“Il sogno nella tarda antichità” di Patricia Cox Miller: i sogni sintomatici di Elio Aristide – 4^ parte – Piervittorio Formichetti
La devozione ad Asclepio andò declinando dal IV al V secolo, in parallelo al declino politico-economico dellʼimpero romano, ma in questi secoli non scomparve totalmente, «nonostante i reiterati tentativi degli imperatori cristiani di estirpare le pratiche politeistiche [e] gli attacchi sferrati al culto di Asclepio dagli apologisti cristiani, da Tertulliano ad Eusebio». In alcuni casi, la devozione popolare alla divinità ellenistica della salute «sopravvisse nel Cristianesimo insinuandosi nel culto dei santi», in particolare in quello di santa Tecla a Seleucia, come già accennato a proposito dei sogni di Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. In questo contesto di radicali mutamenti psicologici e sociali, dice Patricia Cox Miller, «Tecla indossò il mantello di Asclepio, [perché] la convinzione che i sogni potessero guarire era radicata troppo profondamente nellʼimmaginario culturale perché potesse soccombere» agli avvicendamenti sociali delle religioni.
Ciò emerge anche da un fatto narrato da Agostino: nella città di cui fu vescovo, Ippona (nellʼattuale Algeria), nellʼanno 424 fu eretto un santuario dedicato a santo Stefano Protomartire, del quale si diceva che custodisse reliquie dotate di potere taumaturgico. Seguendo un suggerimento avuto in sogno, vi giunsero due fratelli provenienti da Cesarea di Cappadocia, Paolo e Palladia, che, nonostante fossero giovani, soffrivano di «tremore delle membra» in seguito alla maledizione ricevuta da parte della loro madre, una nobildonna vedova che (per ragioni non precisate) li aveva espulsi da casa. Il giorno di Pasqua, Paolo «pregando afferrava lʼinferriata dellʼedicola in cui erano custodite le reliquie del martire. Allʼimprovviso si sdraiò a terra e rimase disteso proprio come chi dorme, non tremando però come era solito anche nel sonno. Tra lo stupore dei presenti […] egli allʼimprovviso si alzò e non tremava più, perché era guarito, ed era in piedi incolume, fissando quelli che lo fissavano». LʼAutrice commenta quindi: «Sembra trattarsi di una versione cristianizzata dellʼincubazione asclepiana, sebbene […] il lasso di tempo in cui il paziente giace per provocare il sonno e il sogno che lʼaccompagna [sia] più breve […]. Nondimeno, il nesso tra sofferenza fisica e sogno terapeutico testimonia del persistere di questa pratica onirica, trasversale agli steccati divisori di ordine confessionale e sociale», perché «la fede nellʼefficacia terapeutica dei sogni […] era parte di un modello culturale che persistette attraverso cambiamenti anche radicali del paesaggio sociale e religioso».
Uno dei più assidui frequentatori di Asclepio era stato il retore Elio Aristide, al quale Patricia Cox Miller dedica un intero capitolo del suo libro. Nato nel novembre del 117 in Misia (Asia Minore) da una famiglia alla quale lʼimperatore Adriano aveva concesso la cittadinanza romana, Aristide studiò a Smirne, Atene e Pergamo, ma il suo rapporto con la retorica e lʼeloquenza fu ambivalente. Dalla ricostruzione dellʼAutrice, Aristide appare afflitto da disturbi di salute, descritti da lui stesso, dei quali è difficile distinguere la componente fisica da quella psicosomatica. Una delle più importanti esperienze di questo genere avvenne nellʼanno 143, quando il retore – che il noto storico Peter Brown definiva «un gentiluomo ipocondriaco dʼindomita volontà» – pur soggetto ad una forte infreddatura, partì ugualmente per Roma con lʼintenzione di declamare davanti alla corte dellʼimperatore Antonino Pio, ma si sentì peggiorare: sentiva la gola congestionata, lʼatto di deglutire quasi gli levava il respiro, pensava che i suoi denti stessero per cadere; tornato indietro, i malesseri non si placarono: «Mi sentivo mancare il respiro e solo con grande fatica, e non mi pareva vero, riuscivo infine a respirare quanto bastava appena, e i miei muscoli erano percorsi da un tremito». Per farsi curare si recò alle terme nelle vicinanze di Smirne, ma né esse né alcuni medici riuscirono a guarirlo. Durante uno di questi soggiorni termali, ricevette il primo sogno terapeutico da parte del dio Asclepio, che gli suggerì – dice Cox Miller – «una forma mite di shock-terapia: camminare allʼaperto a piedi nudi». In seguito ad altri consigli onirici, scrisse poi Aristide, «[decisi] di abbandonarmi al dio veramente come a un medico, in silenzio, perché facesse di me ciò che voleva».
Nellʼestate del 145, si recò quindi al tempio di Asclepio a Pergamo e vi restò due anni, un periodo che egli chiamerà «Cathedra». Il dio taumaturgo gli ordinò di registrare i suoi sogni: Aristide li scrisse su grandi rotoli di pergamena che, anni dopo, saranno la base dei suoi Discorsi sacri. Il titolo stesso – sostenne Aristide – fu suggerito da Asclepio. I sogni e i malesseri dellʼautore occupano gran parte di questa raccolta. In questi due anni, «mentre soffriva e sognava in un ciclo apparentemente infinito […], soffocava, vomitava, non riusciva a respirare né ad aprire le mandibole e soffriva crisi acute di emicrania», paradossalmente Aristide compose un lungo discorso in difesa dellʼoratoria, presentata come base della comunicazione reciproca e quindi della civilizzazione umana. Nel gennaio del 149 – racconterà egli più tardi – «avevo il catarro, e gravi difficoltà alla regione palatale, tutta quanta tumefatta e infiammata, acutissimi disturbi di stomaco e vari altri malanni»; eppure, come faceva da tre anni a quel momento, Aristide obbedì al consiglio onirico di Asclepio e si tuffò nelle acque gelate del fiume che bagna Smirne, per lʼennesimo di quelli che chiamava «bagni invernali, miracolosi e assolutamente paradossali», perché ogni volta che ritornava dalla nuotata sentiva in sé un calore confortante, «un tepore diffuso che infondeva a tutto il corpo un vigore continuo e costante nel tempo […], una specie di ineffabile benessere». Ciò che Aristide desiderava – afferma lʼAutrice – era dunque il «calore», non il «surriscaldamento»: «Egli annotò più e più volte nei Discorsi sacri che i sogni del dio e gli aiuti terapeutici da lui prescritti gli procuravano calore, serenità mentale, armonia, forza spirituale e conforto»; il paradossale comportamento del retore suggerisce che «il surriscaldamento del suo ʻmotoreʼ interno – era tenuto sotto controllo in modo letteralmente fisico dalle numerose prescrizioni oniriche di usi lustrali dellʼacqua, tra cui spiccano quei bagni di fiume invernali di cui Aristide andava tanto fiero», oltre a periodici digiuni e purghe. Ma qual era lʼorigine del suo «surriscaldamento» psichico?
Secondo Peter Brown, il corpo di Aristide ebbe suo malgrado il ruolo di «palcoscenico» di un conflitto psichico tra la sua forte aspirazione ad eccellere nellʼarte della declamazione in pubblico, e la paura del fallimento indotta dalle esigenze di quello stesso contesto sociale, che valutava il carisma dei retori in base a un modello di virilità – veicolato dalle scuole di retorica, fra le quali quella di Polèmone, il maestro di Aristide – caratterizzato dalla voce stentorea e dallʼaspetto «leonino», ma non aggressivo né privo di autocontrollo. Tale conflitto, secondo Brown, «contribuì […] inconsciamente a provocare quelle malattie e quelle cure massacranti che costringevano le sue energie a combattere con il suo corpo, in modo da neutralizzare la sua smisurata ambizione rinchiudendola in un mondo di sogni e di grandezza». Così – dice Cox Miller – «lʼaspirazione di Aristide a impersonare la virtù maschile nellʼarena specifica della sua professione, lʼoratoria, si esprimeva anche nei suoi sogni. In uno di essi, egli parla agli Ateniesi come fosse Demostene; in un altro sente gli imperatori ringraziare dio per aver conosciuto un fine oratore come lui»; in un altro ancora, egli sogna di accompagnarsi allʼantico tragediografo Sofocle, e di vedere «un sofista nostro contemporaneo, fra i più illustri», cadere e restare riverso a terra non appena vede loro due, che così restano soli a conversare. Ma fu soltanto in queste fantasie oniriche che Aristide sovrastò gli altri retori e soddisfece le richieste della società: «Fuori dallʼambito onirico, il suo corpo rifiutava la richiesta di conformarsi […]. Il suo corpo dava segni di nausea»: come si è visto, «le afflizioni più ostinate sofferte da Aristide erano il senso di costrizione alla gola, il blocco del respiro, il senso di soffocamento e il vomito, tutte cose che rendevano difficile, e a volte impossibile, la pratica della sua professione, il parlare in pubblico. Il suo corpo, e poi i suoi sogni, e più ancora unʼinestricabile combinazione dei due, lo allontanarono dalla foresta di occhi […] del pubblico sguardo».
Il noto storico André-Jean Festugière concludeva che i sogni di Aristide e il suo modo di vivere, strettamente intrecciati, fossero parte di un complesso di «dipendenza psicologica dalla malattia» e dal dio guaritore: gli ordini che Asclepio, di notte, dà in sogno al retore «gli fanno effettivamente bene, al corpo e soprattutto alla mente. Lo aiutano, ma egli non guarisce […] perché fondamentalmente non vuole guarire. Guarire significherebbe non godere più della presenza e della compagnia del dio, e la compagnia del dio è esattamente ciò di cui il paziente ha bisogno». Indicativi in questo senso sono i sogni in cui Aristide si confronta direttamente con il dio terapeuta: Asclepio, in unʼapparizione segnante per il retore, alla lode di questʼultimo «Tu, lʼUnico!», risponde «Tu sei lʼUnico»; in un altro sogno, egli vede una statua dʼaspetto cangiante: a volte aveva quello di Asclepio, a volte il suo. Sogni come quelli ricordati pocʼanzi e come questi ultimi – dice Patricia Cox Miller – «sono prove lampanti del desiderio di cambiamento accarezzato dal sognatore, un cambiamento di “frequentazioni” tramite lʼacquisizione di un nuovo compagno di conversazione, e di un cambiamento di personalità mediante il conferimento di un nuovo nome».
La vicenda di Elio Aristide, secondo lʼAutrice, è quella di «un uomo combattuto tra desideri che non poteva conciliare […], un ritratto avvincente del bisogno di intimità e dei drastici effetti della sua assenza. Le tensioni provocate dallʼobbligo di vivere nella foresta di occhi erano scritte sul corpo di Aristide sotto forma di malattia»; il suo corpo fu, suo malgrado, lo spazio di «una lotta tra due tendenze culturali contraddittorie – lʼuna rivolta alla sfera del privato, dellʼintrospezione e dellʼascesi, e lʼaltra verso la sfera del pubblico, dei doveri e delle ricompense della vita civica». Sul piano storico, questa lotta si risolverà nel secolo successivo con il fenomeno sociale degli eremiti cristiani, che «si ritirarono prima nella castità e poi nel deserto, abbandonando i codici sociali dellʼidentità maschile che si erano rivelati al tempo stesso troppo larghi e troppo stretti». A questo proposito, il fatto che alcuni uomini dellʼetà tardo-antica si ritirassero nellʼeremitaggio non significa affatto – come qualcuno ha affermato tra il pregiudizio e lo scherzo – che lo facessero per schivare, o reprimere, il proprio orientamento omosessuale. Il caso dei sogni di san Gerolamo – affrontato anchʼesso dallʼAutrice – è emblematico del fatto che lʼascetismo era ricercato soprattutto da uomini perfettamente eterosessuali e talvolta molto istruiti nella cultura “pagana”. La decisione di uomini come Gerolamo era sintomo del fatto che il modello maschile prevalente nella koinè greco-romana, ai loro occhi, si stava rivelando insufficiente alle istanze spirituali di persone tuttʼaltro che distaccate e avulse dalla communitas in cui vivevano, e della quale ora intravedevano il tramonto.
Piervittorio Formichetti
(continua…)