«La natura ha dipinto se stessa»: Nishida Kitarō e le radici metafisiche dell’arte – 2^ parte – Piervittorio Formichetti
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Come anticipato, Nishida Kitarō mostra, secondo Marcello Ghilardi, non poche consonanze di pensiero con il filosofo tedesco Nicola da Cusa, o Cusano (Nikolaus Krebs, 1406-1464), in particolare ancora sulla doppia realtà del «vedere» l’Essere da parte dell’individuo specialmente nell’esperienza estetica, essendo questa una manifestazione stessa della «vista» creatrice dell’Essere così come la creazione artistica manifesta il «vedere» dell’artista:
«Sia per Cusano che per Nishida, l’attività del vedere – di un vedere che, si ricordi, è sempre già un creare, un produrre – non è riducibile all’ambito manifesto degli “oggetti” con cui opera quel vedere. Come la vista non è riducibile ai colori che essa vede, perché non appartiene al loro ambito, così l’udito non è riducibile ai suoni; allo stesso modo, l’intuire-agire non è riducibile agli effetti che esso determina, anche se sempre necessariamente è in essi che si attua e si manifesta, e il fluire creativo dell’arte non è riducibile o del tutto inscrivibile nell’attività soggettiva dell’artista. Esiste una dimensione avvolgente, più ampia del sentire e del produrre individuale, di cui tale produrre è manifestazione puntuale. Usando una terminologia cusaniana, l’atto singolare – una particolare percezione, un’opera d’arte, una poesia, una composizione musicale, un movimento di danza – è complicatio del movimento universale che in essa si invera. […] Per entrambi, “vedere” è intelligere, ma anche essere originariamente “presso il mondo”, prendervi parte, conoscerlo e penetrarlo con l’uso della ragione ma senza escludere i sensi – anzi proprio a partire da essi» [25].
A questo riguardo, viene ricordato che il testo del Cusano intitolato De visione Dei «trae spunto da un piccolo dipinto, un’immagine del volto divino [evidentemente del Cristo] che mentre viene vista, dà al tempo stesso l’impressione di vedere, di essere l’origine dello sguardo e non semplicemente la meta di uno sguardo altrui. Dio stesso vede, del resto, e insieme è visto da coloro che egli vede; la sua è una visione assoluta (visio absoluta), radice e condizione di possibilità della vista finita (visus contractus) delle creature, tuttavia essa resta in e con tale visione limitata e creaturale. […] Per Cusano, il vedere divino si identifica con il creare da parte di Dio stesso; e per la capacità riflessiva dell’occhio (cum oculus sit specularis) lo sguardo infinito di Dio viene a coincidere con lo sguardo finito della creatura» [26].
Un’idea analoga appare anche lontano dalla Germania: all’altro capo dell’Eurasia. Nell’ I Ching (o Yi King), il famoso Libro dei Mutamenti composto in Cina a partire dal 1000 a.C. circa in ambienti taoistici, e poi adottato e interpretato anche da Confucio e dalla sua scuola, compare un concetto simile nel ventesimo fra i suoi sessantaquattro esagrammi, il segno Kuan, «Contemplazione» o «Visione». Di questo simbolo, il traduttore tedesco dell’I Ching, Richard Wilhelm, scriveva un secolo fa: «Il nome cinese del segno ha, con un leggero cambiamento di tono, un duplice significato. Da un lato significa il contemplare, dall’altro l’essere visto (come modello). Queste idee vengono suggerite dal fatto che il segno può essere interpretato come l’immagine di una torre [segue il disegno stilizzato di una piattaforma elevata, retta da due scale verticali le cui estremità superiori si avvicinano l’una all’altra], quali ne esistevano molte nell’antica Cina. Da queste torri si godeva un’ampia vista tutt’intorno, e d’altra parte una torre simile sopra un monte era visibile da lontano. Così il segno raffigura un sovrano che contempla verso l’alto la legge del cielo, e verso il basso i costumi del popolo, e che col suo buon governo è un sublime modello per le masse. […] Il segno intrinseco Kên, il monte, appare due volte nella struttura dell’esagramma, sia pure con le linee spostate [cioè raddoppiate verticalmente]. In questo caso, Kên allude a porte e palazzi: da qui l’idea del tempio degli avi, misteriosamente chiuso» [27].
Come si può notare, questa situazione esprime il medesimo concetto di visione reciproca e simultanea tra la vista limitata del fedele religioso o del suddito da una parte, e quella superiore, più ampia in senso sia panoramico sia psicologico, del gestore del Sacro (sacer-dos) o del re, che dovrebbero essere modelli di umanità e di rettitudine, dall’altra: tale rapporto è estensibile, sul piano cosmico e metafisico, a quello tra la visione umana e quella divina: l’essere umano vede una frazione spazio-temporale del Tutto e si volge verso il Divino, il Divino vede il Tutto e si volge verso l’umano, ma la proprietà della visione in sé è la medesima per entrambi e scaturisce dal Divino; c’è pertanto un parziale rispecchiamento reciproco tra uomo e Dio, ma senza che ciò possa abolire l’intrinseca gerarchia ontologica tra i due soggetti: il primo riceve una parte di tale visione, il secondo “possiede” la visione intera e ne dona una parte.
Ulteriormente interessante è che l’esagramma Kuan, simile a un’antica torre cinese ed avente il significato di contemplazione o visione simultanea, abbia un”innegabile somiglianza formale con il simbolo giapponese torii, riprodotto anche nel citato volume di Antonio Medrano Shintō e Zen e descritto da Luca Siniscalco nella video-presentazione del libro. Analogamente alla torre cinese, il torii del Giappone è una struttura composta di un elemento elevato sostenuto da due elementi assiali: due scale verticali nel caso della torre cinese, due colonne nel torii; quest’ultimo allude a un portale, infatti è sovente riprodotto materialmente davanti all’ingresso dei templi shintoisti – e ciò ha una corrispondenza implicita nel simbolo Kuan dell’I Ching, dove, come si è detto, il segno «intrinseco» (cioè ricavabile dalle linee interne) Kên raddoppiato allude alla porta e al tempio – , dei luoghi sacri naturali o dei giardini zen, ed è interpretabile come un simbolo dell’antropocentrismo cosmico: le due colonne alludono all’essere umano maschio e femmina; sotto le due colonne sta la linea orizzontale della terra; sopra di esse, sostenuto dalle loro estremità superiori ed allusivo al cielo, l’elemento orizzontale. Quest’ultimo – aggiungiamo noi – essendo leggermente concavo verso l’alto suscita un immediato confronto con la «barca del Sole» che attraversa il cielo, presente nell’iconografia dell’antico Egitto (del resto anche in Giappone il Sole era associato alla divinità principale, in questo caso femminile: la dea Amaterasu-Omikami), e rende il simbolo giapponese incredibilmente simile ai portali scolpiti a bassorilievo sulle pareti in pietra delle domus de janas dell’antica Sardegna pre-nuragica (anteriore al 1000 a.C.), a loro volta sovente dipinti di rosso, nei quali l’elemento sovrastante è stato interpretato come due (e talvolta tre) corna taurine sovrapposte [28].
Da questo punto di vista, l’esagramma Kuan cinese e il torii nipponico sono accomunati da tre concetti: l’essere umano centrale fra cielo e terra; la soglia tra ambiente profano e ambiente sacro; la visione. Entrambi i simboli implicano l’idea che la vista individuale, contemplando un simbolo che la conduce oltre il simbolo stesso, oltrepassa in tal modo la soglia del fenomeno per entrare nella dimensione trascendente e «anonima» in senso lévinasiano (si veda la prima parte di questo articolo), nella quale trovano origine tutti i fenomeni cosmici, compresa la stessa persona contemplante. Se dunque la visione stessa del vedente è espressione della visione dell’Essere che gliela conferisce, la persona contemplante non è un soggetto passivo nei confronti della sua stessa visione e di ciò che sta vedendo; al contrario, «anche l’esperienza percettiva non è mera ricettività, bensì attività essa stessa, “attività in atto” (jikō)» [29]. Di conseguenza, «attività pura e creazione artistica dipendono per Nishida dalla volontà assoluta anteriore a quella individuale; il pensiero concettuale, ovvero “l’aspetto riflessivo della volontà”, può “unificare” tali atti riconducendoli a un soggetto da un lato, e riconoscendoli come scaturiti da un’unità pre-soggettiva» [30].
Soggetto ed Essere sono in questo senso due poli distinti soltanto apparentemente; in realtà sono entrambi due modi di essere di una sola Realtà dotata di volontà, dunque di coscienza. Al tempo stesso, «la volontà assoluta è l’origine di tutte le attività, ma è il pensiero riflessivo che consente di averne coscienza. […] In tal modo, l’esperienza non è più “pura”, perché il soggetto si è scisso dall’oggetto per poterlo pensare, per poterlo osservare ‘a distanza’; in compenso, essa assume una nuova forma di completezza, divenendo, per così dire, consapevole di sé. Bisogna ricordare infatti che [nell’impostazione di Kitarō] prioritaria è sempre l’esperienza, e non il soggetto che esperisce: dunque è come se fosse l’esperienza a ‘conoscersi’ per il tramite del soggetto stesso» [31]. Ritroviamo qui un pensiero che ci sembra nuovamente affine a quello di Lévinas, quando – come si è visto – afferma che l’ipostasi (o soggetto) è cosciente di «appoggiarsi» al «fondo» anche quando i fenomeni che da esso sorgono sono apparentemente scomparsi (come accade nel buio notturno), ma in quanto soggetto se ne «stacca» inevitabilmente. Ciò permette quindi di affermare che «la realtà, nella sua differenziazione infinita, comporta contraddizione, ma al tempo stesso viene ricompresa e riunificata, a vari livelli, dall’intuizione artistica, dalla coscienza morale e – in ultimo – dall’intuizione religiosa dell’unità del tutto. Conoscenza, morale, arte, così come verità, bontà e bellezza sono le determinazioni co-appartenenti e reciprocamente implicate di un’unica esperienza, che dalla sua purezza o semplicità […] passa al livello di una complicazione, di una articolazione, perché fa intervenire la riflessione».
Anche in Nishida come nella teologia scolastica medievale, dunque, il bene, il vero e il bello sono «trascendentali» (anche se Nishida non adopera questo termine) e convergono (convertuntur) in un’unica realtà metafisica, che nel caso del filosofo giapponese non è il Dio cristiano nella versione della teologia medievale, ma la dimensione trascendente dotata di volontà creatrice – qui potrebbe esserci una comunanza con il Dio del Cristianesimo, ma Nishida non concepisce il “suo” Divino come una Coscienza personale, bensì (paradossalmente) impersonale – che si esprime anche tramite l’intuizione estetica degli esseri umani. La bellezza è quindi concepita da Nishida come una qualità di per sé assoluta, che la volontà trascendente (divina) esprime poi nelle molteplici forme da noi esperibili: «Noi vediamo dietro la cosiddetta realtà una bellezza eterna e imperitura. Il bello non solo non ha relazione col tempo e lo spazio quali forme della nostra conoscenza, ma trascende le forme fisiche e queste non possono smuoverlo o mutarlo» [32]. Tuttavia, subito dopo, egli afferma: «Come non c’è bello senza le cose, e come la forza si manifesta collegandosi a tempo e spazio, così il bello si manifesta nel collegamento e unificazione delle cose. […] Il bello non è altro che il contenuto della volontà oggettiva che sta dietro la realtà percettiva».
In sostanza, si tratta della stessa realtà considerata da due punti di vista: prima quello trascendente, ab-soluto dal divenire dei fenomeni, poi quello umano, condizionato dalla necessità di esperire la realtà mediante i sensi (soprattutto la vista), infine di nuovo da quello trascendente, proprio della volontà oggettiva – cioè quella del Divino – sottesa al mondo sensibile e alla volontà umana la quale, da parte sua, nell’arte e nella religione intende rappresentare l’unità intrinseca sussistente fra queste diverse “facce” del Tutto. Nishida scrive infatti in seguito: «Dire che il mondo del bello e del bene è più reale del mondo delle forze fisiche può sembrare strano, ma se poniamo che il mondo delle forze fisiche non sia altro che una proiezione in cui la volontà trascendentale riproduce sé all’interno di sé, la vera realtà è solo lo sviluppo della volontà stessa». Marcello Ghilardi commenta puntualmente questo brano evidenziando che la volontà di cui parla Nishida non è quella soggettiva dell’individuo, bensì la «trama sottesa» (espressione molto simile a quelle utilizzate dal gesuita Pierre Teilhard de Chardin per definire la medesima dimensione immateriale e dinamica: «l’Interiore delle cose» e «Weltstoff», in tedesco «stoffa del mondo, del cosmo») ad essa: «Finché ci si colloca nella prospettiva psicologistica di un impulso, di una percezione o di un atto di volontà personale, soggettiva, non si riesce a cogliere la trama sottesa alla realtà intera; bisogna elevarsi al livello della volontà assoluta, condizione di possibilità per il darsi del Bello attraverso le cose, e delle cose belle in virtù di una bellezza che è a sua volta espressione della volontà, che diviene a questo punto sinonimo anche dello stesso “spirito dell’universo”».
Insomma, si potrebbe dire che pur volendo schivare l’assimilazione del concetto teistico di «Dio personale» alla dimensione trascendente della realtà, la riflessione umana non possa evitare, a un certo punto, di giungere a determinate conclusioni che necessariamente implicano questo concetto teistico, in quanto riconoscono, in quella dimensione trascendente, la volontà di esprimere il bene e il bello; scrive infatti Nishida: «Ciò che in quanto realtà non si può mai cancellare è solo lo sviluppo dello spirito dell’universo che si manifesta come nostra esperienza. Inoltre, se poniamo che un tale contenuto spirituale è il nostro contenuto del bene, si può pensare che all’origine della realtà ci sia l’idea del bene» [33].
La filosofia di Nishida Kitarō è dunque caratterizzata da «una continua oscillazione tra un ‘regime’ della trascendenza, in cui l’afflato creativo e la facoltà dell’intuizione agente colgono ciò che sta al di là delle forme sensibili, e uno dell’immanenza, in cui le stesse capacità dell’uomo gli mostrano come l’assoluto si dia sempre e soltanto nelle cose, attraverso i fenomeni» [34]; oscillazione che non è dovuta a un’incapacità del pensatore di risolvere la questione: al contrario, è dovuta alla sua lucidità nello spostare e soffermare continuamente la propria riflessione su entrambe le dimensioni del reale, senza poter escluderne una. Un tale procedimento fa quasi pensare al movimento ritmico di un pendolo o della lancetta di un metronomo. Egli stesso infatti utilizza un termine specifico, «relazione di polarità inversa» (gyakutaiō), per indicare questa «incessante tensione dinamica e creativa» interna alla realtà nella sua totalità, ed in virtù della quale esistono tutti i fenomeni, compresa l’esperienza umana.
Da questo punto di vista, nulla può essere più dinamico del Divino stesso, che si estrinseca in ogni istante nei molteplici fenomeni particolari dell’universo esperito dall’essere umano. Come accennato precedentemente, Nishida considera quindi essenziale l’azione e la categoria della kenosis, lo spogliamento o svuotamento di sé da parte del Divino (confrontabile con la contractio di Nicola Cusano e con la tzimtzum della Qabbalah ebraica) che si “immerge” nelle realtà contingenti del cosmo; a questo riguardo, nella sua ultima opera La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, Nishida scrive: «Un Dio che fosse semplicemente trascendente e autosufficiente non sarebbe un vero Dio. Dio deve sempre possedere anche un aspetto kenotico. Proprio per questo un Dio che è totalmente trascendente ed allo stesso tempo immanente è un vero Dio dialettico. In quanto tale, si può dire che Dio è il vero assoluto» [35]; e anche: «Il vero assoluto modula se stesso con il relativo, è autentica totalità dell’Uno, possiede se stesso nella vera molteplicità degli individui. Autonegandosi, Dio si colloca ovunque in questo mondo. In questo senso, Dio è completamente immanente» [36].
Qui vengono in mente due analoghe intuizioni espresse in Europa sulla presenza del Divino contemporaneamente trascendente e immanente: la definizione data da Giordano Bruno di Dio come Mente cosmica, «Mente al di sopra tutte le cose e insieme insita in tutte le cose» (Mens super omnia et insita omnibus); e, nella interpretazione del Cristianesimo offerta da René Girard, l’atto di auto-desacralizzazione di Dio che incarnandosi nel Cristo giunge al sacrificio fisico di se stesso (il massimo della kenosis) per annullare il presunto valore religioso di ogni altro sacrificio rituale cruento, sicché «la croce di Gesù appare alla fine come l’antisacrificio, che riporta il male nella sua dimensione umana e terrena, staccandolo dalla menzogna di appartenere al divino. In questo senso, Girard parla di “dedivinizzazione” della vittima [sacrificale] e di “devittimizzazione” di Dio» [37].
Nel medesimo brano nishidiano sulla «autonegazione» di Dio, si trova anche una riflessione sulla dinamica analoga nell’essere umano, cioè l’annullamento dell’ego: «Possiamo dire che solo morendo, il sé, attraverso una correlazione inversa, entra in contatto con Dio, si lega a Dio» [38]. Come già detto, in questo caso il «sé» deve essere inteso come l’io psicologico abituale dell’individuo, non come la sua anima. Questa considerazione di Nishida, analoga all’esperienza mistica (e in un certo senso anche alchemica, almeno nella sua interpretazione ascetico-spirituale, per quanto riguarda la nigredo o «fase nera» iniziale), ci sembra esprimere lo stesso punto di vista, o la stessa esperienza, vissuta dal celebre pittore e antiquario «illuminato» Gustavo Adolfo Rol (1903-1994), e ciò può indicare che i princìpi alla base del suo pensiero e delle sue facoltà cosiddette paranormali si radicano (come ha evidenziato pochi anni fa il suo biografo e lontano cugino Franco Rol nel libro Il simbolismo di Rol) in un ambito iniziatico-tradizionale non sempre conosciuto dalle molte persone pur interessate alla figura di Rol. Egli infatti sottolineò più volte la necessità di rinunciare al proprio ego particolare per chi avesse voluto tentare di raggiungere il suo livello spirituale e le sue possibilità straordinarie: in una lettera a Giorgio Di Simone, architetto e parapsicologo, Rol scrisse: «A me che ho battuto una via tanto differente, la fatica è stata, glielo confesso, tremenda e solitaria. Per quanto le mie odierne possibilità giustifichino tanto travaglio, non mi sentirei mai di augurare a un mio figlio o a un amico un simile destino; è vero che la contropartita è meravigliosa, però saprebbe chiunque accettare l’annullamento della propria personalità?» [39].
Note:
25 – Ghilardi, op. cit., pp. 209-210.
26 – Ibidem, ivi, p. 210.
27 – I Ching. Il Libro dei Mutamenti, a cura di Richard Wilhelm (ed. or. Pechino 1923), trad. it. Milano, Adelphi, 1991 (con prefazione di Carl Gustav Jung del 1949), pp. 126 e 493.
28 – Per la «barca di Râ» vedi ad. es. Piervittorio Formichetti, L’umanesimo degli antichi Egizi e la sua attualità (recensione a Primavera Fisogni, Nel segno del pensiero. Come pensavano gli antichi Egizi, Cosenza, Santelli, 2019), 1a parte, https://www.axismundi.blog/2019/10/23/lumanesimo-degli-antichi-egizi-ela-sua-attualita-ii/; per la somiglianza fra i torii nipponici e i portali sardi vedi ad es. Portali: tracce di un antico retaggio in tutte le grandi culture del nostro pianeta, https://www.larazzodeltempo.it/2020/portali/ (riferimento conosciuto grazie al sig. Gerolamo Exana di Sinnai, Cagliari).
29 – Ghilardi, op. cit., p. 210.
30 – Ibidem, ivi, pp. 210-211.
31 – Ivi, p. 211 (anche per la citazione successiva).
32 – Ibidem, ivi, p. 212 (anche per le successive tre citazioni).
33 – Ivi, pp. 212-213.
34 – Ivi, p. 213 (anche per la citazione successiva).
35 – Citato in ibidem, ivi, p. 213.
36 – Citato in ibidem, ivi, p. 214.
37 – Oddone Camerana, Il capro espiatorio è la sola grande cosa, recensione a René Girard, La voce inascoltata della realtà (Milano, Adelphi, 2006), e a René Girard – Gianni Vattimo, Verità o fede debole. Dialogo su cristianesimo e relativismo (Massa, TransEuropa, 2006) in «Tuttolibri-La Stampa», 6 gennaio 2007, citato anche in Piervittorio Formichetti, Il Dio unico: fonte di violenza o capro espiatorio?, in “Lessico di Etica Pubblica”, Rivista del Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo, anno VIII n. 2 / 2017, p. 63.
38 – Citato in Ghilardi, op. cit., p. 214.
39 – Giorgio Di Simone, Oltre l’umano. Gustavo Adolfo Rol, Trento, Reverdito, 2009, p. 53.
Piervittorio Formichetti
(continua…)