Dioniso in ‘Anomalie e Malie come Arte’ – Vitaldo Conte
Il testo ricorda Extreme (le malie del perturbante), mio intervento al convegno sull’Arte e follia (2002) a Messina[1] e titolo di miei blocco-notes[2]; il mio libro Anomalie e Malie come Arte (2007)[3], riferimento per i miei allievi di Arte-Terapia all’Accademia di BB.AA. di Roma.
‘Ditirambi di Dioniso’ di Nietzsche come suggestione
«ch’io sia bandito da ogni verità!
Soltanto un pazzo! Soltanto un poeta!….
(…) Sono io il tuo labirinto…» F. Nietzsche
I miei testi letterari e teorici “colloquiano” spesso con il pensiero e la lirica follia del Dioniso di Nietzsche. Li estrinseco anche in eventi di poesia-arte: come ne Il filo di Arianna a Roma, in cui interpreto i Ditirambi di Dioniso[4]. Questi rappresentano la follia ultima di Nietzsche, vissuta da lui come poesia dionisiaca. Con questa forse voleva comunicare l’essenza e i segni di una verità fuori limite. Non scriverà più fino alla morte, senza possibilità di un “ritorno” nei confini dei linguaggi e del visibile ”descrivibile”.
«Questa, questa è la tua beatitudine,
la beatitudine di una pantera e di un’aquila,
la beatitudine di un poeta e di un pazzo! …» F. Nietzsche
Le Baccanti e i fedeli di Dioniso auspicano il suo ritorno per “resuscitare” i suoi riti con l’estatica frenesia che incarna la negazione di ogni limite. Dioniso è il dio della festa e della trasgressione religiosa. È un dio ebbro, la cui essenza divina è la follia: “Ma, per cominciare, la follia stessa è essenza divina. Divina, cioè a dire, qui, che rifiuta la regola della ragione” (G. Bataille)[5]. Questa essenza incarna una presenza archetipale della creazione pulsionale: può sconfinare nella follia per divenire “pagina filosofale”.
Stralciando la ‘Storia della Follia’ di Foucault[6] come lettura
“La strada dall’uomo all’uomo vero passa attraverso l’uomo folle.” M. Focault
“Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. La sua figura si sarà racchiusa su se stessa non permettendo più di decifrare le tracce che avrà lasciato (…). Resterà soltanto l’enigma di questa Esteriorità. Quale era dunque, ci si domanderà, questa strana delimitazione che è stata alla ribalta dal profondo Medioevo sino al ventesimo secolo e forse oltre? (…) La follia di Nietzsche, la follia di Van Gogh o quella di Artaud, appartengono alla loro opera, non più, né meno profondamente forse, ma in tutt’altro modo. (…) La follia è assoluta rottura dell’opera; essa rappresenta il momento costituitivo di un’abolizione che fonda nel tempo la verità dell’opera; essa ne delinea il confine esterno, il punto di sprofondamento, il profilo contro il vuoto.”
“Tutto il resto: quel movimento singolare con il quale noi andiamo incontro alla follia nello stesso momento in cui ce ne stacchiamo, questo riconoscimento temuto, quella volontà di fissare un limite e di colmarlo subito con la trama di un senso unitario, tutto ciò sarà ridotto al silenzio (…). Non esiste una sola cultura al mondo in cui sia permesso di fare tutto. E da molto tempo si sa bene che l’uomo non comincia con la libertà ma con il limite e con la linea dell’invalicabile.”
Navigazioni erranti della Follia come Arte: Bosch e Rimbaud
“Confinare i folli” in luoghi circoscritti, separati dal mondo dei “normali”, con il pretesto della sicurezza sociale, è sempre stato una pratica purificatrice di chi stabilisce i “confini”: come quello di erigere mura di difesa intorno alle città. Mura che vogliono escludere “fuori” dal limite (da non valicare), l’altro da sé, il diverso, lo straniero, il selvaggio, l’appestato, l’animale feroce, ecc. Ma anche il pericolo indistinto, la separazione fra norma e anomalia: da relegare lontano, oltre i confini della coscienza, là dove si collocano le inquietudini e le paure dell’uomo di ogni tempo, “occultate” dalle costruzioni rassicuranti delle sue norme.
Alla fine del Medioevo la lebbra si allontana dal mondo occidentale. Questa, scomparendo, prepara, in un qualche modo, altri successivi fenomeni di esclusione. Fra cui quella della follia che le città vogliono “espellere” fuori dalle loro mura, ai margini della comunità. Questi folli hanno spesso come destino una esistenza errante. Le città li cacciano fuori dalle loro mura: anche se, nella maggior parte delle città europee, è esistito nel Medioevo e il Rinascimento un luogo di reclusione riservato agli alienati. Ai margini della comunità, alle porte della città, si aprono dei grandi territori che non sono più perseguitati dal male, ma che sono lasciati sterili e per lungo tempo abbandonati. L’anomalia esprime i turbamenti di una epoca e società che vuole “delimitare” il mondo degli esclusi e del pericolo.
Nel paesaggio immaginale del Rinascimento, La Nave dei folli, titolo del celebre e omonimo dipinto di Hieronymus Bosch (1494), è un anomalo battello “ubriaco” che galleggia lungo i fiumi della Renania e dei canali fiamminghi, in cui i confini della sanità mentale del periodo si confrontano con quelli del giudizio morale e della possessione diabolica. Il connubio dell’acqua con l’anomalia partorisce questa barca, che simbolizza un’inquietudine, apparsa all’orizzonte della cultura europea verso la fine del Quattrocento. La nave della follia, non è solo una creazione, è una “emergenza”, che ha, nella memoria mitica, la rotta degli Argonauti alla conquista del vello d’oro. Fra tutti i battelli romanzeschi questo ha un’esistenza reale con il suo carico anomalo, errante da un posto all’altro. “Affidare il folle” ai marinai significa anche evitare che questo si aggiri, senza meta, sotto le mura della città, assicurarsi della sua “espulsione” visiva. L’acqua aggiunge a questa “purificazione” l’oscillazione di un moto trasformante: disperde messaggi lasciati al caso, come quelli affidati a una bottiglia galleggiante.
Il battello ebbro indica anche una rotta per “navigare” creativamente la follia, vivendola con le immagini della fantasia: come Rimbaud che “converte” l’imbarcazione in rottame per entrare nel mare della veggenza. In Una stagione all’inferno[7], suo testamento letterario, prende coscienza delle innumerevoli allucinazioni che incontra nel suo necessario viaggio nell’anomalia, testimoniante il fascino che può esercitare l’ignoto e la dilatazione dei confini della propria visione: “Ho inghiottito una bella boccata di veleno (…) un uomo che vuole mutilarsi, non è forse un maledetto? Mi credo all’inferno, e ci sono”.
Come una meteora Rimbaud attraversa, in una Lettera del veggente, la propria esistenza, contrassegnando il suo tempo, con una follia volontaria, testimoniante il fascino che può esercitare l’ignoto e la dilatazione dei confini della propria “visione”. “Il Poeta si fa veggente, attraverso un lungo, immenso, e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca egli stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni, per conservare l’essenza”.
Il poeta, scavando in fondo a se stesso, attraversa i percorsi della follia per arrivare al sale infernale della conoscenza: non può che scrivere “per salvarsi”, per proteggersi dal delirio. Questa sofferta conoscenza può culminare nelle Illuminazioni, che ci propongono un mondo amplificante le possibilità sensoriali e percettive delle realtà, intorno e dentro di noi. Le innumerevoli allucinazioni scrivono una poesia che incarna l’esistenza e il suo fuoco maledetto, ai confini estremi del vivibile. “Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovraumana, nella quale diventa il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! –: poiché giunge all’ignoto! (…) Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco”. Continuare una stagione all’inferno può significare, però, annegare nella follia senza ritorno: “Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e che tira. (…) La poesia non ritmerà più l’azione; sarà più avanti”. L’anomalia celata è, talvolta, lo specchio della malia stessa dell’atto creativo con i suoi perturbanti nascosti. “Fu proprio la malattia il fondo di tutte le spinte creatrici. Creando potevo guarire; creando ritrovavo la salute”.
Il confine borderline della Follia
“Alcune persone non impazziscono mai. Che vite veramente orribili devono condurre.” (C. Bukowski)
La linea di confine fra genio e follia può risultare, talvolta, approssimativa: “Il vero folle, poiché non recita, possiede senz’altro un tratto comune con l’artista, quello della rottura. Ma mentre la rottura dell’artista è un soccorso e un momento del suo genio, quello del folle è una prigione” (A. Malraux). Talvolta le dimensioni di coscienza alterata coincidono con stati intermedi fra lucidità e visionarietà, fra realtà e sogno. L’atto di creazione, in un qualche modo, assembla questi momenti indefinibili, interni all’essere, nel corpo di una espressione, sempre a metà strada fra consapevolezza e lingua di follia. La follia è una maschera che può circoscrivere uno stato mentale, psichico, interiore, irrazionale, di “passaggio” e “navigazione” verso verità più profonde e segrete. Che oltrepassano i significati raggiunti dal variabile metro dalla società di ogni tempo.
Fhilppe Brenot scrive: “si può aggiungere che se la follia consente sia al malato sia all’artista di essere in rotta con i propri contemporanei, ossia di essere in grado di creare e di innovare, è perché sia l’arte sia la follia hanno in comune quell’automatismo mentale che genera infinite variazioni di se stessa”[8]. L’angoscia della follia, al culmine della sua crisi, può paralizzare però le forze della creazione, in quanto tutta l’attenzione dell’artista è concentrata sulla propria sofferenza umana: a questo punto può smettere di esprimersi per specchiarsi nel sottostante abisso. Brenot, interessandosi alle espressioni “fuori limite”, è arrivato alla conclusione che le arti legate al linguaggio e le arti non verbali – plastiche e musicali – non sono sullo stesso piano, di fronte alla follia: i letterati sarebbero più vulnerabili rispetto alle turbe mentali.
La poesia, assai meglio della psicanalisi, “morta di narcisismo” (secondo Hillman), può aiutare, con la sua corporeità sfuggente, a comprendere l’inafferrabile e indefinibile “umore dell’anima”, senza il quale, per opposizione, non esisterebbe neanche la gioia di vivere e di esprimersi. L’analogia fra il poeta e lo sciamano è naturale, considerando le sue abitudini, il suo modo di vivere, i suoi rapporti con gli altri. Lo sciamano si muove infatti sugli abissi deliranti della percezione: come Rimbaud, il poeta allucinato che “vede” con “altri” occhi e come i poeti ciechi ispirati. Lo sciamano ha naturalmente l’animo del poeta, ricercando un’alterità di nomadismo per vivere intensamente l’allucinazione creativa delle diverse realtà.
“Il viaggio autentico nella follia è il viaggio alla ricerca di quell’umanità che la follia tende a soffocare, ma che esiste in ogni persona e va trovata, rispettata, amata” (C. Magris). Rapportarsi con il perturbante psichico (come presenza costante o imprevisto passaggio nell’arco della nostra esistenza), è un modo per scoprire anche il quid di anomalo, presente dentro di noi, che talvolta crediamo di vedere nello specchio dell’altro. Questo può divenire un nostro affascinante viaggio di introspezione, ma anche di attraversamento del mondo delle ombre e dei segreti, che ci attraggono come essenza e malia. Convivere con questa parte malata è una possibilità per liberare la propria catarsi sciamanica, esprimendo una morte simbolica che può partorire la rinascita.
Follia come espressione di Arte sciamanica
L’arte, come lingua terapeutica, è uno strumento antico (che ha il tempo dell’uomo), come viene raccontato in miti e storie. L’artista, lavorando sulla cancellazione della distanza fra l’arte e l’esistenza, opera sull’ipotesi della “guarigione”: propria e altrui. Talvolta il genio “parla” attraverso l’anomalia, rianimando la figura del proprio interiore sciamano: l’essere “fuori norma”, che è contemporaneamente un creativo, un folle, un terapeuta, un sacerdote, uno stregone. Lo sciamanesimo è la ritualità più antica (le sue origini risalgono all’età della pietra): con questa l’essere umano ricerca il suo colloquio con l’intero creato e le molteplici realtà visibili e invisibili. E’, dunque, la nostra stessa radice, da cui possiamo sempre “riattingere” le sue possibilità, che sono sopite dentro di noi, atrofizzate dalle razionalistiche costruzioni della società consumistica.
Lo sciamano, utilizzando linguaggi creativi (il canto, la danza, il mimo, la pittura, la poesia, ecc.), ha suggerito a diversi autori, come ad Andreas Lommel, l’ipotesi che l’origine dell’arte, di tutte le forme della creazione, sia magica e che debba essere ricercata nelle pratiche sciamaniche: “Lungo il flessuoso e impalpabile confine in cui corpo e psiche si influenzano a vicenda, dalla notte dei tempi e dai quattro angoli della Terra ci provengono le voci confuse, inquietanti degli stati psicofisici estremi. Artista, sacerdote, terapeuta o sottile plagiatore delle menti più deboli?» (A. Lommel)[9].
Lo sciamano, maestro dell’estasi, è l’intermediario fra gli esseri umani e gli spiriti, interiorizzando, con i suoi viaggi, le “altre” dimensioni in “un processo di sacralizzazione della realtà” (M. Eliade). Quando entra in trance, di cui è “terapeuta”, modifica volontariamente il suo stato di coscienza e di rapporto con l’ambiente, lasciandosi attraversare dalle percezioni sensibili. Ricerca l’avventura oltre per immergersi negli spazi del sogno e dell’anomalia. Sembra “assentarsi” dal mondo, per muoversi e deambulare “visionario”, lasciandosi possedere dalla danza e dalle proprie ritualità espressive. Le cure sciamaniche, con i loro viaggi in trance, presentano delle analogie con le cure psicoanalitiche: gli spiriti malvagi, entrando nel corpo e nell’anima del malato, sono “richiamati” dallo sciamano, che li prende in sé “per comprenderli”. Il gruppo e lo sciamano appartengono allo stesso sistema simbolico di interpretazione dell’universo, insieme al malato che, svuotando la propria anomalia, la integra in un insieme armonico che appartiene alla lingua di quella comunità.
Lo sciamano è un artista, anche quando “entra” nella malattia di un corpo o di una invisibile e oscura interiorità, vivendo l’esperienza nel sogno, nel delirio, nella partecipazione a una festa estatica. La danza e il canto sono, infatti, fra i mezzi più usati per raggiungere l’estasi, che simboleggia il volo magico e la fuoriuscita dal corpo. L’artista, lavorando sulla cancellazione della distanza fra l’arte e l’esistenza, opera sull’ipotesi della “guarigione”, propria e altrui. L’artista stesso è, talvolta, uno sciamano perché, al di là dell’entrare nella trance, ha la possibilità, liberandosi dai limiti terreni, di uscire da se stesso per attraversare l’invisibile, volando oltre i confini della mente anche attraverso la follia.
Le malie del perturbante
“… Ci vogliono dei pazzi! … Andiamo a liberarli! (…) – O pazzi, o fratelli nostri amatissimi, seguitemi! …” F.T Marinetti
Il riconoscimento, talvolta, della follia come valore equivale a sancire la rottura con un linguaggio dominante, classico o tradizionale. Le espressioni teoriche e creative delle avanguardie storiche della prima metà del Novecento e di quelle successive (fino ai giorni nostri) hanno “rotto”, infatti, gli equilibri e i confini di ogni ortodossia linguistica e di genere nella creazione (nelle forme e nei materiali), aprendole alla dispersione: come nel Futurismo e Dada. Introducono, nella poetica e nel fare espressivo, l’estremo sconfinamento, la deformazione, il caso, il gioco, l’alterazione, il materiale riconvertito, ecc. L’artista e la sua multiforme anomalia si congiungono nell’opera, “scegliendo” i linguaggi, gli stili e i materiali necessari alla loro espressione.
L’arte, dal Novecento in poi, più che essere immagine di una bellezza o espressione che vuole nascondere i propri interni turbamenti, è intrisa dalle rappresentazioni dell’anomalia interna dell’autore e della società di appartenenza. L’arte, non avendo regole fisse, è mutevole, per cui è riduttivo ricercarne una normalità; anzi l’anomalia partecipa come elemento suscitatore dell’atto creativo: “Quando Picasso dipingeva una donna con tre occhi e due nasi, sapeva di aggiungere qualcosa ad una fisionomia normale” (J. Thuillier).
L’artista, nelle diverse epoche, risulta un creatore sensibile e interprete privilegiato d’immagini: attraverso queste attinge al mondo del sogno, dell’inconscio, del mistero, ma anche della follia. Gli è sempre stata concessa, infatti, una valenza di eccesso nel corso dei secoli. La sua visionarietà s’immerge, attraverso un’opera, al patrimonio simbolico e referenziale dell’archetipo primario (appartenente all’inconscio collettivo) e alla sua inquietante oscurità. Il delirio stesso, presente nell’artista e nelle sue visioni, diventa un fenomeno che si situa tra follia e creazione, lotta interiore fra l’angelico e il demonico. William Blake era convinto di aver visto alcune delle scene allucinate dei suoi lavori, percorsi da angeli, profeti e santi: in questo modo l’anomalia dell’artista si congiunge, nell’opera, con i frammenti del proprio interno vissuto. La genialità può rappresentare una possibile espressione creativa della follia: le due dimensioni si toccano da vicino, come considerava anche Diderot. Creazione e follia tendono a intrecciarsi, dunque, a contaminarsi imprevedibilmente.
L’esaltazione creativa si ritrova spesso associata alla “malinconia” (come tristezza legata all’immagine dell’artista), agli stati maniacali e allucinatori, che biografie e autobiografie confermano. Il Sole nero della malinconia, come nota Nerval, illumina e oscura da secoli, oltre ogni struggimento dell’anima, storici, poeti, artisti, come i psicoterapeuti. Aristotele lo enuncia nel trattato Problema XXX, chiamato anche L’uomo di genio e la malinconia. La malinconia è, per lo scrittore Victor Hugo, “la gioia di sentirsi tristi”. La malinconia come il desiderio può esprimere, come leggo sul sito web di Riza, “qualcosa che non si ha mai avuto, ma di cui si sente dolorosamente la mancanza”.
La natura alchemica del genio è forse un segreto, che non può essere analizzato: è custodito dentro di lui in una profondità sigillata, anche se questa è costituita da un velo. Il genio, che si manifesta nella pazzia, risulta inquietante per l’umanità: attraverso questa la può “trasformare” con la sua multiforme lingua, collegandone la pulsione a una energia interiore e primordiale, che essa stessa è follia. Nei detti popolari c’è, appunto, la credenza che una componente essenziale dell’esperienza artistica sia proprio la follia, che la figura dell’artista sia quella di un individuo “non rientrante” nella norma: in quanto un diverso, se non un pazzo, come dice Seneca: “Nessun ingegno grande fu mai senza mistura di pazzia”. La follia individuale del genio creativo si rivela nell’immagine e nella vita di tanti artisti isolati o eccentrici, che, talvolta, si sono “spinti” in questa per ampliare le proprie espressioni.
La Follia come Arte, ricordando Breton e Celine
Numerosi artisti hanno “trovato” la loro espressione sul filo di confine tra genio e follia. Odilon Redon riconosce, nel proprio percorso di genio e sregolatezza, che il suo intuito era la follia stessa, il cui vaccino dovrebbe essere iniettato in tutti, come afferma Nietzsche. Esempi, anche illustri, di anomalia, sono molteplici (nella storia dell’arte e nelle vite dei suoi protagonisti): come non mancano momenti di visionarietà nell’esistenza di ogni essere. Produzioni geniali, “emerse” da episodi di follia, possono essere casuali e senza seguito, mentre, nonostante i turbamenti della psiche e dell’anima, ciò che è espresso da Artaud, Van Gogh, Nerval, Nietzsche, rimarrà sempre come arte e pensiero.
L’arte dei pazzi certamente può esistere: ne è convinto André Breton, che, gravitante intorno al rapporto follia-creazione, vede, nell’espressione libera dell’anomalia, una grande risorsa per raggiungere la verità assoluta con la purezza dei suoi valori. Tenta instancabilmente di riabilitare la follia, denunciando la detenzione delle case di cura (con il ricovero e la reclusione di molti artisti) e l’opera degli psichiatri, anche perché le condizioni ospedaliere delle strutture, agli inizi del XX secolo, risultano poco accettabili. Nel 1924 pubblica il Primo Manifesto del Surrealismo[10], in cui espone il principio terapeutico della “scrittura automatica”: una scrittura inconsapevole con cui si ha l’impressione che la mano si muova da sola, componendo frasi e brani che nella normalità non si sarebbero scritti. Nel manifesto afferma che ”Resta la follia, ‘la follia che si rinchiude’ così come è stato detto con chiarezza”. Con questa libertà di pensiero, Breton, difensore di ogni libertà, indica la doppia strada della follia: “l’altra follia”, quella creatrice, può essere nutrimento e pulsione per l’artista, essendo diversa dalla malattia mentale. Questa creazione accende, in maniera imprevedibile, l’interiorità dell’autore attraverso i viaggi nell’anomalia.
Negli scrittori il delirio e la consapevolezza s’incontrano per relazionarsi: in alcuni casi il delirio è componente naturale della lucidità e materialità dello stesso linguaggio. Un grande scrittore può cercare, infatti, la “propria” verità attraverso la follia. La scrittura, in questi autori, diviene una maschera emozionale o di altro, percorrendo rinnovamenti della forma letteraria, fino alle contraddizioni evidenti e alle invettive che vogliono/possono turbare il lettore. L’aspetto imprevisto è incarnato dal “doppio”, dialettico e oppositivo, che solo il genio possiede e sa naturalmente armonizzare con il suo imprevedibile alternarsi di Jekyll e Hyde. Uno degli esempi più eclatanti, in tale direzione, è il caso-Celine. Come accade anche per altri “maledetti” (Artaud, Bataille, ecc.) il dolore è il suo collante linguistico (esistenziale e inventivo): si protende verso un assoluto “scritto” che ricerca con ossessività l’evasione come “follia d’indipendenza” (così la chiama lo stesso autore).
Celine – come è stato sottolineato – non rappresenta una realtà ma l’allucinazione che la realtà provoca in lui. Usare il delirio, talvolta, è un antidoto per non impazzire: costituisce una protezione immediata, incontrollata, contro i pericoli della dissoluzione dell’io. Le sue frasi, violentemente esclamative, sembrano il soliloquio di un demente: le sue invettive, bestemmie, aggressioni linguistiche hanno una “furia” che contagiano il lettore. Scrive Celine nel suo Viaggio al termine della notte: “La verità della vita è la morte. Mi sento bene soltanto in presenza del nulla, del vuoto”[11]. La sua ossessione centrale è la morte che corrompe la vita, celando gli inferni della propria storia. Questa può divenire “narrazione”, attraverso il parlato del testo, per arginare gli interiori incubi e la dissoluzione dell’io.
Note:
[1] Extreme / le malie del perturbante, intervento ed evento espositivo, in Arte e follia, Cittadella della Salute – Auditorium, Messina 15 novembre 2002.
[2] V. Conte: Extreme / le malie del perturbante, blocco notes, Ed. Gepas, Avola 2002; Extreme Anomalia (eroticamistica), blocco notes Ed. Gepas, Avola 2003.
[3] V. Conte, Anomalie e Malie come Arte, Rosa Rossa ed., Il Raggio Verde, Lecce 2006.
[4] F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso, 1891; Guanda, Parma 1967; Adelphi, Milano 1977.
[5] G. Bataille, Le lacrime di Eros, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
[6] M. Foucault, Storia della Follia (nell’età classica),1961; Rizzoli, Milano 1963.
[7] A. Rimbaud, Una stagione all’inferno, 1873; in Opere, Feltrinelli Ed., Milano 1964.
[8] F. Brenot, Geni da legare, 1997; Ed. Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999.
[9] A. Lommel, in La funzione sciamanica, ‘Kos’ n. 15, Milano 1985.
[10] Il Primo Manifesto del Surrealismo è pubblicato per mano di A. Breton con i pittori F. Picabia e M. Ernest e con i poeti P. Eluard e R. Desmos sulla rivista ‘Revolution Surrealiste’, 1 dicembre 1924.
[11] L.F. Celine, Viaggio al termine della notte, 1932; Corbaccio, Milano 1992.
Vitaldo Conte