Soggettività rotte ed individui bucati in Crave di Sarah Kane – Simone Santamato
Dedicato a chi patisce la pienezza delle sua parzialità.
Tutte le storie meritano di essere narrate, ma certamente alcune più di altre. Noi stessi, pensandoci, siamo delle storie in avvenire: scriviamo le nostre avventure essendo protagonisti del nostro stesso esistere, e ci scambiamo le vesti di autore e personaggio nella poliedricità delle nostre vicissitudini. Il teatro credo esprima questo concetto all’ennesima potenza, specie pensandolo attraverso le terminologie inglesi: noi in Italiano diciamo come gli attori vestano i panni di; nell’altra lingua, invece, si sostiene più poeticamente come si giochi il ruolo di. È un’attività convintamente ludica quella del teatro anglofono, ed attraverso il gioco emerge una proprietà fondamentale che ha a che vedere con l’esistenza come tale: la proprietà del ruolo.
Per quanto fortemente noi si possa provare, non riusciremo mai a pensarci come assoluti rispetto alla modalità ontologica della relazione: la mia individualità è formata da quel gioco di contrapposizione – definito da Nancy – singolare plurale tra la mia singolarità e quella dell’Altro. Io posso pensarmi come individualità nella misura in cui sia consapevole della presenza dell’alterità, ed anzi esclusivamente partendo da questa mi concepisco come singolo. Pertanto, il concetto di individuo, per quanto faccia capo ad un’assolutezza ontologica, è in realtà desunto da una pluralità: io sono pensabile a partire dal molteplice. Secondo queste filosofie, non esiste alcun sostanzialismo: non posso pensarmi come determinatamente e fondatamente me stesso perché la mia individualità è soluta nella relazione, sussiste solo nella relazione, e diviene nella relazione. Perciò, qualsiasi concetto di singolarità è una sorta di astrazione o fraintendimento. Non solamente Nancy propone un’ontologia orientata al molteplice, ma anche P. Ricœur – seppure attraverso l’etica e non l’ontologia – pensa lo stesso, ed addirittura radici di questo pensiero possono trovarsi nel riconoscimento della coscienza come sé stessa in Hegel.
È intuibile come approcci filosofici del genere possano godere di una fortissima risonanza all’interno di un contesto socio-economico e culturale che ha vissuto – e che forse ancora sta vivendo – la globalizzazione: la tensione alla complessità ed al pluralismo certamente è armonica a matrici di pensiero simpatizzanti per la molteplicità. Al contempo, queste filosofie, nell’apparente preservazione dell’individualità nelle avvolgenti braccia del molteplice, dissolvono e smaterializzano la presenza di un individuo certo e fondato in sé stesso, immergendolo nel plurale tanto da spersonalizzarlo ed omogeneizzarlo. In questo modo, cortocircuitando il singolo che non riesce ad identificarsi come sé stesso, di conseguenza cortocircuita l’intero: l’attualità nella quale siamo gettati risulta in una indefinitezza e scontentezza generali perché ciò che manca è l’individualità. È la soddisfazione e la felicità di essere sé stessi a non esserci laddove, ora, non si sa neanche più chi noi si sia. Ogni epoca ha le sue problematicità strutturali, ed io sono convinto che il contemporaneo malfunzioni nel suo collettivizzare il singolo, universalizzandolo nel plurale. Da questo punto di vista, la nostra epoca è molto vicina al periodo medievale: una forma concreta di individualismo nel medioevo è inesistente perché gli approcci filosofici ed epistemologici vertevano la collocazione di ogni ente in aree concettuali sempre più estese (specie e generi), e più complete erano queste nella loro sussunzione, tanto più il singolo ente era concepito con certezza. Il senso, dunque, non si incarnava nel singolo e nell’autenticità della sua esistenza, ma nell’universalità dell’umanità. A riprova di ciò, basta pensare come una delle questioni più eminenti del panorama filosofico medievale riguarda la disputa sugli universali: cominciando con il commento di Boezio all’Isagoge di Porfirio – la quale opera era a sua volta un commento alla logica aristotelica – nel V-VI secolo d.c., attraversa l’interezza del periodo medievale fino alla teoria delle supposizioni di Guglielmo d’Occam nel XIV secolo. Mi rendo conto di come questo sia un discorso ampio, meritevole di una più profonda analisi. Nondimeno, mi interessava alquanto aprire una parentesi a riguardo poiché il dramma che stiamo per prendere in considerazione pone delle questioni interessanti circa la strutturazione delle individualità e del pluralismo.
Crave è il penultimo dramma di Sarah Kane, prima che ci lasciasse a soli ventotto anni, nel 1999. Kane era affetta da una forma importante di depressione, alla quale va attribuita quella consunzione dell’animo che, infine, ha portato l’autrice a scegliere la morte piuttosto che un’esistenza di sofferenza. L’ultimo teatro di Sarah Kane è particolarmente ostico da interpretare per svariate motivazioni, la più importante delle quali è sicuramente di matrice stilistica: i personaggi portati in scena dall’autrice sono praticamente muti, seppure paradossalmente tutti quanti godano di una spiccata eloquenza.
L’antologia teatrale di Kane è un lento ma inesorabile percorso dell’individualismo verso l’inabissamento e la spersonalizzazione: i primi drammi dell’autrice riferiscono delle parti a dei personaggi contestualizzati e riconoscibili, ma lentamente, rappresentazione dopo rappresentazione, ogni forma di riconoscibilità decade, lasciando spazio, con 4.48 Psychosis, ad uno disfacimento incurabile della soggettività. Nell’ultimo dramma di Kane – 4.48 Psychosis per l’appunto –, è come se non ci fossero personaggi ma solo parti: a recitare è un’identità sfaldata e irrimediabilmente spaccata che, nel suo flusso di coscienza, riporta in modo diretto ed immedesimato pensieri e discorsi pronunciati da qualcun altro. La scrittura dell’ultima Kane, quindi, presenta personalità dissolte in una miscela indifferenziata di soggetti, la cui natura confusa è sintomo di un’individualità rotta e frammentata.
Crave, in quanto penultimo lavoro, accenna questa caratterizzazione in quanto è stilisticamente un dramma quasi transitorio, preludio alla irrimediabile compromissione dell’identità in 4.48 Psychosis. Rispetto a quest’ultimo, Crave presenta ancora delle parti performate da personaggi, ma la riconoscibilità di questi è solo apparente, in quanto ciò che li identifica è una sola lettera: A, B, C e M sono i protagonisti della narrazione. Molteplici sono le interpretazioni di queste lettere, molte delle quali desunte dalla narrazione stessa. O meglio, da un’interpretazione che riordina un intreccio elaborato quasi diabolicamente, per quanto intricato. Dal mio punto di vista, ogni interpretazione che ricerca un’identità dietro le lettere manca il bersaglio: non credo magari che le lettere siano state selezionate in modo completamente aleatorio, ma al contempo ritengo che il desiderio dell’autrice fosse quello di levare ogni forma di protagonismo dall’opera, deflagrando l’identità dei personaggi. Il loro nome può pure essere stato selezionato con coscienza, ma le loro parti sono sicuramente intercambiabili, ed è proprio in questa proprietà commutativa che sostengo risieda il significato sostanziale dell’opera: che io sia riconosciuto come A, B, C o M cambia poco se la mia parte può essere scambiata e recitata da chiunque. Non è in una forma stantia di nominalismo che risiede l’identità individuale, ma nella parte che si performa, e se questa è interscambiabile, ciò che è interscambiabile è la mia identità che, contemporaneamente, si scioglie nella molteplicità dei soggetti di interscambio. Così, nessuno è più sé stesso.
Per questa motivazione, i personaggi del dramma li intenderei come individualità bucate: l’interscambiabilità delle parti che ogni individuo dovrebbe performare per sé, è stilisticamente rappresentata dal fatto che i dialoghi, permeanti l’intero dramma, sono sempre spezzati, ed ogni personaggio conclude quello che ha cominciato a dire l’altro, alle volte con soluzione di continuità, alle volte senza alcuna connessione. Tutti i personaggi parlano, e sono anche tutti davvero eloquenti, ma nessuno sembra dire niente: la storia di ognuno di loro si confonde, e quand’anche vi fosse linearità e logica, il discorso di senso rimbalza continuamente, non riuscendo a distinguere quale storia appartenga davvero a chi.
“A Al di là della mia comprensione,
C Al di là della mia
A Al di là
B C’è una differenza tra capacità di spiegare le cose e intelligenza. Non riesco a spiegarla, ma la differenza c’è.
M Vuoto.
A Ammalato.
C Bianco.
B Amami.
A Il senso di colpa rimane nell’aria come un odore di morte e niente può salvarmi da questa nuvola di sangue.
C Tu hai ucciso mia madre.
A Era già morta.
M Se vuoi che abusi di te abuserò di te.
A È morta.
B La gente muore.
M Succede”.
Come è possibile apprezzare attraverso lo stralcio proposto, lo stile utilizzato da Kane per la stesura di questo dramma è tanto complesso quanto, me lo si lasci dire, magistralmente architettato: ogni personaggio tenta disperatamente di esprimere sé stesso, di esprimere la propria individualità, ma ogni tentativo appare vano in quanto il discorso viene smembrato e concluso da qualcun altro. È quasi come se l’identità di chi parla non sia importante ma siano rimasti solo i fatti, senza alcun protagonista. Senza alcun individuo, senza alcuna identità e, seppure questa vi fosse, non sarebbe importante perché en panti pantos. Di fatti, «(C) Sono così. Esisto in questo oscillare. Mai ferma, mai solo una cosa o un’altra, mi muovo costantemente da un lato al limite più estremo dell’altro. […]Dov’è finita la mia personalità?».
Le soggettività elaborate da Kane in questo dramma si compenetrano, si intersecano e, bucate, si toccano con una pressione che sprofonda nell’abisso dell’identità di ciascuno; si tratta, insomma, di identità che cadono a pezzi. Ciononostante, è possibile interpretare la questione nel modo esattamente opposto, ovverosia quello per cui un’identità che davvero sia bastevole a sé stessa senza necessitare dell’Altro è impossibile. Perciò, le soggettività non sarebbero bucate, ma anzi sarebbero tenute a galla proprio dalla presenza positivamente integrante dell’alterità. Ma mi pare lapalissiano come mediante questa esegesi si ritorni sempre alla medesima questione: cosa è l’individualità e cosa il soggetto se dissolti nella molteplicità indifferenziata del plurale? Come si potrebbe ancora parlare di “persona” e “soggettività” se il posizionamento del singolo è osmoticamente relato alla presenza dell’Altro?
Questa di Kane rappresentata nel 1998 – quando era ancora in vita quindi – è un’analisi incredibilmente sofisticata sull’integrità delle soggettività all’interno del contemporaneo: per quanto sicuramente le tematiche narrativamente accennate dicano tanto altro ancora, sfiorando temi quali l’abuso sessuale ed il terrore della solitudine, io credo abbastanza fermamente che la poliedricità delle questioni si riassuma in una problematicità sostanziale del senso dell’individuo. Come infatti Barbara Nativi – traduttrice del dramma per l’edizione Einaudi (Sarah Kane, Tutto il teatro, Einaudi, Torino, 2000) – ci spiega nelle note dell’opera, il testo era per Kane una narrazione sul bisogno d’amore e sul desiderio. Tutte questioni che partono da un soggetto ed ineriscono ad un altro: amo qualcuno, e desidero qualcosa; la spinta generale del dramma è sicuramente verso l’esterno. Eppure, questo esterno gioca con il suo opposto, con l’interno, dando vita ad un contraltare di poli dove la confusione non lascia intendere quale sia l’alterità per quale soggettività. In altre parole, ogni personaggio parla di sé – anzi: parla sé –, ma il suo protagonismo viene concluso e sviluppato ulteriormente da qualcun altro, sfumando in un contesto per cui ogni identità è alternativamente sconclusionata e rideterminata, ma da altro da sé. Non solo, nel dramma non è neanche chiaro se l’amore ed il desiderio siano orientati ad un oggetto o siano, diversamente, inerenti la propria persona: l’amore di sé ed il desiderio della propria felicità, entrambi compromessi, conseguentemente, dall’ingombrante presenza dell’Altro. È un’altra interpretazione sicuramente plausibile.
La drammaticità delle rappresentazioni di Sarah Kane non deriva propriamente da una narrazione coerente che, raccontata bene, dà anche da riflettere; al contrario, la trama stessa diventa quasi laterale rispetto alla centralità delle riflessioni: il dramma è quanto c’è da riflettere intorno a sé ed al mondo. Il dramma è la riflessione, o forse lo stesso fatto di poter riflettere intorno alla inconsistenza anzitutto della mia persona, e successivamente del mondo che mi circonda. D’altronde, «Questo non è un mondo in cui ho voglia di vivere» (S. Kane, 4.48 Psychosis).
(Sarah Kane)
Com’è generalmente noto, in linea di massima ogni epoca ha i suoi testi fondamentali, quelli che, quindi, custodiscono la sensatezza di un certo momento culturale, incapsulandolo e comunicandolo nel modo più completo. Penso convintamente come Crave sia per antonomasia uno dei testi candidati a sintetizzare e riassumere la significazione della nostra attualità culturale: ciò che penso è che, partendo dalla destrutturazione dell’identità psichica freudiana, il panorama della contemporaneità stia affrontando la questione dell’individuo, dovendolo riconcepire e ricostruire. A riprova di questo, possono annoverarsi ad esempio tutti i movimenti questionanti l’identità di genere e sessuale che, fuori di ideologia, evidenziano con chiarezza l’impellenza di una nuova identificazione delle soggettività. Non si tratta, per questo, solamente di sessualità o di genere, né di “secondo natura” o di costrutti socio-politici: l’urlo fondamentale di questi movimenti, quello che dovrebbe essere accolto dalle orecchie di ognuno, interroga la verità del soggetto, richiama ad un interrogativo fondamentale — “chi sono io?”. Si tratta di una questione dapprima gustosamente ontologica, poi psicoanalitica e successivamente psico-politica.
A fine settecento, la domanda fondamentale di senso era, per Kant, intorno alla conoscenza, alla morale ed alla speranza del soggettivo: “Che cosa posso sapere?”; “Che cosa devo fare?”; “Che cosa posso sperare?” (vedi I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Bari, 2005, p.495; per altre ed., cfr. Dottrina trasc. del metodo, Capitolo II, Sez. II). E questo era possibile perché, a priori, vi era una soggettività conosciuta sin nelle sue fondamenta, le quali erano notoriamente trascendentali. Il soggetto era una soggettività trascendentale, era sé stesso ed al contempo trascendentalmente relato alle altre soggettività con cui condivideva il mondo avendo con quelle, per l’appunto, la medesima configurazione trascendentale. Laddove le destrutturazioni del soggettivo seguenti hanno portato la stessa soggettività ad essere manchevole di sé, ed oggi lo vediamo con chiarezza, è più che mai necessario riqualificare l’identità dell’individuo. È arrivato il momento.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
– J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino, 2000.
– P. Ricœur, La persona, Morcelliana, Brescia, 1997; Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 2016.
– G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, Fabbri, Firenze, 1996, pp. 143-190.
Per una finestra approfondita sul pensiero filosofico medievale, consiglio sicuramente lo studio de La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, É. Gilson, trad. it. a cura di M. A. Del Torre, Rizzoli, Segrate, 2011.
Tutte le citazioni riportate dalle opere di S. Kane sono desunte dall’edizione antologica “Tutto il teatro” edita Einaudi (a cura di L. Scarlini e trad. it. di B. Nativi, ISBN 9788806153922).
Simone Santamato