Monte Athos: sulla montagna sacra – Emanuele Franz
La mia esperienza sul monte Athos parte dall’esperienza avuta con la chiesa ortodossa serba, dopo la mia permanenza in questa terra. Qui, nella regione della Vojvodina, nelle zone della antica Pannonia romana, ho partecipato per la prima volta in vita mia a delle cerimonie della chiesa ortodossa tanto da rimanerne esterrefatto. Il divario fra il cattolicesimo occidentale e l’ortodossia serba è tale da farmi ritenere che la prima sia una cosa analoga a una rievocazione storica mentre la seconda a una evocazione vera e propria. Mentre il cattolicesimo emula qualche cosa di lontano, come il disegno di qualcosa, l’ortodossia è quel qualcosa, di originario. Questo lo si vede molto chiaramente dalla devozione l’abbandono di sé tipici del fedele ortodosso serbo. Ho visto con i miei occhi i fedeli nelle chiese ortodosse serbe lacrimare, gemere nel gettarsi a terra davanti all’altare, ma anche una tal prostrazione davanti ai Santi e una venerazione e adorazione tali da essere un abisso rispetto al simulacro che è ormai diventato il mondo religioso occidentale, cartapesta senza più sostanza, carcassa senza carne, carcame senza più identità e valori.
Questo rapporto sorgivo con una realtà vivente, quella di un Dio vivente, che la chiesa ortodossa serba pone in essere, trasudava nel mio cuore un tal desiderio di immergermi nella liturgia da essere disposto pure a valicare mari e montagne per giungere al cuore stesso dell’ortodossia, sto parlando del Monte Athos. Repubblica teocratica autonoma e indipendente, pur formalmente facente capo al Patriarcato di Costantinopoli, esso è un territorio, nella penisola calcidica, in Grecia, assolutamente indipendente, tanto da essere scuola e modello dell’intera ortodossia. Si tratta di una penisola con quasi 2000 monaci distribuiti su 20 monasteri. Praticamente un immenso tempio a cielo aperto.
Sottoposto a regole di disciplina rigidissime: assenza di internet, obbligo di abbigliamento adeguato, niente locali, bar, niente strade, se non dissestate mulattiere, niente donne, da millenni, nemmeno animali femmina, pasti frugali, obbligo per il pellegrino di partecipare a tutte le funzioni religiose, praticamente tutto il giorno, niente fotografie, niente bevande fuori dai pasti, e così via. Peraltro non esiste turismo, non è che si va sul Monte Athos “a fare un giro”, il pellegrino deve avere un permesso speciale dal monastero che lo invita, e tale permesso viene concesso, se viene concesso, solo dopo valutazione della candidatura del fedele con annesse le sue motivazioni. Così, toccato profondamente nel mio cuore e deciso a raggiungere la terra sacra pagando qualsiasi sacrificio, scrissi una lunga e sentita lettera al monastero di Hilandar, della chiesa ortodossa serba sulla Montagna Sacra. Con mia immensa sorpresa la risposta giusto pochi giorni dopo, e qui mi veniva concesso un permesso speciale per trascorrere una notte, per cui due giorni, durante la settimana Santa, prima della Pasqua ortodossa. Una tal gioia che mi diede un palpito.
La montagna Sacra, in greco Αγίου Όρους (Agíou Órous) è sacra da ben prima degli ortodossi. Anzi, il monte Athos è sacro da quando se ne hanno notizie. Il nome stesso, Athos, indica un gigante che, nella gigantomachia, scaraventò un masso contro gli Dei e questi si conficcò nel mare diventando così il monte Athos. Ne parla Omero, nell’Iliade, quasi nell’800 avanti Cristo, quando scrive che sopra di esso vi passò Hera, la consorte di Zeus:
“Hera invece lasciò la vetta dell’Olimpo con un balzo
e sorvolando la Pieria e l’amabile Ematia si slanciò
verso i monti nevosi dei Traci allevatori di cavalli,
con le loro cime elevate, senza toccare terra con i piedi;
poi dall’Athos si diresse verso il mare ondoso” (1).
Ma ancora, il poeta Esiodo, nella tragedia di Agamennone, fa del monte Athos la sede di Zeus, e parliamo del 458 a.C.:
“Inviava fin qui altro segnale, attraverso il fuoco messaggero: Fida verso la Rupe Ermea dell’isola di Lemno, e dall’isola per terzo accolse la grande fiamma il picco dell’Athos che appartiene a Zeus” (2).
E ancora, la montagna sacra fu incontrata da Giasone e dagli argonauti nella loro impresa per giungere al Vello d’oro, come racconta Apollonio Rodio nel III secolo avanti Cristo:
“Mentre Giasone, piangendo, staccava gli occhi dalla sua terra, costeggiarono Melibea e Omole e all’alba seguente si levò davanti ai loro occhi il Monte Athos” (3).
Il monte Athos pertanto è sacro dalla notte dei tempi e gli uomini hanno da sempre percepito su quelle terre la presenza del divino. Il richiamo nel mio cuore ad andarci era così forte da spingermi a partire. Fu così che mi organizzai per arrivare dai monaci di Hilandar il martedì santo del 19 aprile 2022. Partii da Belgrado il giorno prima, il 18, alla volta di Salonicco, ovvero, Thessaloniki, la città macedone fondata in onore della sorellastra di Alessandro Magno. Da qui mi sarei spostato in autobus per la Grecia settentrionale verso la penisola Calcidica fino ad arrivare a Ierissos. A Ierissos causa mal tempo la mattina non riesco a partire con la piccola nave veloce che doveva portarmi alle coste della montagna sacra e così sono costretto a trasferirmi, nella stessa mattinata, a Uranopolis, e da qui sbrigare le formalità burocratiche per la partenza. Infatti al porto di Uranopolis, ultimo avamposto prima di entrare alla montagna, c’è una dogana e un controllo di polizia. Ebbene sì, dal momento che si sta per entrare in una Repubblica indipendente, l’andarci consiste nell’attraversare un confine. Per cui ho dovuto far presente il permesso avuto, cosa di cui erano a conoscenza, altrimenti non mi stampavano il visto speciale per l’ingresso, il Diamonitirìon.
Dopo un’ora abbondante di nave giunsi a posare piede sulla terra sacra, e la prima cosa che feci, posato il piede sul monte Athos, fu inginocchiarmi e baciare quel suolo eterno scoppiando in lacrime. Subito dopo un furgoncino fuoristrada carica quei tre quattro pellegrini che erano sulla costa e inizia un viaggio per sentieri impervi, niente strade, solo mulattiere bianche, senza strutture umane, quasi un’ora di viaggio nella foresta in cui si vedeva solo un verde infinito senz’altro di umano che non fosse la natura selvaggia e poi, come d’incanto, ecco erigersi un castello, quello di Hilandar. Stavo vivendo una fiaba, una esperienza fuori dal mondo, sembra veramente di ritornare indietro di mille anni. Un luogo sospeso nello spazio-tempo dove lo scorrere degli eventi, oltre che dal sole e dalle stagioni, è cadenzato dagli orari liturgici.
Arrivato al monastero sono accolto dal ragazzo che riceve i pellegrini con affetto e premura e fatto sistemare nella mia cella. Tuttavia, dal momento che non sono ortodosso, non avendo ricevuto il battesimo ortodosso, mi fu detto che dovevo dormire in una cella separata in quanto cattolico e non ortodosso. Questo mi fu detto senza alterità ma con rispetto, per il fatto che i loro regolamenti sono rigidi, ma per tutelare una Tradizione e una Identità. Io chiesi, senza timore, a quel punto, di essere battezzato, anche seduta stante se necessario, poiché volevo divenire ortodosso. E lui, bonariamente, mi rispose che si sarebbe dovuto chiedere ai sacerdoti, ma che comunque non era possibile durante la settimana santa.
Vista l’austerità e la disciplina monastica, l’inviolabilità di un luogo sacro come quello in cui mi trovavo, mi rendevo conto della straordinarietà della mia presenza in quel luogo. Prima di me sacerdoti e grandi saggi mi avevano preceduto. Anche Rasputin si era recato in pellegrinaggio in quella terra e pure il manoscritto originale del celebre “i racconti di un pellegrino russo” viene dal Monte Athos, peraltro avevo con me una copia di quel volume, assieme al Vangelo. Un luogo leggendario, fuori dalla realtà umana, non corroso da invidia, arrivismo, rabbia, arroganza, negatività e livore. Una pace soave e soprannaturale accompagnava ogni lembo di bosco, spazi sterminati di terreno adornato di ulivi sacri, intarsiati dal canto degli uccelli, oh mai avevo sentito cantare così forte e così soave un uccellino, il tutto era dorato di armonia e dolcezza, perfino l’aria era dolce, mai avevo respirato tanta dolcezza, tanto amore. Solo nelle fiabe avevo visto posti del genere.
Ero tenuto a partecipare alle cerimonie liturgiche e lo feci con immensa gioia, partecipando alle messe della Settimana Santa. Praticamente erano ad ogni ora del giorno, alle quattro del mattino, alle sei del mattino, alle undici del mattino e la sera, naturalmente ed essere duravano anche due tre ore intere in cui si era assorti fino al deliquio in una preghiera ininterrotta. In quei brevi frangenti della giornata in cui non c’era la messa, i monaci pregavano egualmente, infatti sempre li vedevo col rosario e muovere le labbra e assorti magari nei pressi di un ulivo sacro. Una preghiera perpetua, incessante, senza fine, ogni respiro una preghiera. Vivere è pregare, pregare è vivere. Inaudito per l’occidentale moderno. E pure questi monaci non erano uomini, erano spiriti, Anime disincarnate. Si, i loro corpi stavano lì, alabardati delle tipiche tuniche e cappelli dei monaci ortodossi, ascosi nelle loro barbe nere fino all’ombelico, ma con la mente essi erano altrove. Io così li sentivo: senza proferir parola, senza aprir bocca, essi parlavano nella mia mente, sentivo le loro voci, mi parlavano con il pensiero. Erano su altri mondi: chi dirigeva una rivoluzione in Cina millenni or sono, chi era nel futuro, chi a governare lo scoppio di una stella di neutroni su di un’altra galassia, chi era impegnato e reggere l’ordine dei mondi. Essi erano demiurghi, così apparivano ai miei sensi spirituali, non uomini, ma potenze, tanto che mi sentivo scrutato nel cuore, e più segreti non avevo verso di loro. Essi tenevano insieme il mondo, l’universo ancora non veniva inghiottito dal nulla proprio e solo a cagione della loro preghiera. Dirò di più, la materia insieme sta insieme perché questi sacerdoti amano Iddio senza sosta. A loro dobbiamo lo scorrere del tempo e il fatto che ancora il male non ha preso il sopravvento disgregandoci in mille pezzi.
Essi operano e interagiscono con la realtà vivente dello spirito senza mediazione, non rievocazione, ma evocazione, non pallido ricordo di qualcosa di estinto, ma relazione vivente col vivente. È incredibile che una oasi del genere esista. Li sul monte Athos oltre alla consueta frugalità dei monaci, ci trovavamo durante la settimana santa, e per di più nel martedì e mercoledì santi, in cui occorreva praticare ancora maggiore severità nelle penitenze e per cui i monaci prendevano un solo pasto al giorno consistente in pasta fredda senza sale, pane secco e acqua ed io, naturalmente, dovevo adattarmi alle loro usanze facendo anche io la vita del monaco.
Il convivio stesso è una cerimonia cadenzata dalla preghiera, tanto che, mentre si mangia, un monaco da uno scranno legge un passaggio dal testo sacro e, non appena esso termina la lettura, occorre posare la forchetta, foss’anche ancora piena, come accadde nel mio caso. Informato, proprio in loco, che quello sarebbe stato l’unico pasto servito al giorno, mi premunii, furtivamente, d’infilarmi qualche tozzo di pane secco nella tasca della giacca, convinto che con tale sotterfugio potessi far fronte alla fame pomeridiana, mi sbagliavo, dal momento che il pane mi si sbriciolò nelle tasche lasciando ben poco nutrimento.
Nel pomeriggio mi avventurai in una escursione incredibile, da solo, verso i boschi sacri della penisola. Giunsi addirittura fino alla costa opposta a quella da cui ero arrivato, traversando di fatto tutta la penisola, e mi ritrovai di fronte a una torre altissima, una torre antichissima che si ergeva di fronte al mare. Una torre che, come seppi, fu costruita da un potente re per difendere quella terra e gli stessi monasteri dagli attacchi dei predoni. Ero innanzi a questo spettacolo di pietra, e il sole era in prossimità di calare, ebbene, ecco che, nonostante la torre fosse pericolante e di difficile accesso, con diversi soffitti e muraglie cadute, decisi di arrischiarmici da solo all’interno. Il cuore mi batteva, mi sembrava proprio di essere un cavaliere medievale alla cerca di un tesoro nascosto, e credo che, in realtà, fosse proprio così.
Infine, giunsi sulla cima e mi trovai uno spettacolo inaudito. Vidi il mare aprirsi in mille sogni, inanellato sui bianchi scogli, gli stessi scogli che millenni prima furono visti da navigatori, avventurieri, guerrieri, sacerdoti e visionari ed ora anche i miei occhi assetati di verità si posavano su quello splendido ricamo.
Mi beai di un tramonto unico e irripetibile.
Ben presto però mi accorsi che era la penombra a spingere e farsi vincere dalla notte dei boschi solitari, e solingo, era troppo rischioso, e così, pur distante svariati chilometri dal monastero di Hilandar, mi affrettai a rientrare. Mentre camminavo, ormai superati abbondantemente i 15 chilometri compiuti durante l’arco del giorno, mi sentivo i morsi della fame e quasi svenire dal tormento. Quell’unico pasto consumato insipido e senza carnal piacere ora chiedeva il suo prezzo al mio corpo non aduso alla disciplina dei monaci. Il fastidio diventava tormento e quest’ultimo dolore, tanto da farmi vedere lampi bianchi. Mi imposi di cercare fortuna addentrandomi in un cancelletto che dava in un curato boschetto di olivi camminando all’interno dove potevo scorgere una cascina in lontananza. Speravo qualcuno ci fosse a cui chiedere qualcosa da mangiare. Sull’uscio mi prese un senso di vergogna, ma che facevo? Mi trovavo a bussare a sconosciuti, a chiedere da mangiare, senza conoscer la lingua, senza sapermi spiegare, e che magra figura ci facevo? Dovevo umiliarmi a elemosinare il cibo. E lo feci, accantonai l’orgoglio e bussai, qui un monaco, che non comprese le mie parole, ma i miei gesti e il mio volto sofferto, ebbe pietà e mi diede un pezzo di focaccia e una limonata. Mi bastò quel tanto che ritornai nella mia cella. Una esperienza che ha forgiato la mia avventura. Ridotto ad allungare la mano per chiedere la questua, come un vero monaco praticamente, a elemosinare un pezzo di pane. In fondo, quel che siamo ce lo dà Dio.
Rientrato al mio pertugio, al monastero, mi accasciai nella cella pregando e ringraziando l’Altissimo di quella esperienza suprema. Lo sforzo, la fatica, forse anche l’ansia, ebbero la meglio e durante la notte fui tormentato dagli spasmi all’addome che mi impedivano il sonno, tanto che alle sette del mattino decisi di andare in cerca di una qualche pasticca per il mal di pancia e chiesi informazioni fino a che trovai l’infermeria del monastero. Qui fui visitato e il medico trascrisse diligentemente nel suo librone che ero stato alla infermeria per un mal di pancia, dal quale si escludeva problema organico di sorta e si prescriveva anti spasmo e tè verde. Mi avesse prescritto un panino col salame santo quel Dio!!!!
Uscito dall’infermeria, ero in preda alla fame e avrei mangiato qualsiasi cosa. Mi ero deciso di avventurarmi nelle case adiacenti al monastero, alloggio di agricoltori che aiutano i monaci nelle loro mansioni, sperando di rimediare qualcosa. Quella del pellegrino affamato, come ebbi modo di scoprire l’indomani, non era una sorte a me soltanto destinata. L’indomani infatti vidi un pellegrino come me che cercava non so cosa in un prato come un’anima inquieta, un signore di una certa età. Ebbene, non credo ai miei occhi, furtivo lo vedo a mangiare dell’erba che aveva raccolto da terra. Un cespo intero che si è masticato e deglutito con gusto. Santo cielo non ero l’unico quindi in preda alla fame.
La sorte mi aiutò ancora quando, presso le case dei lavoratori, incontrai un bambino, Luca, nel quale Iddio aveva riposto Carità e compassione, uniche qualità, assieme all’umiltà, che fanno di una creatura una immagine di Dio. Questi, al quale io implorai qualcosa da mangiare, andò a prendermi una ciottola di minestra e dei frutti, che mi offrì senza volere nulla in cambio. Quel Dio bambino mi ha dato da mangiare quando avevo fame, che tutto l’universo possa ricompensarlo del suo amore. Gli donai una copia del mio libro in serbo, cosa che feci anche col monaco bibliotecario, che, prima di accettare il libro, volle giustamente sapere tutto di me e del mio lavoro. Come si vede dalla narrazione, a parte la mia mancata preparazione alla vita monastica, tutto mi attorniava e mi amava, dai monaci ai loro servitori e amici. Come un figlio ero amato e accolto. Tanto che prima della partenza per il mio rientro a Ierissos prima e Salonicco poi, un monaco, che aveva gli occhi di una tal bellezza da esser degni di quelli di Atena Glaucopide, mi disse (in italiano): “Te ne vai già? Fermati con noi fino a Pasqua!”. Fui invitato quindi a fermarmi col loro ancora, fino alla Resurrezione, ma io gli dissi che il mio cuore rimaneva li, mentre io partivo verso il mare.
Un fatto interessante e degno di nota è che il ragazzo che fa l’accoglienza ai pellegrini, parlando della società e della religione, mi chiede a un certo punto se io ero vaccinato contro il covid. La domanda mi lascia basito e gli dico, non senza un certo imbarazzo, che no, non lo ero. Ebbene lui mi risponde: “Well, it is a poison”. Mi dice, cioè, che esso è un veleno. Ne rimango piacevolmente sorpreso, data la mia avversità a imposizioni sanitarie di qualsiasi sorta. So che peraltro i diversi vescovi e patriarchi della chiesa ortodossa difficilmente trovano un accordo su questi delicati temi etici e sanitari. Essendo però i patriarchi a stretto legame con i governanti, ed essendo essi stessi dei “politici” sono sicuramente non esenti da pressioni e fattori di visibilità. Cosa diversa per il mondo monastico, che rinuncia ai riflettori occupandosi solo di Dio, ed al Monte Athos che, essendo una Repubblica autonoma che si autogoverna, fa scuola a sé per quanto riguarda l’ortodossia. Dobbiamo quindi prendere come segno profondo che per i monaci del monte sacro il vaccino contro il covid sia un veleno spirituale e morale, come mi è stato detto nella mia esperienza monastica. Che il fisico abbia un corrispettivo spirituale è lo stesso ragazzo a dirmelo, nella medesima conversazione che stavo avendo con lui, quando, appreso del mio mal di pancia, mi risponde che si tratta non del corpo, ma di un demone che mi tormenta, il demone del mondo occidentale che mi vuole impedire di diventare ortodosso. Queste le sue parole, che mi lasciarono incredulo, per la saggezza che emanavano. Pertanto la Sapienza del monastero mi rivelava Eterne verità: il vaccino come pericolo morale oltre che fisico, e che il fisico è governato da forze ultraterrene. Solo l’incessante e ininterrotta preghiera, accompagnata dalla mortificazione, carità e umiliazione possono salvarci da questo veleno.
Lasciato la terra Sacra del Monte Athos, lascio i monaci portando con me una perla indistruttibile nel mio cuore. Non ero più lo stesso uomo, e ormai per sempre avrò nell’Animo un sigillo che mi è stato impresso dai Sacri Spiriti di quella terra.
Note:
1 – Omero, Iliade XIV, 225-229;
2 – Eschilo, Agamennone 284;
3 – Apollonio Rodio, Argonautiche, 5. I canto.
Emanuele Franz
addì 27 aprile ’22 presso Sremska Kamenica – Novi Sad – Serbia