ultimo aspetto, che con i dovuti distinguo si potrebbe definire anche “gnostico”: la conversione da una forma mentale che offusca o intralcia la possibilità di conoscere la verità, ad un’altra migliore, che permette la giusta «visione». Ma le due concezioni – giudaico-cristiana e nishidiana – di «conversione» non si escludono affatto a vicenda, anzi, è probabilmente esatto affermare che ognuna di esse includa un po’ dell’altra, in quanto la giusta visione-conoscenza facilita l’attuazione di azioni giuste (così come l’ignoranza facilita l’errore).
Inoltre – scrive Ghilardi, utilizzando a un certo punto il concetto di trasmutazione, caratteristico dell’alchimia e affine a quello taoistico-cinese di mutamento ciclico – «lo stesso atto del vedere mette in relazione visibile e invisibile, immanente e trascendente, dal momento che “sebbene ‘vedere’ coinvolga i sensi, in ultima analisi deve trascenderli”. Il regime percettivo non si esaurisce, non termina su di sé, ma rimanda a un livello più intimo, che tuttavia non è altro da quello stesso regime, dall’ambito a cui la percezione si rivolge. La superficie delle cose fa tutt’uno con la profondità che esse celano; la superficie è la profondità stessa, superficie-eppure(in quanto)-profondità. Non solo l’ispirazione o la conversione religiosa segnano una trasmutazione del vedere, una trasformazione dell’essere e del sé. Anche l’ispirazione artistica produce questo effetto, là dove essa raggiunge i più alti livelli di raffinatezza e profondità. […] La relazione inscindibile tra forma e non-forma è vista da Nishida anche come possibile relazione interculturale tra due mondi di pensiero diversi ma complementari, come quello occidentale e quello orientale» [66]. Nishida afferma infatti: «[Se] è certamente vero che abbiamo molto da ammirare ed imparare dal glorioso sviluppo della cultura occidentale, che considera la forma come essere e il divenire come bene, al fondo della cultura orientale che ha nutrito i nostri padri per millenni non vi è forse nascosto un qualcosa come “il vedere la forma del senza forma, il sentire la voce del senza voce”? Il nostro cuore non smette di anelare proprio a questo» [67].
In quest’ultima considerazione, la frase «sentire la voce del senza voce» suscita nuovamente, in chi scrive, un confronto col contesto ebraico, nel quale esistono alcune definizioni apparentemente paradossali, come quella cabalistica – già vista – del Nulla al principio del Tutto. In questo caso si tratta dell’espressione qol demamáh daqáh, difficile da tradurre poiché apparentemente contraddittoria, parafrasabile con «voce, silenzio sottile», «solitudine sonora» o «silenzio che si esprime», che probabilmente può designare anche l’assenza di suoni e rumori naturali e umani nella quale soltanto si può udire la “voce” di Dio [68] (e che quindi potrebbe essere confrontata con il «brusio» dell’ il y a, il «c’è» ineliminabile dell’Essere, di cui – come si è visto nella prima parte – ha parlato Emmanuel Lévinas).
Questo anelito a oltrepassare le forme fenomeniche per cogliere, percepire l’essenza del Tutto che le emana, «ovvero ritrarsi al di qua di un’idea di mondo come éidos» [69] stimola, secondo Ghilardi, un ulteriore e pertinente confronto con il pensiero di Nicola Cusano, il quale concepisce l’«abisso» del Divino come contemporaneamente oscuro e chiaro, buio e luminoso, caliginoso e terso (noi notiamo che un’immagine simile è presente nel libro biblico dell’Esodo, che descrive la nube sotto forma della quale YHWH si manifesta a Mosè, come fosca ed oscura dal lato degli inseguitori egizi, ma luminosa dal lato dell’accampamento ebraico, cfr. Esodo capp. 13 e 14): la luce inaccessibile (inaccessibilis lux) di Dio «è al tempo stesso perfetta caligo, nube, oscurità – gli opposti coincidono, in Dio, nell’assoluto. Questo Nulla assoluto è l’abisso, l’Abgrund (o l’Ungrund) in cui il pensiero filosofico-religioso orientale davvero può incontrare la radice della mistica speculativa europea» e che costituisce la forma formarum, la forma di tutte le forme, ossia la matrice e condizione di tutte le possibilità destinate a manifestarsi come forme particolari dell’Essere esperibili dai sensi umani. A tal proposito, il Cusano esprime nel testo intitolato De visione Dei una considerazione in cui intende le forme come archetipi invisibili delle realtà tangibili (e che ci ricorda nuovamente il concetto greco di chóra e il titolo cristologico di Achoretou): «Dio è in tutte le cose e in nessuna. È infatti in ciascuna cosa in quanto questa è un ente, ma non è in nessuna in quanto questa è un ente particolare. Mi sembra che non si tratti d’altro che di questo: è come se Dio fosse la forma delle forme, la forma assoluta o essenza, che dà l’essere alle forme. […] Dio, infatti, non è il cielo o la terra o qualcosa di simile. […] Dio, che forma tutte le cose, è l’essenza che attribuisce l’essere a tutte le forme, e queste a loro volta conferiscono l’essere a questo e a quello. Ma Dio [in sé stesso] non può essere la forma del cielo perché questa si determina attraverso le differenze del cielo da ciò che non è cielo. Perciò ad ogni forma, che si determina così attraverso la differenza, manca l’essere da cui non è costituita; all’essenza assoluta che è Dio, invece, non manca alcun essere. Dio è, dunque, l’essere di tutto l’essere» [70].
A questo punto, a parere di Marcello Ghilardi, tra l’Essere del Cusano e il Vuoto di Nishida Kitarō si può notare una differenza che egli esprime in termini di «pienezza» e «vuotezza»: «Nella dottrina di Cusano l’essere di Dio pare restare in ogni caso fondamento, principio, origine di tutte le cose, un un senso fortemente ontologico. Il “luogo del nulla assoluto” di Nishida, invece, non è mai principio ontologicamente ‘pieno’, perché esso è vuoto, anche di se stesso, ovvero della propria ‘pretesa’ di divenire principio pieno; esso è sfondo vuoto di accoglienza, orizzonte contraddittorio di possibilità, nel quale i fenomeni si originano, ma non ne vengono ‘creati’ se non in quanto essi stessi ‘creano’ lo sfondo che li accoglie» [71]. Quest’ultima concezione può apparire un paradosso irrisolvibile, o forse un limite, della speculazione del filosofo giapponese: come è possibile, infatti, che le possibilità creino il fondo metafisico da cui esse stesse sorgono? Un’affermazione del genere implicherebbe una totale identità fra la matrice metafisica-divina, i suoi archetipi e i suoi fenomeni (il che pare addirittura qualcosa di più dello stesso panteismo), ma tale identità è impossibile, dato che essi, appunto perché fenomeni, hanno un aspetto sensibile o tangibile e soggetto al divenire, che la matrice divina non ha, nemmeno se – come nel caso di Nishida – la si concepisce come una sorta di flash eterno la cui luce informa tutte le successive forme fenomeniche, ultime delle quali, nel tempo, quelle artistiche. Lo studioso italiano può comunque concludere che «dai discorsi che entrambi i pensatori svolgono, pur con modalità peculiari e differenti emerge una consapevolezza. Ciò che viene ribadito dall’esperienza artistica è che solo accogliendo la necessità della distanza si può dare vero incontro con il mondo – mondo che è formato da sé e dall’altro – ma al contempo tale irriducibile distanza assume un senso solo in quanto forma trascendentale della prossimità che ci lega al mondo» [72].
Note:
56 – Ghilardi, op. cit., p. 219.
57 – Gianni Pilo, Sebastiano Fusco, Il simbolismo kabbalistico del Golem, introduzione a Gustav Meyrink, Il Golem, trad. it. Roma, Newton & Compton, 1994, pp. 9-10.
58 – Giangiorgio Pasqualotto, Introduzione al pensiero di Nishida Kitarō, in Kitarō Nishida, Uno studio sul bene, citato in Ghilardi, op. cit., p. 219.
59 – Alberto Cesare Ambesi, Il panteismo, Milano, Xenia, 2000, pp. 56-57.
60 – Per questa ragione, la tradizione cristiana bizantina definisce la Vergine Maria (il primo luogo fisico, naturale, nel quale Dio, incarnandosi in Gesù, ha voluto manifestarsi): é Chóra tón Achoretou, «il Luogo del Senza Luogo», o «il Sito di Colui che non ha sito»: cfr. ad es. Enzo Bianchi, introduzione a Maria. Testi teologici e spirituali dal I al XX secolo, Milano, “I Meridiani” Mondadori, 2000.
61 – Citato in Eugenio Garin, Ermetismo del Rinascimento, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 41.
62 – Ghilardi, op. cit., p. 221.
63 – Citato in Amos Luzzatto e Sergio Sierra (da quest’ultimo), L’Ebraismo come etica e comportamento, in AA. VV., Conoscere gli Ebrei, a cura di Torino Enciclopedia, Città di Torino – Regione Piemonte – Archivio delle tradizioni e del costume ebraici “Benvenuto e Alessandro Terracini”, 1982, p. 91. Sull’originale, al termine del brano citato, vi è soltanto l’indicazione tra parentesi «Heschel, p. 359» ma non il titolo del testo di riferimento. Di Heschel è stato recentemente pubblicato in italiano il libro Passione di verità (ed. Iduna, 2019) con prefazione di Luca Siniscalco, recensito da Giovanni Sessa su “Ereticamente”, https://www.ereticamente.net/2019/09/passione-di-verita-la-lezione-di-abrham-joshua-heschel-giovanni-sessa.html.
64 – Mumon, La porta senza porta, cit., p. 28.
65 – Citato in Ghilardi, op. cit., p. 221.
66 – Ghilardi, op. cit., p. 221.
67 – Citato in Ghilardi, op. cit., p. 222.
68 – Cfr. Elena Loewenthal, Ma nella Bibbia la voce di Dio è una «solitudine sonora», recensione a Alberto Mello, La passione dei Profeti (Biella, edizioni Qiqaion, 2000), su “La Stampa”, 8 ottobre 2000.
69 – Ghilardi, op. cit., p. 222 (anche per la citazione successiva).
70 – Nicola Cusano, La visione di Dio, § 6 (citato in ibidem, ivi, p. 223).
71 – Ghilardi, op. cit., p. 223.
72 – Ibidem, ivi, pp. 223-224.
Piervittorio Formichetti
(continua…)