Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Giovanni Pascoli e la Via Lattea – Prima Parte – Rosa Ronzitti
Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea;
nel cielo infinito,
dar nuova dolcezza al vagito.
(Il fanciullino, cap. XIX)
1 .Non deve stupire che il sublime poeta, così attento alla dimensione cosmica e astrale, renda la Via Lattea una presenza importante del suo immaginario (1), utilizzando tanto i nomi della tradizione greco-latina (Via Lattea e Galaxia/Galassia) quanto denominazioni di chiara origine popolare. Nel Pascoli, infatti, l’elevatissima cultura classica si fonde con l’attenta conoscenza del mondo e delle tradizioni contadine e, non da ultimo, con letture scientifiche mirate, come il volume Astronomie populaire del Flammarion, che servì al poeta per la stesura de Il ciocco (Canti di Castelvecchio) in un momento storico in cui un certo “misticismo astrale” tendeva a sostituire la visione meccanicistica e positivistica del cosmo (2). Il testo dell’autore francese, pur fortemente basato su dati empirici e positivi, non rinunciava infatti a rappresentare una terra e un sole sperduti nell’universo, éternel abyme, e a dar voce alla paura di urtare un giorno un soleil éteint perdu comme un récif sur notre passage (3), riflettendo un senso di piccolezza e smarrimento piuttosto che una fiducia cieca nella scienza e nella centralità dell’uomo.
2 . Fondamentalmente la figuralità della galassia oscilla tra due poli: quello del latte e quello del fuoco. Il primo, tolto l’incerto caso dell’omerico (ἐν) νυκτός ἀμολγῷ‘ il munto della notte’ (che potrebbe indicare il culmine della notte), inizia con sicurezza dal sintagma parmenideo γάλα οὐράνιον (28 B 11 DK); il secondo si afferma grazie alla Meteorologia di Aristotele (parte I, cap. viii), ma ha antecedenti pitagorici che il filosofo stesso riporta, per confutarli, allorché espone le sue proprie (ed errate) teorie galassiogeniche (vd. infra).
Sono rispettivamente l’allattamento di Era (polo del latte) e la caduta di Fetonte (polo del fuoco) a fornire la trasposizione mitica del modo in cui la candida striscia di stelle sarebbe comparsa nel cielo notturno.
La notissima storia del latte sparso in cielo da Era durante l’allattamento del piccolo Eracle parrebbe un’elaborazione dell’alessandrino Eratostene, catasterismo erudito che nasce forse dal tentativo di spiegare l’antica metafora poetica del γάλα. Tale racconto, ampiamente diffuso e variamente modulato dalle letterature greca e latina, non attrae l’attenzione di Pascoli, il quale tuttavia mostra di conoscere e rielaborare da par suo l’identità tra latte e stelle in L’anima (Odi e Inni) (4). Qui, dopo aver rovesciato il rapporto tra vita e morte e sperando in un risveglio della coscienza individuale nell’aldilà celeste, il poeta termina con un chiaro riferimento alla Via Lattea (vv. 25-32):
Là stelle si uniscono a stelle:
son grappoli, nuvole, ammassi
di stelle e stelle e stelle,
crescenti ad un sospir che passi.
Là splendono le anime, intatte,
serene, con l’essere immerso
nella goccia di latte
che fluisce per l’universo.
È radicata in molte culture, si direbbe quasi un universale di pensiero, la convinzione che le anime dei defunti salgano verso la Galassia attraversandola o fermandovisi: in base a ciò, essa è vista di volta in volta rispettivamente come ponte, via o sede dei morti (5). Titolo della poesia, come risulta dall’Archivio Pascoli, doveva essere in prima battuta proprio Il cielo dei morti e la penultima quartina, accennando al sospiro che accresce le stelle, intende senz’altro il momento in cui l’uomo, spirando (un sospir che passi), diventa anima astrale e raggiunge chi lo ha preceduto. Siamo nell’ambito di un pensiero postplatonico che risale al Somnium Scipionis di Cicerone, a Porfirio e al Macrobio del commento al Somnium.
L’ultima quartina si iscrive molto bene nel neoplatonismo porfiriano espresso dall’operetta esegetica L’antro delle Ninfe (par. 28):
Per Pitagora le anime sono «popolo di sogni» che, egli dice, si riuniscono nella Via Lattea, così chiamata dalle anime che, quando cadono nella generazione (ὅταν εἰς γένεσιν πέσωσιν), si nutrono di latte. Per questo chi evoca le anime offre loro libagioni di miele mescolato a latte: perché attratte dal piacere esse giungono alla generazione, e il latte compare naturalmente insieme al loro concepimento.
Chiara Simonini (6) ha mirabilmente ricostruito i rapporti che collegano questo passo cruciale a Proclo (In Plat. Remp. 2, pp. 128, 26-130, 14 Kroll) e Macrobio (In Somn. Scip. I 12 3). Per i due filosofi tardoantichi, entrambi rifacentisi all’autorità di Pitagora, il latte è il nutrimento dei neonati in quanto essi “cadono” dalla Via Lattea e si cibano del liquido che ricorda loro le origini celesti: Porfirio rovescia invece il rapporto e fa derivare il nome Γαλαξίας dal primo nutrimento assunto dalle anime incarnate. Notiamo, per inciso, che il concetto di ‘cadere nella generazione’ è già usato da Porfirio in un paragrafo precedente (par. 10) per delucidare il pensiero eracliteo (quindi assai antico):
bisogna sapere che questi sono le anime che, planando sull’acqua, discendono nella generazione (τὰς εἰς γένεσιν κατιούσας).). Di qui il detto di Eraclito «per le anime è piacere, non morte, divenire umide» (7).
Ha ragione la Simonini nel ricollegare questo insieme di credenze astrali ai testi incisi sulle cosiddette Lamine Orfiche: tali preziose testimonianze, venute alla luce in un arco temporale che va dalla prima metà dell’Ottocento ai giorni nostri in Grecia, Magna Grecia, Creta e Roma, costituiscono un corpus di formule relativo a un culto di tipo orfico-pitagorico assai diffuso. Si tratta di una sorta di breviario che accompagnava l’anima del defunto nel viaggio finale, promettendo la liberazione dal gravoso ciclo delle vite terrene: in una lamina di Petelia già nota nel 1834 e pubblicata a più riprese da svariati studiosi, fra i quali Domenico Comparetti (che il Pascoli ben conosceva) (8), la natura astrale dell’anima è sancita dalla formula recitata dal morto davanti ai ‘guardiani’ (φύλακες) dell’aldilà (rr. 6-7) (9):
εἰπεῖν˙ «Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος,
αὐτὰρ ἐμοὶ γένος οὐράνιον …»
‘Di’: «Sono figlia della terra e del cielo stellato,
celeste è la mia stirpe …»’.
Oltre a ciò, due lamine auree scoperte nel 1879 e 1880 in Calabria e subito edite, contengono espressioni e stilemi che compaiono anche ne L’anima.
La prima, commentata dal Comparetti nel 1879 (10), proviene dal “Timpone Grande” di Thurii e inizia con il verso (11)
ἀλλ’ ὀπόταμ ψυχὴ προλίπηι φάος ʼAελίοιο
‘Ma quando l’anima lascia la luce del sole’
che combacia con i vv. 9-10 de L’anima:
E dopo il fuggevole giorno
dell’unico piccolo sole …
Quanto al già citato finale dell’ode pascoliana
Là splendono le anime, intatte,
serene, con l’essere immerso
nella goccia di latte
che fluisce per l’universo
esso richiamerà la seconda parte del quarto rigo:
θεὸς ἐγένου ἐξ ἀνθρώπου˙ ἔριφος ἐς γάλα ἔπετες.
‘Dio divenisti da mortale: agnello cadesti nel latte’.
Del famosissimo ed enigmatico stilema ‘cadere nel latte’, ricorrente con varianti anche in altre lamine (dove l’animale che cade può essere ariete e toro), sono state date numerose interpretazioni (12). Una delle prime, che Pascoli avrebbe anche potuto conoscere, risale ad Albrecht Dieterich. Il celebre storico delle religioni si addottorò infatti nel 1891 con una tesi dal titolo De Hymnis Orphicis capitula quinque (Marpurgi Cattorum, Impensis Elwerti Bibliopolonae Academici, pp. 96-97): qui l’oscurità della formula, di cui egli tuttavia intuì l’importanza, era interpretata sia in riferimento al culto dionisiaco (ἔριφος, ἐρίφιος erano epiteti greci di Dioniso), sia con l’idea che il latte rappresentasse la Via Lattea, in quanto luogo nel quale il mystēs tornava ad abbeverarsi, dopo la morte, come infante alle mammelle della madre. Questa prima e interessante suggestione, in piena consonanza con i versi pascoliani (che sembrerebbero in effetti un avallo poetico di tale lettura critica), fu negata dieci anni dopo da Solomon Reinach sulla «Revue Archéologique» (13). Paradossalmente, la pars destruens del Reinachè inesistente: non solo egli non ha elementi per mettere in dubbio la proposta del Dieterich, ma ne rafforza anzi il peso, allorquando osserva che il verbo ‘cadere’ è usato da Euripide specificamente per la migrazione delle anime defunte e che ‘capretto’ è anche nome di una costellazione che si trova ai piedi della Via Lattea. Se l’intento del Reinach era di dimostrare che la formula alludesse piuttosto a un tuffo dell’iniziato in una vasca piena di latte, dobbiamo ammettere che egli non vi è riuscito: non esistono tracce del rituale da lui ipotizzato né fonti antiche ben informate sui misteri, quale per esempio Clemente Alessandrino, vi fanno cenno (14). La citazione del passo euripideo dell’Elena (1013-1016) mostra, al contrario, che credenze circa la “caduta” delle anime in cielo dovevano essere ben diffuse nel mondo greco:
καὶ γὰρ τίσις τῶνδ᾽ ἐστὶ τοῖς τε νερτέροις
καὶ τοῖς ἄνωθεν πᾶσιν ἀνθρώποις· ὁ νοῦς
τῶν κατθανόντων ζῇ μὲν οὔ, γνώμην δ᾽ ἔχει
ἀθάνατον εἰς ἀθάνατον αἰθέρ᾽ ἐμπεσών
‘Infatti di ciò vi è sanzione che si applica sia ai defunti
sia a tutti i vivi: la mente
dei morti non sopravvive, ma ha consapevolezza
immortale quando cade nell’etere immortale’.
Per bocca della sacerdotessa Teònoe, figlia di Proteo, Euripide esprime la stessa idea delle lamine auree, idea che potrebbe se non dimostrare, almeno giustificare un’interpretazione astronomica del ἐς γάλα ἔπετες (15).
Alla luce di una seconda laminetta di Thurii, pubblicata ancora dal Comparetti (1880) (16), si rafforzano ulteriormente i rapporti tra volo dell’anima e caduta nella Galassia:
κύκλου δ̕ ἐξέπταν βαρυπενθέος ἀργαλέοιο …
ἔριφος ἐς γάλα ἔπετον.
‘Sfuggii dal cerchio di pesanti sofferenze, terribile …
Capretto caddi nel latte’.
Sfuggire al ciclo delle vite è un volo (ἐξέπταν), raggiungere il cielo è una caduta (ἔπετον). La radice di πέτομαι e πίπτω, come ben si sa, è una, *pet-, che in greco si divide in due sotto famiglie enantiosemiche da noi altrove esaminate (17) e la cui duplicità fondamentale è ben presente al grecista Pascoli, allorché, con straordinaria maestria, egli immagina la folle corsa cosmica del fanciullo in La vertigine (Nuovi Poemetti), vv. 25-28 (18):
Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
Getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!
A un nulla, qui, per non cadere in cielo!
La prospettiva è cambiata: il cielo qui non è affatto la sede luminosa dell’anima, che si accende quando il sole cade (cioè muore agli occhi umani) e neppure il luogo indifferente di Leopardi (cadde, ma il suo cader non vide il cielo, Paral. V 46) (19), ma piuttosto un abisso oscuro, dantescamente denominato cupo (La vertigine, vv. 13-14):
Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo …,
che è il modo con cui Dante chiama il baratro infernale (Inf. VII 10-12):
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo.
E cupo torna, come aggettivo di profondità e colore, tanto ne L’anima (la notte agli occhi umani/ innumerevolmente cupa?) quanto, di nuovo, ne La vertigine (in quel cupo vortice di mondi …). I due componimenti si concludono però in divergenza: ne La vertigine la caduta cosmica termina con un annientamento di nebulosa in nebulosa e la fredda luce degli astri non consola il nichilismo radicale e assoluto del poeta; il finale de L’anima, invece, coglie un momento (e)statico, puro: non vi è minaccia di generazione e la morte rappresenta il risveglio sereno (20) alla vera vita, tra il latte puro delle stelle.
3 . L’anima vive volando/cadendo nella Galassia, l’anima muore volando/cadendo dal cielo alla terra e lascia dietro di sé una pista bruciata, scia di stelle: è il mito di Fetonte, che rappresenta il “polo del fuoco” (vd. supra) e che nella Meteorologia Aristotele ricollega alla galassiogenesi riferendo detti altrui (I viii 345a):
Fra i cosiddetti Pitagorici gli uni affermano che essa (la Galassia) è la traiettoria di uno degli astri precipitati quando avvenne la famosa caduta di Fetonte, altri che il sole una volta percorreva questo cerchio, come se questo luogo fosse stato bruciato o avesse subito delle conseguenze del genere in seguito alla traslazione del sole (21).
Diodoro Siculo (V 23), d’altro canto, nel narrare di Fetonte per spiegare l’origine dell’ambra dalle lacrime cristallizzate delle sorelle Eliadi, ritiene che la Galassia ebbe origine quando il giovane figlio del Sole perse il controllo del carro paterno e, sbandando, bruciò una parte del cielo (22).
In sostanza tale mito celebrerebbe la memoria di un grande evento catastrofico accaduto in tempi ancestrali: la consapevolezza di una sua lettura allegorica sarebbe stata custodita dai Pitagorici (e da Platone) (23), laddove però nel mondo classico la fruizione della celebre vicenda di hybris punita è soprattutto letteraria ed etica.
Nel Ciocco (Canti di Castelvecchio), massima sintesi del pensiero astrale pascoliano (24), tutta la seconda parte del poemetto consiste in una riflessione sul destino della terra e dell’universo che utilizza per un certo tratto la storia di Fetonte. Mai direttamente nominata ma chiaramente allusa, fornisce lo spunto all’immagine del pianeta che, a guisa di carro impazzito, entra nel sistema solare lasciando frammenti infuocati (II 61-78):
Ed incrociò con la sua via la strada
d’un mondo infranto, e nella strada ardeva,
come brillante nuvola di fuoco,
la polvere del suo lungo passaggio.
Ma niuno sa donde venisse, e quanto
lontane plaghe già battesse il carro
che senza più l’auriga ora sfavilla
passando rotto per le vie del Sole.
Né sa che cosa carreggiasse intorno
ad uno sconosciuto astro di vita,
allora forse su di lui cantando
i viatori per la via tranquilla:
quando urtò, forviò, si spezzò, corse
in fumo e fiamme per gli eterei borri,
precipitando contro il nostro Sole,
versando il suo tesoro oltresolare:
stelle; che accese in un attimo e spente,
rigano il cielo di un pensier di luce.
Ci può essere davvero un’influenza del testo di Flammarion, che, nella bella traduzione italiana del Sergent-Marceau, risuonava con accenti di non minor angoscia:
Che cosa diventeremo noi? Urteremo noi qualche giorno un sole spento perduto come uno scoglio sul nostro cammino? (25).
Il raro verbo carreggiare, usato da Pascoli nel senso di ‘trasportare’ (transitivo) (26), è ripresa di un hapax dantesco (intransitivo) il cui retroterra mitico non lascia adito a dubbî (Pg. IV 72):
… la strada/
che mal non seppe carreggiar Fetòn …
La strada rappresenta ovviamente il percorso diurno del sole (27) e la terzina ha un precedente nel Convivio, quando Dante riporta le diverse opinioni dei filosofi sulla Galassia (II XIV 5):
E per la Galassia ha questo cielo similitudine grande colla Metafisica. Per che è da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno avute diverse oppinioni. Ché li Pittagorici dissero che ’l Sole alcuna fiata errò nella sua via e, passando per altre parti non convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi quella apparenza dell’arsura: e credo che si mossero dalla favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del [secondo del suo] Metamorfoseos (28).
Pascoli attinge pienamente alla fonte dantesca anche in L’ultimo viaggio. II. L’ala (Poemi Conviviali): qui carro e strada tornano, insieme, allorché Odisseo in persona osserva la costellazione dell’Orsa Maggiore (ovvero il Grande Carro), le cui auree rote lievi sbalzar sulla/ tremola ghiaia della strada azzurra. Detto carro, pur non essendo quello di Fetonte, procede sulla Via Lattea, immaginata come ghiaia azzurrina solcata da ruote. Stretta è la corrispondenza con il medesimo luogo del Purgatorio appena citato: infatti, pochi versi prima di nominare Fetonte, Virgilio, spiegando la posizione del sole, menzionava insieme Orse (costellazioni), ruote e carreggiate celesti (Pg. IV 64-66):
tu vedresti il Zodiaco rubecchio
ancora a l’Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio…
La terzina anticipa il successivo la strada/ che mal non seppe carreggiar Fetòn, il quale Fetonte, appunto, fece uscire il sole dal cammin vecchio, provocando una catastrofe di dimensioni immani, che nell’Inferno era già stata ricordata come “cottura” del cielo (Inf. XVII 106-108):
Maggior paura non credo che fosse
Quando Fetonte abbandonò li freni
perché ’l ciel, come pare ancor, si cosse (29).
A testimonianza degli intarsi danteschi contenuti nel Ciocco stanno anche i versi II 160-163:
Io guardo là dove biancheggia un denso
sciame di mondi, quanti atomi a volo
sono in un raggio: alla Galassia …
terzina pascoliana che tutta rievoca una terzinadel Paradiso (Pd. XIV 97-99) nella quale si menzionano i dubbî dei saggi circa la vera natura della Via Lattea (30):
Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra ’ poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi.
E dunque carreggia (v. 69) e biancheggia (v. 160), verbi in rima riservati dall’Alighieri alla Galassia, sono ne Il ciocco preziose spie di quanto la visione cosmica del poemetto debba al cielo della Divina Commedia.
Come abbiamo visto dalla citazione del Convivio, Dante riposa su Ovidio, che rappresenta il più importante locus classico per il mito di Fetonte (l’ultima parte del libro primo e gran parte del libro secondo delle Metamorfosi sono ad esso dedicati). Pascoli, a sua volta, ne trae ampia ispirazione. Nelle Metamorfosi la narrazione si incentra sulla folle corsa dell’incauto giovinetto attraverso il cielo sul carro paterno, sul rapido attraversamento delle costellazioni ‒signa mostruosi in agguato fra le plaghe dell’universo‒ e sul senso di terrore (gelida formidine, Met. II 200) che a poco a poco emerge allorché i cavalli diventano indomabili: ciò può aver suggerito al Pascoli la potente immagine della terra che rotola impazzita fra gli astri (31). Le leggi della fisica astronomica hanno un correlativo psicologico, poiché corrispondono a sentimenti di angoscia estrema che coinvolgono tutto il cosmo, terminando in un gigantesco scontro di mondi e costellazioni in volo, anzi caduta (II 216-218):
all’infinito lor volo li impenni,
anzi no, li abbandoni all’infinita
lor caduta: a rimorir perenni …
Nella stupenda immagine delle stelle cadenti, definite con sintagma anagrammatico tesoro oltresolare, che rigano il cielo di un pensier di luce, cogliamo ancora un riferimento alle Metamorfosi, quando la morte di Fetonte è paragonata al cadere di una stella (Met. II 319-322) e il giovinetto precipita (cade) come ne La vertigine:
Phaethon rutilos flamma populante capillos
volvitur in praeceps longoque per aera tractu
fertur, ut interdum de caelo stella sereno,
etsi non cecidit, potuit cecidisse videri.
Note:
1 – Cogliamo la definizione dal celebre articolo di Giovanni Getto, Giovanni Pascoli poeta astrale, in Francesco Flora (a cura di), Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, Vol. III, 1962, pp. 35-73. Sulla Via Lattea si vedano: Hermann Rotzler, Die Benennungender Milchstrasse in Französischen, Basel: K. B. Hof- und Universitätsbuchdruckerei von Junge&Sohn, 1913; Carlo Volpati, Nomi romanzi della Via Lattea, in «Revue de Linguistique Romane» 9, 1933, pp. 1-51; Simona Musso, La Via Lattea dei Greci e dei Romani. Manilio, Astronomica, I 666-804, Vercelli: Edizioni Mercurio 2012; Rosa Ronzitti, Pertinenze linguistiche e filosofiche di un capolavoro pittorico, la rappresentazione della Via Lattea nella Fuga in Egitto di Adam Elsheimer (1609), in «Lumina. Rivista di Linguistica storica e di Letteratura comparata» I/1-2 2017, pp. 129-158. A livello più generale (con apparato scientifico e illustrazioni) cfr. anche Francesco Bertola, Via Lactea. Un percorso nel cielo e nella storia dell’uomo, Cittadella: Biblos, 1995.
2 – La fascinazione verso la religione delle stelle coincide con un momento di fertili ricerche accademiche sui “Caldei”; ne sia esempio l’articolo di Franz Cumont, Mysticisme astral dans l’antiquité, apparso nel «Bulletin de l’Académie Royale de Belgique (Classe desLettres, etc.)» 5, 1909, pp. 256-286, in cui si percepisce a ogni riga l’ammirazione del grande studioso verso il culto degli astri, che dall’origine mesopotamica sarebbe passato senza interruzione all’Iran e al pensiero platonico e neoplatonico.
3 – Il volume fu letto nella traduzione italiana di Ernesto Sergent-Marceau (Milano: Sonzogno, 1887) secondo quanto riporta Giuseppe Nava (a cura di), Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, Milano: Biblioteca Universale Rizzoli, 1991, p. 141.Le citazioni sono qui tratte dall’originale francese Camille Flammarion, Astronomie populaire, Paris: C. Marpon et E. Flammarion Éditeurs, 1880, p. 804 (le pp. 804-827 sono dedicate a Via Lattea, nebulose, ammassi stellari, corrispondenti alle pp. 761-781 della traduzione italiana).
4 – Fu pubblicata per la prima volta sul «Marzocco» nel 1905 e quindi in raccolta nel 1906. Consta di 8 quartine di novenarî e un settenario (9+9+7+9) a schema metrico ABaB. Ogni citazione di Pascoli si intende presa dall’edizione integrale di Augusto Vicinelli, Milano, Mondadori, 1968, 2 Voll.
5 – Cfr. Luigi M. Lombardi Satriani – Mariano Meligrana, Il ponte di San Giacomo, Palermo, Sellerio, 1996.
6 – Cfr. Chiara Simonini (a cura di), Porfirio, L’antro della Ninfe, Milano: Adelphi 2010 (ed. or. 1986), p. 75 per la traduzione e pp. 216-222 per il commento.
7 – Così in Porfirio. Nell’edizione canonica dei Presocratici il frammento eracliteo (B 77 DK) recita invece ‘per le anime è piacere o (ἤ) morte divenire umide’, ma ἤ è una congettura del Diels (cfr. Hermann Diels – Walther Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, griechisch und deutsch, Berlin: Weidmann, Vol. I, 1951, p. 168).
8 – Su questo punto cfr. Luciano Bossina, I rapporti fra Italia e Germania nella filologia classica (1920-1940), in Andrea Albrechtet alii, Die akademische »Achse Berlin-Rom«?, Berlin/Boston:Walter de Gruyter, 2017, pp. 229-304. L’articolo del Comparetti, intitolato, The Petelia Gold Tablet, apparve in «The Journal of Hellenic Studies» III, 1882, pp. 111-118.
9 – Citiamo secondo Giovanni Pugliese Carratelli, Le lamine d’oro orfiche, Milano: Adelphi 2001 (I A 2. Petelia, pp. 67-72), ma si veda anche, a cura di Alberto Bernabé, il volume Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta. II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, 2, München-Leipzig: Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, 2005 (476 F, pp. 33-35).
10 – Il commento, che subito individua il carattere “mistico” del testo, è contenuto in un lungo resoconto archeologico di Giuseppe Fiorelli, Notizie degli scavi di antichità (seduta del 15 giugno 1879), in «Atti della R. Accademia dei Lincei, Anno CCLXXVI 1878-1879, Serie Terza Memorie (Notizie degli Scavi)», Volume III, pp. 297-338, in part. pp. 329-331.
11 – Nell’edizione di Pugliese Carratelli la tavoletta è catalogata II B 2.Thurii (pp. 112-113); secondo l’edizione Bernabé è 487F (pp. 51-54).
12 – Se ne veda un bilancio recente in Gérard Lambin, «Je suis tombé dans dul ait». À propos de formules dites orphiques, in «Gaia» 18, 2015, pp. 507-519.
13 – Cfr. Solomon Reinach, Une formule orphique, «Révue de Archéologique», s. terza, XXXIX, 1901, II, pp. 202-212.
14 – Cfr. per queste critiche Gérard Lambin, «Je suis tombé dans du lait»., cit., p. 509. A dire il vero, le varie prospettive non ci sembrano inconciliabili perché potrebbe sussistere un duplice binario: simbolico, secondo cui il latte significasse la Via Lattea, e rituale, secondo cui l’iniziato dovesse bagnarsi (senza necessariamente immergersi del tutto in una vasca) con tale bevanda per alludere al viaggio astrale della sua anima.
15- Recentemente l’interpretazione astrale del Dieterich è stata rilanciata da Daniel J. Jakob, Milk in the Gold Tablets from Pelinna, in «Trends in Classics» 2, 2010, pp. 64-76: egli sottolinea che l’ariete e il toro balzanti nel latte come varianti/aggiunte al capretto sono anche nomi di costellazioni (in lamina di Pelinna II B 3., Pugliese-Carratelli, pp. 114-120 e 485 F Bernabé, pp. 43-51).
16 – Cfr. Domenico Comparetti, in Notizie degli scavi di antichità (seduta del 16 maggio 1880), in «Atti della R. Accademia dei Lincei, Anno CCLXXVII, 1878-1879, Serie Terza Memorie (Notizie degli Scavi)», Volume V, 1880, pp. 361-422, in part. pp. 403-410. Il reperto, proveniente dal Timpone piccolo, di trova al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, n. 111625; mm 51×36 (= II B 1.Thurii Pugliese-Carratelli, pp. 102-111 e 488 F Bernabé, pp. 55-61).
17 – Cfr. Rosa Ronzitti, Due metafore del caso grammaticale. Aind. víbhakti- e gr. πτῶσις. Preistoria e storia comparata, Innsbruck: Innsbrucker Beiträge zur Sprachwissenschaft, 2014, pp. 170-172.
18 – Apparsa per la prima volta in «Rassegna contemporanea» del gennaio 1908.
19 – Per l’importanza di questo esametro nella fondazione di un’epica moderna cfr. Enrica Salvaneschi, Lo screzio dell’epica, in Mario Negri et alii (a cura di), Il lessico della classicità nella letteratura europea moderna, Vol. II: Epica e Lirica, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2012, pp. 809-897, in part. p. 809.
20 – L’aggettivo pascoliano riprende le Metamorfosi di Ovidio proprio nel punto in cui inizia la descrizione della galassia: Est via sublimis, caelo manifesta sereno (I 168);a loro volta le Silvae di Stazio (I 2 51) parlano di serenati qua stat plaga lactea caeli, cfr. Simona Musso, La Via Lattea dei Greci e dei Romani, cit. p. 88. Su Ovidio si veda nel paragrafo subito seguente.
21 – Le traduzioni, con qualche modifica, provengono da Aristotele, Meteorologia, a cura di Lucio Pepe, Milano: Bompiani, 2003.
22 – Cfr. Simona Musso, La via Lattea dei Greci e dei Romani, cit., p. 94. Sull’ambra, di cui qui non trattiamo, cfr. almeno Renzo Olivieri, Ricerche etimologiche e semantiche sulle denominazioni dell’ambra nelle lingue classiche, in «Rivista Italiana di Linguistica e Dialettologia» XVIII, 2016, pp. 85-104.
23 – Nel Timeo (22c-d) Socrate distilla il mito in scienza, pur non accennando alla Via Lattea: ‘Quella storia che presso di voi si racconta, vale a dire che un giorno Fetonte, figlio del sole …incendiò tutto quello che c’era sulla terra … viene narrata sotto forma di mito, ma in realtà si tratta della deviazione dei corpi celesti che girano intorno alla terra’.
24 – Per la genesi de Il ciocco cfr. la ricostruzione accurata di Giuseppe Nava in Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, cit., p. 139 ss.
25 – Cfr. C. Flammarion, L’astronomia popolare, cit., p. 762.
26 – Su tale verbo, attestato per la prima volta in una lettera fiorentina del 1291, cfr. la voce relativa dell’Enciclopedia Dantesca a cura di Marco A. Cavallo, Vol. I: A-CIL,Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 19842, p. 851e Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Vol. II BALC-CERR, Torino, UTET, 1962 [rist. 1980], p. 797. Altre attestazioni notevoli sono in Torquato Tasso, La fenice (Rime sacre e morali): Quando dell’incendio i segni adusti/ nel Ciel lasciò, nel carreggiar Fetonte,/ sicuro il loco fu da quelle fiamme. E ancora in Giovan Battista Marino (Le dicerie sacre: diceria terza, 1614), Non voglio che Fetonte od Icaro la mia incauta temerità mi faccia, onde per sì alte e malagevoli vie venga a sinistrare il diritto sentiero, o, carreggiando là dove per soverchio ardimento salsi, per poco accorgimento precipiti.
27 – Cfr. p. es. tra i molti Natalino Sapegno (a cura di), Dante Alighieri, La Divina Commedia, Vol. II: Purgatorio, Firenze: la Nuova Italia Editrice, 1979, pp. 40-41.
28 – Si veda la voce Galassia a cura di Buti, Giovanni – Renzo Bertagni, in Enciclopedia Dantesca, cit., Vol. III: F-M, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 19842, p. 85 e il mio Pertinenze linguistiche e filosofiche di un capolavoro pittorico, cit., pp. 148-149.
29 – Altre allusioni al mito in Pg. XXIX 115-120; Pd. XVII 1-6; XXXI 124-129.
30 – Le varie e contrastanti teorie che rendono perplessi i sapienti sono quelle che Dante elenca nel Convivio subito dopo aver menzionato Fetonte (vd. supra e,in extenso, Rosa Ronzitti, Pertinenze linguistiche e filosofiche di un capolavoro pittorico, la rappresentazione della Via Lattea nella Fuga in Egitto di Adam Elsheimer (1609), cit., pp. 148-149).
31 – E probabilmente si legge qui anche un’eco del mito della giovenca Io perseguitata dall’estro: e rotolava tutta in sé rattratta/ per la puntura dell’eterno assillo (II 11-12).
Prof.ssa Rosa Ronzitti,
glottologa e linguista dell’Università di Genova