“Il sogno nella Tarda Antichità” di Patricia Cox Miller – Plutarco e Apuleio; Filone, Tertulliano e Sinesio; gli Stoici – 2^ parte – Piervittorio Formichetti
A eclissare la concezione psico-biologica dei sogni in epoca medio-imperiale fu soprattutto lʼopinione, molto diffusa, secondo cui i sogni potevano avere unʼorigine demonica (e demoniaca) oltre che divina. Lʼantropologo Eric R. Dodds, citato da Patricia Cox Miller, scriveva che, nel II secolo, «praticamente tutti, pagani, ebrei, cristiani, gnostici», credevano nellʼesistenza di molti esseri spirituali con funzione di mediatori, «sia che li chiamassero demoni, o angeli, o eoni, o semplicemente ʻspiritiʼ (pnèumata)». LʼAutrice commenta quindi: «Sebbene vi fosse discordanza di opinioni sulla questione se i sogni fossero di origine demonica o divina, e se si presentassero di propria iniziativa allʼanima dormiente o se invece fosse lʼanima che, durante il sonno, errava come un vagabondo per incontrare questi spiriti dellʼaria, in ogni caso la tendenza a coltivare i sogni come mezzo per veicolare senso era talmente forte in questʼepoca, da far apparire la concezione naturalistica di Cicerone marginale».
Lʼidea che lo spazio cosmico fosse permeabile da parte di spiriti invisibili, aleggianti nella regione intermedia fra il nostro mondo e la regione celeste sede delle divinità, con la funzione di mettere in comunicazione queste con lʼuomo, era condivisa soprattutto dai pensatori medio-platonici, tra cui i noti scrittori Plutarco (I secolo) e Apuleio (circa 120-170). Secondo Plutarco, i sogni erano prodotti dallʼimmaginazione dei demoni e trasmessi allʼanima umana per orientarla nella sua ricerca del senso degli eventi; entrambi – sogni e demoni – avevano sede sulla Luna. Apuleio, usando sia il termine greco daemon, sia il latino potestas, riteneva che le potenze (potestates) demoniche entrassero nella psiche umana fino a sostituirsi alle sue funzioni: nel De deo Socratis egli scrisse che il demone «vede ogni cosa, capisce ogni cosa, sʼintrattiene nei più intimi recessi della mente facendo le veci stesse della coscienza» (omnia visitet, omnia intellegat, in ipsis penitissimis mentibus vice conscientiae deversetur). Di questi che lʼAutrice chiama «ospiti mentali», Apuleio ne menziona solo due, Amor e Somnus, questʼultimo con la capacità e la funzione di «forgiare e modellare sapientemente i sogni» affinché siano poi interpretabili dal sognatore. Anche per Apuleio, «i sogni mantenevano un legame con il futuro, ma, come per gli Stoici, si trattava di un futuro concepito alla maniera dei praesagia, dei presentimenti, cioè, che derivano da un coinvolgimento intuitivo con le esperienze del presente».
Per i pensatori tardo-antichi le regioni intermedie del cosmo erano dunque popolate da «unʼampia gamma di messaggeri che potevano apparire nei – o sotto forma di – sogni». Accanto ai demoni, a servirsi dei sogni per porre lʼuomo in comunicazione con gli dèi o con Dio, vi erano dunque gli angeli, soprattutto nel monoteismo ebraico e cristiano, ma concettualmente conosciuti anche dal pensiero politeistico. Ad esempio, Cox Miller ricorda che in un testo ebraico, il Sèfer ha Razìm (Libro dei Segreti), sono elencati quarantaquattro nomi di angeli, dei quali si precisa poi: «Questi sono i nomi degli angeli incaricati dei sogni, che permettono a chiunque si accosti in stato di purità rituale di conoscere qual è il sogno e quale ne è lʼinterpretazione». Per lʼesegeta ebreo Filone di Alessandria (I secolo), gli angeli erano «parole divine» (lògoi theoi) che manifestavano il logos, lʼ«intelligenza» di Dio. Come afferma nel suo trattato sui sogni (intitolato in latino De somniis), «gli altri filosofi li chiamano “demoni”, la Sacra Scrittura “angeli”, con termine più appropriato perché riferiscono gli ordini del padre ai figli e le necessità dei figli al padre. Perciò la Scrittura li raffigura in atto di salire e scendere». Uno dei modi con cui gli angeli conducono lʼanima, o la parte di essa che può percepire il Divino, a contatto con questʼultimo, è appunto il sogno: Filone sembra talvolta sovrapporre tra loro sogni, angeli e parole divine, ma è comunque convinto che il sogno sia messaggero (ànghelos): «un verbo divino [che] si offre come compagno di viaggio allʼanima solitaria», avendo anche il ruolo di interprete; un ruolo che condivide con chi sogna, reso a sua volta capace di «seguire le tracce dei simboli» apparsi nel sogno.
A differenza di quanto accadeva nel contesto greco, in cui i demoni e i loro messaggi onirici erano spesso ambivalenti, in ambito ebraico si cominciò pertanto a distinguere fra le ispirazioni (anche oniriche) dovute ai demoni, quasi sempre malvagie, e quelle benevole dovute agli angeli. Lʼambiguità intrinseca dei sogni, già affermata nella Bibbia, restò comunque presente nella riflessione ebraica, ma venne risolta ricorrendo a questa distinzione, come emerge da un aneddoto incluso nel trattato talmudico Berakòth (Benedizioni): «Shemuèl, quando aveva un sogno cattivo, diceva: “E i sogni dicono cose vane” (Zaccaria, 10, 2); quando aveva un bel sogno, diceva: “I sogni dicono cose vane? Eppure sta scritto: In sogno io [Dio] parlo a lui [Mosè]” (Numeri, 12, 6). Rabbà obiettò: “Sta scritto: In sogno io parlo a lui; ma sta pure scritto: I sogni dicono cose vane. Ciò non costituisce una difficoltà: in un caso si tratta di un sogno dovuto a un angelo, nellʼaltro caso, di un sogno dovuto a un demone”».
(Plutarco)
In ambito cristiano, in un primo tempo ci si orientò su questa dualità, poi prevalse gradualmente un punto di vista che tendeva ad assimilare lʼazione malvagia dei demoni al fenomeno stesso del sogno, verso il quale si sviluppò quindi molta diffidenza: nel II secolo, ad esempio, lʼapologeta Giustino Martire ammoniva i cristiani a stare in guardia nei confronti dei sogni perché in essi avrebbero potuto manifestarsi i demoni, desiderosi di obnubilare la comprensione della verità rivelata. Atenagora di Atene (133-190) affermò che una persona «sensibile e suscettibile, sprovvista di solida istruzione», può essere facile preda delle fantasie veicolate nella sua mente dai demoni attraverso i sogni. Clemente Alessandrino polemizzò contro le interpretazioni dei sogni e definì i loro interpreti (onèiron kritas) politeisti vittime della «tirannide dei demoni». Il monaco Evagrio Pontico (345-399) riteneva che le immagini mentali, specialmente quelle dei sogni, fossero in genere soltanto tracce di coinvolgimenti passionali (collera, sensualità…). Più approfonditi di costoro furono altri due autori: i nordafricani Tertulliano di Cartagine (inizio del III secolo) e Sinesio vescovo di Cirene (inizio del V), che concepivano il fenomeno onirico come attività sinergica, in cui interagivano entrambi i soggetti, lʼanima individuale e la Divinità.
Tertulliano espose la sua teoria dei sogni nel suo noto trattato De anima: durante il sonno lʼanima, la cui vitalità non si arresta mai, può pervenire a una condizione «di quasi follia» (amentiae instar), nel senso che la parte razionale dellʼanima viene eclissata dalla parte sensibile ai contatti mistici e allʼestasi. In questo stato diversamente cosciente, lʼanima del sognatore non subisce un disordine (come nella vera follia), ma può avere esperienze di contatto con la dimensione soprannaturale, appunto attraverso i sogni, che egli classificava in quattro categorie: i sogni inviati dai demoni, invisibili ma aleggianti ovunque, cosicché «non solo nei templi, ma anche nelle camere da letto gli uomini sono insidiati dalle visioni [imaginibus]»; i sogni inviati da Dio, che hanno contenuto edificante, ammonitorio e talvolta profetico; quelli prodotti direttamente dallʼattività dellʼanima «in seguito a unʼattenta contemplazione delle cose che le stanno intorno», cioè creando scene composte di immagini di elementi reali visti durante la veglia; infine i sogni risultato di una sinergia di entrambe le attività dellʼanima, quella di produzione di immagini a partire dal proprio movimento perpetuo, e quella passiva di recezione dellʼispirazione estatica: questi sogni sono così complessi che è impossibile interpretarli. Nella sua impostazione, Tertulliano tentava quindi di sintetizzare diverse posizioni del coevo dibattito teologico e filosofico sui sogni: essi possono essere sia prodotti dellʼattività automatica della facoltà estatica dellʼanima, che sovente crea scene illusorie, ma di per sé può essere mezzo di contatto con il Divino; sia – quindi – inviati da Dio, il quale, mediante le immagini e i messaggi che appaiono nei sogni, sostiene la fede dei credenti «per imagines et parabolas».
(Sinesio di Cirene)
Da parte sua, Sinesio di Cirene si concentrò sul legame tra i sogni e lʼimmaginazione come qualità propria di ogni essere umano; riteneva che «quando sogniamo, in ognuno di noi cʼè un oracolo» che si esprime tramite le immagini e le scene oniriche. Sinesio, che era stato un allievo del circolo neoplatonico della celebre scienziata Ipazia di Alessandria, conservò in parte questo retroterra, basandosi su unʼidea abbastanza diffusa nellʼetà tardo-antica: lʼimmaginazione umana concepita come parte di una immaginazione assoluta, diffusa nel cosmo, definita phantàsia, una sorta di immenso bacino metafisico di possibilità creative, che produce anche le immagini allegoriche mostrate, da Dio o dagli dèi, in sogno agli esseri umani. Riassume lʼAutrice: «Per Sinesio, la phantàsia non è una cosa trapiantata negli esseri umani, come fosse un loro possesso. Essa è piuttosto un regno, “il cavo abisso dellʼuniverso”, nel quale lʼanima ha la sua sede appropriata. […] In quanto attività propria dellʼanima, la phantàsia è, secondo Sinesio, “una sorta di vita a sé stante” e, come si legge in una sua ulteriore spiegazione, lʼattività immaginativa che ha luogo nei sogni è la più preziosa, poiché, mentre le conoscenze diurne vengono dai docenti, le conoscenze avvenute in sogno derivano da Dio». Lʼapprendimento onirico, quindi, «apre una via allʼascesa al lato più occulto delle cose. E tale lato occulto non consiste in idee astruse o in un tesoro sepolto, bensì in nuovi modi di […] affrontare il mondo in modo appropriato». Lʼapparente contraddizione tra lʼimportanza dei sogni e la loro enigmaticità, secondo Sinesio, è necessaria a stimolare nellʼuomo lʼimpegno dellʼinterpretazione, una ricerca di significato che vale la pena di intraprendere durante tutta la vita.
Allʼinterpretazione dei sogni si dedicarono in effetti molti esponenti delle culture presenti nel mondo antico e tardo-antico, dando luogo a molteplici concezioni del significato dei sogni e a diversi metodi con cui decifrarli. Ad esempio, Sinesio era convinto che non vi fossero sogni privi di significato: «Per lui, vi era una mantiké téchne, una “tecnica divinatoria” entro i parametri della quale tutti i sogni hanno un senso»; egli affermava che «non è giusto diffidare dei sogni, e tanto meno confondere lʼincapacità dellʼinterprete con la natura delle visioni». In sostanza, nessun sogno è senza senso: semmai, è lʼinterprete (che può essere il sognatore stesso) a non essere capace di scoprirlo. In ambito ebraico, si teneva presente lʼaforisma di Rabbi Hisda, citato in un trattato del Talmud: «Un sogno non spiegato è come una lettera non letta», ossia, ogni sogno ha un contenuto che devʼessere compreso; ma un altro autore talmudico raccontava: «A Gerusalemme vi erano ventiquattro interpreti dei sogni; una volta ebbi un sogno e andai da ognuno di loro, e ognuno mi spiegò a modo suo, e tutte le spiegazioni si realizzarono a mio riguardo, confermando così quanto si suol dire: Tutti i sogni seguono la bocca». Il che, secondo Patricia Cox Miller, può voler dire non solo «che un sogno abbia senso solo nel contesto della sua interpretazione», ma anche che il sogno è spesso caratterizzato da «una polisemia testuale [data dalle] infinite relazioni innescate dalle immagini oniriche», ossia una possibile molteplicità di significati relativi, in qualche modo, alla persona del sognatore e al suo contesto psicologico e culturale.
(Tertulliano)
Questa potenziale “personalizzazione” del significato dei sogni sembra presente soprattutto nella concezione degli Stoici, che ammettevano la facoltà divinatoria come possibilità dipendente dallʼorigine divina dellʼanima. Riassume lʼAutrice: «Nel caso della divinazione attraverso i sogni, la potenza divina è alla portata dellʼuomo perché lʼanima, che è il luogo dellʼattività onirica, è derivata dagli dèi». Questa qualità dellʼanima, cioè, faceva parte di quella realtà cosmica unificante che gli Stoici definivano con il termine greco sympathèia, grazie alla quale «il mondo della vita umana, e specialmente della vita dellʼanima, era interrelato – come il microcosmo al macrocosmo – allʼanima universale, quindi anche agli dèi. In linea di principio, qualsiasi anima poteva divinare, qualsiasi persona poteva avere un sogno significativo».
Abolita la comunicazione tra lʼanima e il corpo a causa del sonno, lʼanima può ricevere lʼadpulsum deorum (impulso dagli dèi) che le permette di vedere in sogno unʼimmagine o una scena dʼimportante significato simbolico per la vita individuale e collettiva, ma non necessariamente preannunciante un evento futuro: «Lʼidea degli Stoici era che nei sogni lʼanima umana individuale potesse entrare in contatto con, e farsi istruire da, un principio ordinatore pervasivo entro [il] quale si dispiega tutta la vita. Uno dei nomi sotto i quali questo principio cosmico era discusso dagli Stoici era quello di ʻFatoʼ», che non indicava «una struttura ostile che imprigiona le vite umane in un mondo inesorabilmente deterministico, ma era invece utilizzato per assicurare che la vita ha un senso, che non è una semplice accozzaglia di eventi casuali e accidentali». Essi, cioè, concepivano i sogni «non semplicemente capaci di predizione del futuro, ma, più profondamente, rivelatori del fluire, nel tempo, di possibilità insite nel presente. […] I segni dei sogni fornivano presentimenti e presagi della forma reale che la vita avrebbe potuto assumere, [e] fornivano a coloro che li facevano un modo di immaginare e di interpretare le loro vite mentre le stavano vivendo».
Piervittorio Formichetti
(continua…)