«La natura ha dipinto se stessa»: Nishida Kitarō e le radici metafisiche dell’arte – 1^ parte – Piervittorio Formichetti
Nella interessante ed intelligente presentazione del libro di Antonio Medrano Shintō e Zen: le radici metafisiche del Giappone (pubblicato postumo nel 2022 dalle Edizioni Arktos) da parte di Andrea Scarabelli e Luca Siniscalco (visibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=XyqLHVvl68Y), quest’ultimo ha menzionato brevemente il filosofo giapponese Nishida Kitarō (1870-1945). Chi scrive ha conosciuto pochi anni fa questo nome grazie alla ricerca intitolata L’unità di buono, bello e vero nell’estetica di Nishida Kitarō di Marcello Ghilardi, pubblicata nel volume Premio Nuova Estetica del 2009, fra gli altri saggi vincitori del premio della Società Italiana d’Estetica di quell’anno [1]. In questo testo, la Weltanschauung del filosofo nipponico è esaminata soprattutto confrontandola con il neoplatonismo occidentale (Plotino e poi Nicola da Cusa), ma le citazioni di Kitarō e le riflessioni del ricercatore su di esse, possono suscitare nel lettore ulteriori paralleli e collegamenti con concetti ed elaborazioni filosofico-teologiche presenti nella filosofia europea.
Nishida Kitarō – ricorda Ghilardi – è considerato il “padre” della filosofia giapponese contemporanea, ed il primo intellettuale del suo Paese ad avere tentato di integrare reciprocamente il pensiero e l’esperienza del Buddhismo con le categorie della filosofia occidentale; intorno a lui e a tale indirizzo filosofico è sorta la cosiddetta Scuola di Kyoto (Kyōto gakuha): «Nei suoi scritti intorno al bello, alla creazione artistica e all’esperienza estetica, come del resto in tutti i suoi scritti, i riferimenti ad autori occidentali da lui studiati e apprezzati sono molti» [2], tra i quali ricorrono in particolare i nomi di Platone e di Plotino (ma non sempre Nishida cita espressamente i testi dai quali attinge il loro pensiero), soprattutto nella raccolta di saggi del 1923 Arte e morale (Geijutsu to dōtoku). Nishida mostra di voler «costruire un ponte, una possibilità di intreccio e integrazione tra due modalità differenti di intendere la bellezza e la verità», forse assumendo un’impostazione implicitamente critica verso il contesto mediatico e commerciale dell’arte contemporanea: «Il mondo degli oggetti dell’arte […], come dice Plotino, è un mondo che bisogna comprendere tramite il silenzio». Ghilardi nota qui «un accordo con l’esercizio zen di distacco dalla verbosità concettuale che rischia di infiltrarsi in ogni forma di esperienza», perché «se di arte e di creazione si può parlare, con argomentazioni razionali, è anche vero che per penetrare a fondo in quel genere particolare di esperienza non ci si può far accompagnare sempre dal linguaggio concettuale».
Per Nishida Kitarō l’esperienza estetica non coincide con una esperienza estatica (ékstasis) in senso mistico occidentale, cioè capace di elevare lo spirito in una dimensione metafisica o trascendente abolendo per un certo tempo il contatto con la dimensione fisica o immanente; al contrario, egli orienta la riflessione su tale esperienza «verso un’immanenza tipica della sensibilità giapponese, che non proietta mai in un altrove trascendente la dimensione di spirito (seishin) che permea e avvolge ogni elemento naturale ed ogni oggetto d’arte» [3]. A tal proposito, un tema fondamentale in Kitarō è il «vedere» creatore, presente nell’individuo-artista e nella natura la quale, così come crea gli oggetti naturali (alberi, rocce…), crea gli oggetti d’arte attraverso l’artista: «Plotino dice che la natura (shizen) non produce vedendo, quanto piuttosto il vedere della natura è un produrre, ma a questo punto l’artista è la natura» [4].
Anche la natura, dunque, “vede” ciò che produce, non nel senso che sofferma la sua “vista” sul prodotto compiuto, bensì nel senso che lo contempla nel momento stesso in cui lo produce. Di conseguenza – commenta Ghilardi – «è in questo senso che si può parlare di una bellezza naturale [cioè esistente di per sé], poiché il vedere della natura – la naturalezza del suo vedere – rende la natura stessa “artista”» [5]. Questa considerazione, aggiungiamo noi, può far sorgere spontaneamente un primo confronto tra il pensiero di Nishida Kitarō e quello sorto in ambito giudaico-cristiano (come si vedrà più avanti, seguiranno ulteriori possibili confronti e affinità di questo genere): nel primo libro della Bibbia (Genesi, capitolo 1), come è noto, alla fine di ognuna delle sei categorie della creazione cosmica (astri, ecc.), si afferma che Dio «vide che era cosa buona». Da questo punto di vista, Dio “vede” la bontà delle sue creazioni così come la natura di Nishida ne “vede” la bellezza, e ciò fa pensare anche al duplice significato del termine greco kalòs, «bello» e «buono». In questo senso, l’affermazione biblica può essere equivalente a: «Poiché Dio vide che queste cose erano buone, le creò»; ma Dio dove e come potrebbe averle viste, e averne inteso la bontà-bellezza, se non in Se stesso? Ciò implica che in Dio sussistano gli archetipi di ogni cosa che a noi risulta visibile o tangibile. Nel filosofo giapponese sembra trovarsi un suggerimento in tal senso: «Il cosiddetto mondo della realtà non è l’unico mondo datoci. Anzi, bisogna dire che il mondo costituito tramite un simile concetto non è altro che la superficie della realtà. Dietro a un tale mondo c’è il fluire della vera realtà, riempito di una grande vita, il cui fondo è sconosciuto. Proprio questa realtà è l’oggetto dell’arte» [6]. Nishida tuttavia sembra non concepire gli archetipi al modo occidentale (greco) oppure non li distingue dalla loro matrice divina; dal suo punto di vista, gli oggetti naturali, gli oggetti d’arte e la stessa mente degli artisti sembrano piuttosto emanazioni dirette del medesimo ambiente metafisico: l’oggetto naturale (ad esempio una pianta di rose), la coscienza dell’artista che la dipinge e il dipinto che ne risulta, in ultima analisi hanno la stessa fonte, sono tre espressioni, o emanazioni, di una medesima realtà che le trascende e insieme le informa, cioè dà loro forma dall’interno. Con un paragone naturalistico (nostro), si potrebbe dire che l’arte sta all’artista come la schiuma sta all’onda, e l’artista sta al Divino come l’onda sta all’oceano: non vi sono fasi distinte nettamente, bensì un continuum di un’unica essenza dinamica (nel nostro esempio, l’acqua).
Anche per questa ragione, nella prospettiva di Nishida, si può capire come, al contrario di quanto accade in buona parte dell’ambito estetico-artistico contemporaneo, «l’essenza dell’artisticità non risieda in una soggettività prorompente, nella personalità di genio, bensì nella capacità di farsi uno con le cose che si intendono descrivere e figurare, con le emozioni che si fanno catturare e riprodurre». Da parte nostra, troviamo questa impostazione, improntata alla intelligenza (cioè al leggere l’interiore, intus lègere) del soggetto dell’opera d’arte piuttosto che all’espressione (talvolta egocentrica) della personalità dell’artista, analoga a quella espressa dal noto pittore Balthus (Balthazar Klossowski de Rola, 1908-2001, la cui seconda moglie fu proprio una giovane giapponese, Setsuko Ideta), in dialogo con la studiosa franco-cinese Xing Xiaozhou:
«La vera arte deve essere espressione di una ricerca di universalità e non mera manifestazione individuale. La grande arte, in Occidente come in Estremo Oriente, è sempre caratterizzata da una dimensione universale. Ha dichiarato lo stesso Balthus: “L’arte dev’essere anonima. L’artista non deve cercare di esprimersi, ma di esprimere l’universale. Da questo punto di vista, l’arte del medioevo e la pittura dei primitivi italiani condividono con l’arte cinese la medesima concezione.” […] Balthus fa propria la concezione cinese del rapporto tra uomo e natura, secondo la quale, in poche parole, l’essere umano non è che una piccolissima parte dell’universo. […] L’importante è ciò che l’arte evoca, non l’autore che l’ha creata. Alla ricerca di un’arte di tale portata, Balthus disapprova i colleghi contemporanei che cercano soltanto di inventare il proprio personale marchio, il cui significato non può che essere limitato: “I pittori di oggi dipingono per esprimere la loro ‘personality’, dimenticando che l’importante è l’universale”» [7].
Come già accennato, per Nishida l’attività creativa stessa dell’artista, in un certo senso, è addirittura soltanto apparente. Ghilardi riassume: «Il prodotto manifesto, l’opera che deriva dall’atto contemplativo, non è l’atto di un soggetto volitivo, o viceversa di una volontà soggettiva puntuale. La volontà sottesa all’atto creativo, l’origine di ogni forma artistica, preesiste a colui che viene poi identificato come l’autore dell’opera», vale a dire che la creazione artistica «muove da una forza originaria che non si riduce né si spiega se la si confina alla logica individuale di un unico soggetto operante, ma che deve essere fatta risalire alla potenza di una vita – attiva e contemplativa insieme – anteriore e prioritaria rispetto all’autore singolo. […] L’attività fondamentale, qui, non è l’esecuzione tecnica, ma la contemplazione, ovvero la capacità di lasciarsi permeare e attraversare dalla verità di questa attività formatrice e formativa» [8]. A questo proposito viene citato un brano fondamentale del filosofo nipponico (brano che, tra l’altro, smentisce lapidariamente i presupposti di una certa forma mentis etico-politica contemporanea):
«La verità non è qualcosa che si costituisce semplicemente in base a relazioni concettuali, alla radice della verità concettuale deve sempre esserci l’immagine creativa […]. Ogni falsità distrugge il bello, intacca il sacro. […] L’autentico sentimento religioso è uno stato d’animo assolutamente umile, uno stato d’animo in cui si è completamente rinunciato a sé» [9].
Ciò implica che esista una stretta relazione fra il sentimento artistico e quello religioso, e che quindi «bruttezza, falsità, peccato morale sono analoghe cadute, relative ai tre ambiti dell’estetica, della conoscenza e della morale; in tutti e tre questi ambiti, del resto, la cifra per raggiungere la completezza e la perfezione consiste in quella “rinuncia a sé” che si riscontra proprio nei grandi artisti così come nelle grandi personalità religiose» [10]. Possiamo aggiungere un riferimento assente nel testo, ma con cui l’autore, crediamo, concorderebbe: secondo Immanuel Kant, il sentimento artistico e quello religioso in taluni casi sarebbero accomunati anche da quello che il filosofo tedesco definiva «sentimento del sublime» [11].
Il seguito di questa riflessione sul brano citato di Nishida apre ulteriori collegamenti con la filosofia occidentale, non escluse alcune sue diramazioni più o meno esoteriche: «Anche una verità che si scopre o si svela tramite forme di argomentazione razionale mantiene al suo fondo, come scaturigine originaria, l’intuizione agente che mantiene vivo il contatto tra io e mondo, e li lega in un’unità indissolubile allo sfondo da cui entrambi sorgono» [12]. Sotto questo aspetto, a nostro parere vi è un’affinità tra il pensiero di Nishida e alcune riflessioni fondamentali della prima opera del filosofo ebreo Emmanuel Lévinas (1905-1995), Dall’esistenza all’esistente (1947), concepita durante la prigionia in un lager nazista. Lévinas si riferisce sovente a questo inevitabile fondamento ultimo, paragonabile a una tenebra o a un brusio indistinto sottostante a tutte le forme e a tutti i fenomeni, nei confronti del quale la coscienza dell’individuo si scopre parte integrante e insieme distinta: «il fondo oscuro dell’esistenza […] come una presenza monotona che ci opprime nell’insonnia», il «fondo indistinto» nel quale svaniscono, dal punto di vista fenomenico, tutti gli enti particolari, e che costituisce la «trama di ciò che dura, di ciò che è duraturo» [13]. Tale dimensione fondante è priva di ogni attributo, di ogni specificazione, ma «c’è» (in francese, il y a), esiste a priori: qui sorge spontaneo un parallelo con la definizione di Dio nella tradizione ebraica: «Io sono Colui che sono», o anche «Colui che È» (Esodo, cap. 3), dove all’Essere non è aggiunta nessuna specificazione particolare, a indicare che YHWH è l’Essere stesso dal quale sorge ogni altra forma di essere. La percezione della presenza ineliminabile di questa realtà è paragonata in modo originale e suggestivo da Lévinas all’inevitabile percezione di sé che l’individuo esperisce nell’insonnia, quando, nonostante sia assente la luce diurna che ci mostra i molteplici fenomeni grazie ai quali constatiamo l’esistenza nostra e del mondo, la nostra coscienza resta vegliante o «vigile»:
«Nell’insonnia, non sono io che vigilo, è la notte stessa che veglia. Ciò [ça] veglia. In questa veglia anonima in cui io sono interamente esposto all’essere, tutti i pensieri che riempiono la mia insonnia sono sospesi a nulla. Sono privi di supporto. Più che il soggetto, io sono, per dir così, l’oggetto di un pensiero anonimo. È vero che faccio almeno l’esperienza di essere oggetto, che prendo ancora coscienza di questa vigilanza anonima; ma ne prendo coscienza in un movimento in cui l’io si è già staccato dall’anonimato e in cui la situazione limite della vigilanza impersonale si riflette nel rifluire di una coscienza che l’abbandona» [14].
In questa situazione, paradossalmente descrivibile come spersonalizzazione personalizzante, l’individuo si scopre elemento immerso inevitabilmente in una dimensione che, nonostante l’assenza di ogni fenomeno definibile come diurno, «c’è» (il y a): in tal modo, l’individuo percepisce se stesso come «un nome che si è staccato dal brusio anonimo dell’il y a» [15]. Questo fondamento linguisticamente «anonimo», che Lévinas definisce anche «retromondo [che] prolunga il mondo» [16], è tuttavia l’humus metafisico nel quale nasce ogni essente, o ipostasi, cioè ogni coscienza umana: «Sullo sfondo dell’ il y a sorge un essente. […] Attraverso l’ipostasi, l’essere anonimo perde il suo carattere [impersonale] di il y a. L’essente – ciò che è – è il soggetto del verbo essere, e, di conseguenza, esercita una padronanza sulla fatalità dell’essere che è divenuto il suo attributo. Esiste qualcuno che assume l’essere, il quale ormai è il suo essere» [17]. In questo senso l’Essere, realtà assoluta, si rende realtà-attributo di ogni essente particolare: attua cioè una riduzione di sé in una forma contingente, in un elemento soggetto al divenire, senza tuttavia diminuire se stesso; qui viene in mente la concezione di Deus contractus presente nel filosofo tedesco Nicola Cusano – confrontato più volte con Nishida Kitarō da Marcello Ghilardi, come si vedrà in seguito – secondo il quale Dio, al principio dei tempi, contrasse se stesso restringendosi nell’universo fenomenico: tale concezione ha una corrispondenza nella Qabbalah ebraica, dove troviamo il concetto di tzimtzum, «contrazione» di Dio nel cosmo. Analogamente – ma su questo si tornerà più avanti – Nishida Kitarō parlerà di una azione kenotica del Divino, ossia, utilizzando un termine greco tratto dalla dottrina dell’incarnazione propria del Cristianesimo, di svuotamento o spoliazione (kénosis) di sé.
Da parte sua, Ghilardi accosta a questa riflessione sul rapporto tra essente ed Essere, non Lévinas (mai menzionato nel suo saggio), ma Plotino, a proposito del quale cita un brano del pensatore novecentesco Pierre Hadot dedicato al filosofo greco: «Finché si è in contatto con la presenza divina, non c’è più opposizione tra mondo esteriore e mondo interiore. È lo stesso mondo delle Forme, lo stesso Pensiero divino, la stessa Bellezza, in cui ogni cosa è in comunione con le altre in una via spirituale unica che l’individuo scopre all’interno e al di fuori di sé» [18]. Si scopre cioè la compresenza tra la realtà assoluta (l’Essere, il trascendente, il Divino invisibile) e la realtà relativa (il cosmo tangibile, compreso e soprattutto l’individuo-osservatore) definibile paradossalmente come «vedere senza vedente», nel senso che il vedente stesso scopre di essere parte della realtà che sta contemplando e, quindi, di condividere in un certo modo la sua stessa “vista”: «comincia allora il vero vedere, quello che dipende dalla relazione intrinseca di occhio e cosa, di vedente e veduto, e che fa scomparire questi termini come termini contrapposti» [19]. Non vi sono, afferma Nishida citando Plotino, «da un lato l’intelligenza che pensa e dall’altro l’oggetto pensato, ma c’è uno splendore che genera queste cose in una certa successione» [20]. Questa concezione ci sembra analoga a quella che Johann Wolfgang Goethe sintetizzava nella frase: «Se l’occhio non fosse esso stesso solare, non potrebbe mai scorgere il Sole» (wer nicht das Auge sonnenhaft, die Sonne könnt es nie erblicken) [21]. Analogamente, si può affermare che se la coscienza non fosse una proprietà del cosmo – il quale, secondo la teoria cosmologica attualmente prevalente, precede la nascita della specie umana di alcuni miliardi di anni – non potrebbe essere una proprietà essenziale dell’essere umano, che in questo stesso cosmo è sorto per ultimo come un apice o un coronamento (questa impostazione è propria di diversi scienziati-filosofi del «principio antropico»: Pierre Teilhard de Chardin, Frank Tipler, John Polkinghorne, ecc.). Perciò, quando il vedente riesce a non pensare se stesso come un «io» avulso dall’Essere del quale contempla il molteplice aspetto fenomenico, non si riduce a un vuoto o a un nulla, bensì scopre di essere egli stesso l’espressione fenomenica per eccellenza dell’Essere.
Da questo punto di vista, anche l’essere umano contemplativo attua una kénosis di se stesso, una abolizione non del sé, non di quello che nell’Induismo è chiamato atman (che è ineliminabile), ma dell’io abitualmente concepito in termini ideologici, sociali, psicologici; a questo proposito Ghilardi menziona brevemente ma giustamente il pensiero zen, citando da un’opera dello scrittore statunitense Thomas Hoover (1941-vivente) che include un passo del noto mistico tedesco Meister Eckhart: «All’improvviso Dio viene nel tuo essere e nelle tue facoltà perché tu sei come un deserto spogliato di tutto quello che è particolarmente tuo» [22]. Sia nello zen, sia in questo genere di contemplazione, «risulta fondamentale lo spogliamento, lo svuotamento (Entbildung) da ogni immagine – od opinione preconcetta, o idea fissa, irrigidita – ritenuta un possesso soggettivo personale» [23]. Esemplificativa di questa disposizione e della sua imprescindibilità è un aneddoto presente appunto nel patrimonio dottrinale-tradizionale zen: «Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. “È ricolma, non ce ne entra più!”. “Come questa tazza”, disse Nan-in, tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo zen, se prima non svuoti la tua tazza?”» [24].
Note:
1 – Marcello Ghilardi, L’unità di buono, bello e vero nell’estetica di Nishida Kitarō, in Premio Nuova Estetica della Società Italiana d’Estetica, collana “Supplementa”, Centro Internazionale Studi di Estetica-Università degli Studi di Palermo, 2009, pp. 203-228.
2 – Ibidem, ivi, p. 203 (anche per le successive tre citazioni).
3 – Ibidem, ivi, p. 204.
4 – Citato in Ibidem, ivi.
5 – Ghilardi, op. cit. p. 204.
6 – Ibidem, ivi, p. 205 (anche per la citazione successiva).
7 – Xing Xiaozhou, “Il paesaggio è molto cinese in questo momento”. L’influenza della pittura cinese nel paesaggio di Balthus, in Jean Clair (a cura di), Balthus, con Catalogo delle opere a cura di Virginie Monnier, Milano, Bompiani, 2001, p. 89.
8 – Ghilardi, op. cit. p. 206.
9 – Citato in ibidem, ivi.
10 – Ibidem, ivi.
11 – Cfr. Immanuel Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime [1764], Milano, RCS Libri, 1998.
12 – Ghilardi, op. cit., pp. 206-207.
13 – Emmanuel Lévinas, Dall’esistenza all’esistente, Genova, Marietti, 1986, ristampa 2001, pp. 52, 53, 68.
14 – Ibidem, ivi, p. 60.
15 – Ibidem, ivi, p. 79.
16 – Ibidem, ivi, p. 77.
17 – Ibidem, ivi, p. 75.
18 – Pierre Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Torino, Einaudi, 1999, p. 34, citato in Ghilardi, op. cit., p. 207.
19 – Ghilardi, op. cit., p. 207.
20 – Plotino, Enneadi, VI, 7, 36, 19-23 (trad. it. Milano, Bompiani, 2000, p. 1279), citato in Ghilardi, op. cit., p. 207.
21 – Johann Wolfgang Goethe, Teoria dei colori [1810], citata in Julius von Schlosser, L’arte del Medioevo, trad. it. Torino, Einaudi, 2004, p. 114, nota 1 (di redazione, sul volume stesso).
22 – Manca nel testo il titolo del libro di Thomas Hoover: nella nota relativa compare soltanto «Ibidem», riferito alla nota precedente: «T. Hoover, op. cit., p. 118». Il libro di Hoover potrebbe essere La cultura Zen (1977) oppure The Zen experience (1980).
23 – Ghilardi, op. cit., p. 208.
24 – 101 storie Zen, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Milano, Adelphi, 2000, p. 13.
(fine prima parte, continua…)
Piervittorio Formichetti