Sull’identificazione ermetica – Giandomenico Casalino
La Visione è essere il Paradiso
Il Discorso, la diànoia, il dis-correre, è il correre tra una proposizione ed un’altra, tra un Ente e un altro, “e l’Essere?” incalza Heidegger, sfidando la nostra erudita alterigia, “che ne è dell’Essere?” insiste il Sapiente ed è la Domanda: che ne è del Divino, della Luce, della Vita, del Mondo e della sua Anima? Che ne è della tua vera natura che è Divina come quella del Mondo? Quindi nel discorrere, nella diànoia non abbiamo detto nulla che sia Intelligenza, Vita, Esperienza, abbiamo solo tentato di rappresentare tale Realtà Invisibile che è Indicibile ed è la Nòesis, la Visione. Aristotele[1], nel frammento n. 15 della sua opera giovanile, perduta, “Perì philosophìas”, a proposito dei Misteri afferma: “…Ouk mathèin allà pathèin”, che vuol dire : “…Non vi è alcun insegnamento ma tutto è esperienza”! Paradiso deriva dal greco “paradèisos” che significa “giardino”, “parco”, ma l’etimo originario è dal persiano “pairidèiza”; è il luogo protetto e difeso, l’accesso al quale è consentito solo a coloro i quali sono Paradiso anche per un Istante che è l’Eternità: chi è Paradiso vive, quindi, nel Paradiso poiché se è Paradiso non può che conoscere ciò che è, cioè il Paradiso ed è, pertanto, ciò che conosce, e se lo conosce è perché il Mondo che egli conosce è la sua stessa natura che è paradisiaca: il Sapiente, il Beato, il Mago, il Mistico, l’Iniziato, l’Ermetista, non vivono, in quanto sono se non in Paradiso; il Mondo che vedono, vivono, conoscono, è quello che essi sono: l’Età dell’Oro! Non può che essere in cotal guisa, come, a contrario, il malvagio, colui che è sommerso dalla materialità più bruta, è Inferno, poiché giace, fino al collo, nelle sabbie mobili della melma limacciosa delle Tenebre: non ci sono altri Mondi, l’età dell’Oro e l’età Oscura sono qui, sono dimensioni reali poiché spirituali dello stesso Mondo, che un’anima luminosa vivrà come Paradiso e una oscura come Inferno; colui che opera il Male con il solo fine del realizzare il Male medesimo è il Male! Ed è Luogo oscuro dell’Anima e del Mondo, conosce ciò che è ed è ciò che conosce, vi è assoluta corrispondenza identitaria, di natura ontologica, tra la natura dell’Anima e la natura del Mondo poiché il Mondo è Anima, nella sua Essenza.
La prova della veridicità di tutto ciò, in quanto Dottrina arcaica della Tradizione, ove vi fosse bisogno di argomenti probatori, consiste nel semplice fatto, accaduto a chiunque, almeno una volta nella sua vita, dell’esperienza che si vive, che noi uomini possiamo vivere e viviamo, quando realizziamo il Bene sia di una realtà naturale e vivente come di una realtà dello spirito, che è della stessa natura della prima: noi, come insegna Aristotele, in quell’Istante stiamo semplicemente vivendo il Bene poiché siamo il Bene che è, per Aristotele, la finalità (entelècheia) divina del Mondo cioè dell’Essere. Pertanto qui osiamo tentare di “parlare” di ciò di cui non si può dire niente! E ciò è l’Indicibile, essendo Nòesis (Visione, Intuizione…); questa è l’essenza della divina follia, che è la vera mania platonica, procuratrice di beni agli uomini ed agli Stati! È come se noi, celebrando la messa cristiana, al momento della transustanziazione (al di là della sostanza) che è il nucleo magico del rito cristiano, che, come afferma Kremmerz[2], è preso integralmente dai riti della Tradizione romana, invece di chiudere la bocca dicendo: “mistero della fede”, tentassimo sapienzialmente di parlarne cioè di parlare di “qualcosa” di simile alla nòesis che è l’esperienza in quanto è l’essere il Dio, nel senso che, mangiando Lui, si è Lui! (l’uomo è ciò che mangia) e ciò è il rinnovo magico della Ierofagia primordiale del Paradiso che è il fine ultimo del Rito, in tutte le Tradizioni del pianeta: la Restaurazione della Divinità dell’uomo, la sua thèosis (divinificazione) ovvero essere il Paradiso: di Ciò si può parlare? Ciò può essere “fondato” con argomenti? No! Hegel parla della Elevazione dello Spirito a Dio come di “un dato di fatto”, però dice: “…Lo spirituale può venir attestato soltanto attraverso se e in se, può affermarsi attraverso se e in se. È questo ciò che può esser chiamato la testimonianza dello Spirito…” (Lezioni sulla Filosofia della Religione, IV, 21).
L’esperienza fondamentale della Visione, quindi dell’essere visionario, si dimostra vera da se stessa e ciò vuol dire che Hegel la pone come meta finale (teletè, in greco) di essa, senza dare della stessa alcuna fondazione argomentativa (diànoia); e sul punto Platone insegna il medesimo (Lettera, VII, 341 c-d), (Fedro, 249, c6); il Platone esoterico infatti è davanti a noi, negli stessi Dialoghi[3], e ci dice che la Visione non è un “vedere” fisico ma bensì un vedere dello spirito quindi un essere la natura delle Idee che sono incolori, prive di forma ed invisibili e che la loro natura è Divina: per lo effetto l’anima le vede, nell’Iperuranio, e le conosce nella loro natura e secondo la stessa e ciò significa che l’Anima vive, quindi è, quella natura Divina che è Vita al grado supremo, Luce radiante e pura. Fuori dal linguaggio del Mito e dalla sua immagine, Platone vuol dire, in termini esoterici, che l’anima da se e secondo se stessa (katà autèn), nella sua Intelligenza e nella vita terrena, può e deve vivere l’esperienza, di cui nel Fedro espone miticamente la natura, e ciò vuol dire essere libera dai legami dei sensi e delle loro propaggini corporali e quindi coscienziali come se si trovasse nello stato del post-mortem. Scaligero riferisce, infatti, che Hegel parla di esperienza vivente dell’estasi dell’Idea in Platone.
L’Esperienza è atto di Amore e quindi è Eros che la governa, è vivere ciò che si ama e si pensa, ma la chiave di volta, come insegnano sia Plotino che Hegel, è la paradossale (per i moderni) assenza di coscienza, è lo stato simile a quello del sonno, del sogno e della morte e … delle Anime che, dall’Iperuranio, vedono, non con gli occhi fisici, e sono ciò che vedono, come ne parla Platone nel citato passo del Fedro; l’Esperienza è, quindi, assenza di quello che i Romani chiamavano “sensus sui”, cioè della coscienza di se stessi e quindi di tutti gli elementi, come “parti” periferiche e centrali dell’anima, in quanto complesso animico-emotivo-percettivo di se stessi, pertanto è tacitamento dell’illusione dell’Io; l’Esperienza è puro Pensiero quale sovracoscienza: “… Io penso Dio poiché, io che sono Dio, esisto…”, così Hegel esplicita la prova ontologica del platonico Anselmo ovvero: è Dio stesso, che è la mente dell’uomo, che prende consapevolezza di se, pensando se stesso e si torna al Pensiero di Pensiero quale essenza del Divino, secondo Aristotele! L’Esperienza è Intelligenza che conosce l’Intelligibile e si identifica con lo stesso e l’una e l’altro, che non sono “due”, non ha(nno) e non è (sono) coscienza poiché non ha(nno) nessun rapporto con il sensibile, essendo Idea che è l’Unità dell’Intelletto e dell’Intelligibile ed è, come sappiamo, incolore, informe ed invisibile. L’Io non c’è più poiché, essendo un’illusione, non c’è mai stato, in quanto “Tu sei Quello!” (Svetaketu VI, 8, 7 – Upaniscad). Il mezzo, la mediazione per giungere a ciò, dopo la diànonia di tutta una vita, è il Mundus Imaginalis di Jahia Sohravardi[4] ed Henry Corbin[5], Mondo intermedio tra il sensibile e l’Intelligibile. Noi siamo Dei! Ma non lo sappiamo poiché di questo nostro autentico stato ontologico, non abbiamo consapevolezza in quanto non lo vediamo e quindi non lo viviamo e, pertanto, il Mondo ci appare Inferno e lo viviamo come tale, ma nell’Istante (Platone, Lettera VII, cit.) noi siamo Lui, noi vediamo poiché per un Istante, che è fuori dal tempo e dallo spazio, essendo l’Eterno, il velo cade dagli occhi e noi vediamo il Paradiso poiché siamo il Paradiso.
Luce radiante, calma, serena, divina, splendente, non mutante, è lo stesso mondo di ogni giorno e noi siamo gli stessi di sempre, eppure noi non siamo più poiché siamo senza coscienza di alcunché, siamo quell’alberello, siamo quella specie di cima dello stesso che è filigrana radiante di Luce, che è pace e bellissima realtà Vivente, non sentiamo né percepiamo il corpo né il luogo dove siamo poiché, in uno stupore da bambino, noi siamo Quello e non sappiamo per quanto tempo: ci restano il ricordo e la certezza, unite alla gioia, di essere stati Lui, anche se per un Istante, e cioè la vera natura di se stessi! E, fermandosi il tempo, si è la Visione, si viene invasi dalla Visione, che è al di là del tempo, poiché è ferma, immota, nella sua leggera, luminosa e pacifica Verità e l’uomo conosce ed è il terzo livello che è il Mistero del Mondo ossia l’immagine stessa del Dio che, in quanto è egli stesso, si specchia nel Mondo e vede Se stesso ed è il Mondo medesimo: il Dio!
Quindi il “processo”, il “cammino” non ci sono, non ci sono mai stati poiché “tu sei Quello!” E lo sei non da ora né da ieri né lo sarai domani, poiché lo sei ab aeterno!
[1] ARISTOTELE, De Philosophia, I, fr. 15, Rose (trad. it. M. Untersteiner) Roma 1963.
[2] G. KREMMERZ, La scienza dei magi, Roma 1974, vol. I, p.239.
[3] R. DE MONTICELLI, L’ascesi filosofica. Studi sul temperamento platonico, Milano 1995, pp. 212 ss…
[4] J. SOHRAVARDI, L’arcangelo purpureo, Milano 1990.
[5] H. CORBIN, L’Iran e la filosofia, Napoli 1992, pp. 103 ss..
Giandomenico Casalino