Silentium Est Aureum: il nascondimento della verità – Brando Impallomeni
“E non desidero vivere se non come conviene a un buon cristiano ed un vero monaco che è sotto la Regola di S.Benedetto”
(Introduzione al primo libro della Steganografia).
“Qualsiasi uomo se non ha la dimensione del Silenzio è meno umano. Gli manca la dimensione della profondità. Può essere largo, può essere lungo, può essere alto, ma non ha radici, non ha profondità, perciò non sta saldo sui piedi della propria identità” (San Benedetto da Norcia, Norcia, 480 circa – Montecassino, 21 marzo 547 d.C.). “Nel procedere su quel sentiero, che è un sentiero di pochi, troppi sono gli eventi che avvengono esclusivamente nel sacrario più intimo dell’anima, nel recesso più nascosto del tempio interiore della coscienza. Su tali eventi si stende volontariamente – come negli antichi Misteri Eleusini – il Silenzio, come necessario clima interiore, che il discepolo deve vivere per evitare di profanare la sacralità dell’esperienza spirituale e di conseguenza smarrire il sentiero e perdere quell’esperienza. Spesso il Silenzio è la naturale conseguenza del fatto che non vi sono parole umane capaci di descrivere quegli stati interiori. Per cui necessariamente e volontariamente si tace”. Quando andiamo a trattare temi quali: la magia naturale, l’ermetismo, l’alchimia, astrologia, ecc. non dobbiamo dimenticare che “il nascondimento della verità”, questa segretezza, questo dire e non dire, o dire per pochi “eletti”, è una delle caratteristiche che stanno alla base di queste discipline. La figura mitica di Ermete Trismegisto (tris = tre volte, Mag = saggio) esortava il discepolo iniziato a tacere, o meglio a non parlarne in giro, questo in primo luogo per non esporre il discepolo nel ridicolo (avendo l’iniziato conosciuto e compreso misteri insondabili dal profano). Ermete spiega al discepolo che le verità occulte hanno potere di spingere i malvagi verso il male. “Bisogna perciò guardarsi dalla folla, che non può ancora capire la virtù di questi ragionamenti”.
Trithemius, erudito nella Tradizione, sottolinea nella Steganografia la necessità della purificazione preliminare all’operatività magica: “Chiunque desidera fare ingresso nella nostra arte occulta…dapprima occorre che sia ornato di virtù, di una coscienza pura, di buona volontà, votato a Dio, a sé stesso, al prossimo, non sia portato a nuocere ad alcuno, né cerchi il commercio di turpitudini”. Abbiamo visto l’alta considerazione di Eliphas Lèvi nei confronti di Trithemius, che assume nella sua storia della magia l’epiteto di “Maestro dei Maestri”, mentre attribuisce una sorte un po’ meno fortunata all’allievo Agrippa, il quale parlò più del suo maestro nel suo noto “De Occulta Philosophia”, manoscritto sottoposto all’attenzione dello stesso Abate Trithemius nel 1510; nell’epistola ai lettori Agrippa scrive: “Confesso che ho cominciato a scrivere questi libri molto giovane, con la speranza, tuttavia, che un giorno li avrei pubblicati più corretti e autorevoli. Perciò dapprima li ho dedicati all’Abate Giovanni Tritemio, un tempo di Spanheim, uomo assai esperto di cose occulte, perché li correggesse”; sappiamo inoltre che la risposta di Trithemius sarà “piena di lodi”, e come leggiamo dalla penna di Arturo Reghini nel suo commento al De Occulta Philosophia: “Tritemio si dichiara massimamente ammirato per l’erudizione non volgare di Agrippa, che pur così giovane penetra segreti ed arcani nascosti anche a molti dottissimi uomini; dice di approvare l’opera, ed infine ammonisce per altro di osservare il precetto di comunicare cose volgari al volgo, ma le cose più alte e più arcane soltanto agli amici più segreti e più elevati”; “Dà il fieno al bove e lo zucchero solamente al pappagallo; fa attenzione di non esporti come ad altri è accaduto ai calci dei buoi”.
In “Chronicle Sponheim” leggiamo che nel 1482 “Johannes Trithemius fu fatto monaco e poi Abate di questo monastero miracoloso in conformità di una volontà più grande della propria”. E come leggiamo nell’autobiografico “Nepiachus”: “da quel momento in cui sono entrato nell’ordine (benedettino) non c’era niente per me di più dolce, di più piacevole, niente di più delizioso che applicare la mia mente allo studio delle Scritture”. Negli anni di Sponheim (1482-1505) sappiamo che Trithemius fu buon amministratore, rinnovò l’Abbazia in modo sontuoso facendo ricostruire gli edifici, ampliando lo spazio con magazzini e camere, contenitori per gli oggetti sacri, e soprattutto, in quanto bibliofilo, il programma di rinnovamento e di insegnamento di Trithemius, convogliava tutte le sue forze, in particolar modo nell’aumento dello spazio libresco della biblioteca dell’Abbazia, che ospiterà a detta di Trithemius “circa due migliaia di volumi”; tra manoscritti e testi a stampa (anche grazie alla sua incessante attività di acquisto e scambio), tra cui oltre ai testi profani si trovavano quei testi “per pochi uomini”, molto rari ed esoterici (secreta); è nel “Nepiachus” che sosterrà con orgoglio “non ho mai visto in tutta Germania, né ho sentito dell’esistenza da nessun’altra parte, di una biblioteca così rara e meravigliosa”. E chi meglio di un benedettino quale Trithemius poteva aver assorbito al meglio i significati più reconditi al profano sulla virtù del “Silentium”, un silenzio importante anche quando si parla, silenzio al quale S.Benedetto consacra il capitolo sesto della Regola, “tacere anche delle cose buone”; il silenzio come fisionomia interiore del monaco, “Silentium” che ritroviamo inciso sui muri dei monasteri benedettini, sugli architravi dei portali dei chiostri.
La regola del Silenzio era già cara in molte tradizioni esoteriche ed Iniziatiche, tra cui spicca tra le più care a Trithemius, così come a molti altri umanisti rinascimentali, quella Egizia, che sappiamo prevedeva dei “religiosi silenzi”; come aveva già notato nel III sec. d.C Porfirio: “Tramite la contemplazione, essi giungono alla sicurezza dell’anima e alla pietà, per mezzo della riflessione, arrivano alla scienza; grazie ad entrambe, alla pratica dei gesti esoterici … Il loro passo è misurato, lo sguardo è modesto e fermo; l’espressione gioiosa non va mai oltre il sorriso”. Il perché l’Egitto fosse ricorrente negli scritti di molti filosofi rinascimentali viene ben illustrato dalla Yates: “L’Egitto veniva prima della Grecia, Ermete prima di Platone. Il rispetto rinascimentale per tutto ciò che fosse antico, originario, remoto, e quindi più vicino alla verità divina, portava come conseguenza che il Corpus Hermeticum venisse tradotto prima della Repubblica o del Simposio platonici, e così esso fu di fatto il primo testo a venir tradotto da Ficino”. Ma l’Egitto del Rinascimento è stato più volte considerato dagli studiosi frutto di una mnemostoria, nonché di operazioni politiche di riforma culturale che strumentalizzavano per così dire l’egittofilia o egittomania, così come la figura del saggio illuminato, il Mosè egiziano Ermete Trismegisto, a difesa degli antichi Dei, del paganesimo antico, a contrasto della visione egittofobica biblica dell’Esodo. Nel Rinascimento si aveva l’idea di un’ immagine classica dell’Egitto, non tanto faraonico quanto alessandrino, riflessa dai testi greci-latini, come il De Iside Et Osiride di Plutarco, gli Hyeroglyphica attribuiti ad Horapollo, Ciriaco d’Ancona, lo stesso Corpus Hermeticum, Giamblico, Platone, Proclo ecc. Il segreto di quell’Egittologia, che potremmo definire “magica”, dei Rinascimentali, stava tutto nella ricerca di una lingua perfetta delle origini che si traduceva nei glifi, nella scrittura simbolica o ideografica, la quale a sua volta riconduceva all’essenza profonda delle cose attraverso un risveglio della sfera intuitiva, in quanto il simbolo racchiude più concetti e rompe il processo analitico-materiale; pertanto ermeticamente la sfera o coscienza intuitiva era ed è l’unico modo per poter vedere cosa sta dietro le cose, il Dio Occulto…
Brando Impallomeni (21/03/1985), da anni coinvolto attivamente nella ricerca spirituale, laureatosi in Storia presso l’Università degli Studi di Firenze, con la tesi “Dall’Abate Trithemius alla Spiritual Technology”, che vuole rendere dignità allo scomodo tema della “Magia”, insabbiato dalla cultura dominante, religiosa e laicista, dalla caccia alle streghe alla banalizzazione cripto-positivista. Dall’Abate Trithemius alla Spiritual Technology, vuole ripercorrere un Iter-magico che va dalle prime coraggiose teorizzazioni della Magia, alla sua riproposta e attualizzazione nei vari periodi storici; assistiamo così ad un graduale passaggio, da una forma di magia che potremmo definire antropocentrica, cristiana, dualista (magia bianca, magia nera, magia divina, magia naturale e magia transnaturale, magia cristiana, magia divina, angelica e demonica ecc.), quella dei filosofi rinascimentali, ad una magia o “magick” (termine codificato da Aleister Crowley per designare la sua Opera, k=Kteis) stellare, che a detta del pittore inglese Austin Osman Spare, “è piena di colori”, dove gli antichi Dei diventano l’ipotesi di scenari non più terrestri, ma caso mai Extra-Terrestri e multidimensionali.