La Tradizione giuridico – religiosa romana: il pensiero di Julius Evola e l’ideologia del diritto naturale – Giandomenico Casalino
* Saggio apparso sulla Rivista Vie della Tradizione n. 178/179 (Gennaio-Dicembre 2020)
Julius Evola nei suoi scritti ha esplicitato in termini morfologicamente universali e pertanto esaustivi, cosa si debba intendere per Legge e Diritto nel mondo della Tradizione universale; ed ha trattato quindi il significato del Diritto anche nell’ambito della cultura tradizionale dell’Occidente Elleno-Romano-Germanico, considerandolo aspetto essenziale della natura stessa delle stirpi indoeuropee nella valenza delle loro vicende più mitico-simboliche[1] che storiche. Noi qui, non volendo diffonderci su tale argomento, ci avviamo a considerarlo come “dato” acquisito e, presupponendolo, ci interesseremo di un aspetto della visione del Diritto in Evola che, lungi dall’essere secondario o marginale, è invece propedeutico alla comprensione della polarità[2] (tipica poi della Denkform indoeuropea…) intrinseca nel suo stesso vedere la realtà.
La polarità di cui parliamo è evidente in guisa palmare nel modo in cui Evola affronta la “quaestio” del cosiddetto Diritto naturale, in un denso ed articolato capitolo presente in L’Arco e la Clava[3], titolato: “Idea olimpica e diritto naturale”. Il nostro intendimento è quello di provare, documentalmente e quindi in guisa inoppugnabile, che la posizione di Evola, il suo giudizio fortemente critico nei confronti del “mito” del Diritto naturale antico ed “a fortiori” del giusnaturalismo, non solo è coerente con la visione tradizionale ed organica del mondo e della vita ma, sostanzialmente, è la stessa che, ad occhio attento, appare emergere dalla cultura giuridico-religiosa romana, come “forma mentis” contenuta nelle fonti medesime del Diritto romano. È bene però, in via preliminare, cercare di mettere ordine intorno alle valenze semantiche delle parole di cui ci avvaleremo nel presente scritto, alla luce della loro etimologia. Non si può, infatti, entrare nel “valore” di ciò che intende la dottrina tradizionale, e quindi Evola stesso, nel momento in cui usano il termine natura, senza effettuare un’autentico “opus remotionis” delle incrostature di significati cristiani e/o moderni che occultano e mistificano il parlare originario. L’”incipit” di Rivolta contro il mondo moderno[4] è solarmente chiaro a tal proposito: vi è una natura infera (cioè inferiore…) oscura e vi è una natura superiore, luminosa; vi è una natura ctonia, terrestre e vi è una natura celeste; ma, in termini splendidamente platonici, anche per Evola l’Intero è Phýsis, la stessa è Dèi, demoni, uomini, piante ed animali, forze “sottili”, psichiche ed oggettive Realtà Divine quali stati superiori dell’Essere, Idee in senso platonico; ed Hegel, anch’egli in guisa platonica, chiosa affermando che “l’Intero è il Vero!”.
Qui non vi sono dualismi tra cielo e terra, né “spiritualismo” o “materialismo”, né “soggetto” ed “oggetto”, per il mondo tradizionale greco-romano e la sua sapienza tale sciocchezzaio non esiste, non avrebbe avuto senso: ecco le prime fisime moderne di cui liberarsi nell’affrontare tale problematica. L’Aristotele di Fisica, B, 1, ed il commento di Heidegger[5] allo stesso passo, sono, propedeuticamente ed in modo pedagogico, chiarificatori in ordine anche e soprattutto al fatto che, essendo sia il Timeo platonico che la Fisica aristotelica, i fondamentali libri dell’Occidente, gli stessi comprendono anche la cosiddetta (da noi) “metafisica” dove, è noto, che, per quanto concerne l’insieme di scritti aristotelici che Andronico andò ad ordinare e collocò dopo la Fisica, non sono altro che appunti di lezioni di scuola non più intorno alla Phýsis in generale (cioè la Fisica) ma sull’“ente in quanto ente” che sempre emerge da quella e che in quella sempre sta, risiedendovi. Nella Grecia arcaica e classica (non certo nell’illuminismo massonico dell’intellettualità sofistica…) pertanto la Phýsis[6] non è assolutamente la natura fisica in senso moderno e quindi meccanicistico e grossolanamente materiale[7], ma è Ordine divino del mondo, Themis, dato “ab aeterno“, dove il nòmos della Città si identifica ad esso. Carattere distintivo della spiritualità greca tradizionale è il fatto che per l’elleno la Phýsis come Ordine cosmico, essendo il dato, è come voluto[8], nel senso che l’ordine umano è imitazione, necessaria ed implicita nella Legge, di quello, adeguamento allo stesso in una tensione essenzialmente eroica e nella convinzione che il nòmos è dikàios = giusto, solo se ed in quanto è “mimesi” della Phýsis: “La sovranità della legge è simile alla sovranità divina, mentre la sovranità dell’uomo concede molto alla sua natura animale… la legge è intelligenza senza passioni…” (Aristotele, Politica, III, 16, 1278a). Poiché sappiamo che la Divinità per i Greci, e per Platone ed Aristotele in particolate, è nel Cosmo[9] è evidente che se la Legge è simile alla sovranità Divina, la stessa Legge è quella visiva degli Dèi della Luce e del Cielo luminoso. La Città è ordinata secondo il nòmos che è dìke, la divina figlia di Zeus e di Themis, cioè la universale giustizia degli Dèi olimpici nella sua attuazione umana[10] e non secondo il nòmos degli Dèi ctonii e materni, ordine quest’ultimo che ha preceduto quello degli Elleni e che gerarchicamente vi è sottoposto. Anzi nelle parole di Aristotele, vi è l’essenza della Grecità: il mondo è manifestazione nella Luce di Forme dell’Essere e della Vita (per dirla con W. F. Otto), distinte, definite, prive di passioni e se ciò in termini mitici è l’Ordine che la regalità cosmica di Zeus impone alle Potenze primordiali dell’Essere che Egli sconfigge con il suo avvento[11], in termini platonici è la funzione archetipale del Dio come “misura di tutte le cose”[12] che è l’Uno-Bene quale Mèghiston Màthema = Conoscenza suprema cioè Apollo; mentre nello Stagirita è la Divinità come Armonia invisibile del mondo, Pensiero di Pensiero.
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Ciò che oppone radicalmente la cultura giuridico-religiosa romana alla spiritualità ellenica è il diverso atteggiamento, in termini antropologici, che il Romano ha nei confronti del mondo, del “dato”. Per il Romano infatti esso non esiste “a priori” e dall’eternità; vige invece il principio contrario: il voluto è come dato[13] (mentre abbiamo precedentemente esplicitato che nel mondo greco il dato è come voluto).
Il Romano pertanto con l’azione rituale, fa, crea il cosmo che è la Res Publica, l’ordine degli Dèi, in particolare di Jupiter, Dio della Fides, del Diritto e dei patti, somma divinità della funzione primaria che è magico-giuridica.
Egli è lo Stato romano[14], che è conquista culturale e ordinamento di un precedente “dato” biologico e caotico, in una parola naturale, cioè lo ius gentium. Osservando la Romanità da un punto di vista ancor più universale nonché in termini di metafisica della stessa, crediamo di aver dimostrato in altra sede[15] e sempre sviluppando, mediante il metodo tradizionale dell’analogia e dell’anagogia[16], alcuni aspetti della conoscenza evoliana della simbologia e Tradizione ermetica, che la essenza più intima e quindi esotericamente “nascosta” ai più, della Romanità risiede nella presenza di due Realtà Divine: Venere (Enea) e Marte (Romolo). Il senso ultimo del ciclo romano, nonché dell’apparizione medesima della Città, come uscita della stessa dall’Immanifesto al manifesto, dal Premonadico al monadico (l’ergriffenheit, secondo Kerenyi), consiste tutto nel Mistero del Rito come Ascesi dell’Azione che proiettandosi su Venere la trasforma in Marte (ed è l’apparizione di Roma-Romolo) con questa potenza agita e fissa il Mercurio (Forza di vita scatenante) per ottenere Giove (ed è la Via Eroica al Sacro ed ai Summa della Romanità per mezzo della guerra Sacra) realizzando infine Saturno come Re Primordiale dell’Età dell’Oro (la Pax Romana, simbolizzata da Augusto, Imperator et Pontifex Maximus). Da questa visione, diremmo bachofeniana, della intera Romanità, emerge ciò che lo stesso Evola indica a proposito della morfologia generale del Rito il quale: «[…] attua il Dio dalla sostanza delle influenze convenute [.. .] qui si ha qualcosa, come uno sciogliere ed un risuggellare. Viene cioè rinnovato evocativamente il contatto con le forze infere che fanno da substrato ad una divinificazione primordiale, ma altresì la violenza che le strappò a se stesse e le liberò in una forma superiore […]»[17]. Tale passo da noi in altra occasione già citato, nonostante la sua enorme rilevanza, da nessuno degli studiosi dell’opera evoliana è stato messo in sufficiente evidenza. In esso vi è espressa la legge universale del processo e della finalità stessa dell’Azione rituale che, rinnovando l’Ordine, fa gli Dèi e, quindi, per analogia, del Rito giuridico-religioso romano[18]. Consegue da quanto detto che, lungi dall’accettare una “natura” precostituita (anche se intesa sempre in termini non materialisticamente moderni) e lungi dall’Agire dopo l’accettazione del dato come nella grecità, il Romano inizia il suo ingresso nella storia sacralizzandola con il Rito e con esso, anzi in virtù dei suoi effetti nell’Invisibile che si riverberano nel visibile, muta il caos in cosmos e, mediante tale metafisica pratica, realizza il Fas dello Ius, cioè il Dharman del rtà, come è detto nel RgVeda[19]. Il Romano ha un concetto “povero” di natura, non esistendo per il suo spirito e davanti alla sua vista quell’Ordine complesso di Forme che emergono dal fondo dello stesso e che è la Phýsis dei greci; egli pensa la natura solo nel momento in cui essa è ordinata dallo Ius civile[20], con una precipua azione culturale che è, in essenza, cultuale cioè rituale. In guisa tale che la natura e la legge risultano essere la stessa cosa, ma non “a priori” come per il greco, bensì “a posteriori“, cioè dopo che sulla natura (che non esiste… ed è la cera informe) è impressa la forma, il sigillo, il significato, l’Ordine (il Diritto). Pertanto è il Diritto che crea letteralmente la natura a sua immagine, non esistendo “due” realtà ma bensì una sola realtà: la natura che è pensata giuridicamente, cioè secondo l’ordine dello Ius civile, che è lo Ius romanorum. Il Romano ascolta, vede e sa e, per l’effetto, agisce nei termini in cui la Legge è la natura ordinata in cosmo! Tutto ciò Evola lo ha intuito ed espresso in tutta la sua opera ed il discorso che stiamo conducendo non è altro che lo sviluppo logico (ovviamente non in termini di logica astratta e cioè moderna…) nonché comparativistico con altri studi (Kerenyi, Eliade, Dumézil, Sabbatucci, Bachofen ed Altheim) delle sue argomentazioni anche apparentemente non attinenti alla questione che stiamo trattando. Tutto ciò premesso, l’idea stessa di un “diritto naturale”, anche nei termini stoici a cui accenneremo, è totalmente estranea alla mentalità giuridico-religiosa romana, e ciò dall’età arcaica sino al tardoantico precristiano. È infatti impossibile per il Romano, magistrato, sacerdote o giurista che sia, pensare ad una apriorica “natura”, in qualsiasi guisa concepita, che deontologicamente detta ed indica le norme fondamentali della Res Publica alle quali il Ius civile deve conformarsi. È impossibile, poiché, date quelle premesse di cui sopra, tale logica sarebbe stato lo stravolgimento dell’anima stessa della Romanità; anzi potremmo dire che, ove per assurdo, l’avesse fatta propria, avrebbe provocato la sua morte (cosa che infatti è puntualmente accaduto con l’avvento dell’Impero ormai cristianizzato ed il lento infiltrarsi nel corpo del Diritto romano postclassico della ideologia dualistica cristiana).
La prova ulteriore di quanto siano estranei alla mentalità tradizionale romana la cultura ed il pensiero stesso di un Diritto che si confaccia ad una pretesa natura, considerata come realtà o fisica o “morale” data “ab aeterno“, risiede in un famoso passo di Ulpiano, che è necessario riferire integralmente: «[…] ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non umani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra quae in mari nascuntur, avium quoque commune est, hinc descendit maris et feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras, istius iuris peritia censeri»[21] (Digesto 1.1.1.3 e 4).
In esso è evidente in modo solare che il “caos”, di cui parlavamo, e cioè la natura come nulla acosmico che il Romano con il rito giuridico-religioso muta nel Cosmos secondo il Fas dello Ius, non è altro che il Diritto naturale identificato con il costume degli animali = more ferarum. Ulpiano dice, ed a chiare lettere, che lo Ius naturale è quello che la natura biologico-fisicistica indica, impone a tutti gli animali e non certamente all’uomo, se non nella sua dimensione strettamente e propriamente naturalistica in senso biologico, come ritmi di vita che, comunque, vengono governati ed ordinati in via subordinatamente gerarchica da una precisa sfera culturale che si riconduce sempre e soltanto al mondo dello Spirito che è quello dello Ius civile ed è essenzialmente di natura religiosa. È talmente chiarificatrice tale esposizione di Ulpiano che è, non si dimentichi, un giurista del III secolo d.C. (e che, si presume, abbia potuto recepire l’intera letteratura sia strettamente filosofica al riguardo quanto il pensiero medesimo dei giuristi che lo hanno preceduto) da non essere gradita ad un giusfilosofo quale Guido Fassò, di formazione culturale cattolica, il quale rimprovera[22] addirittura ad Ulpiano una concezione troppo “naturalistica” (sic!) del Diritto naturale che, ovviamente non si confà all’idea che di quest’ultimo vuol far passare il Fassò medesimo, in uno con la sua ispirazione cristiana. Noi, invece, crediamo di poter utilizzare “a contrario” le stesse censure mosse dal Fassò ad Ulpiano e dire che, lungi dall’essere limitato o deviante il pensiero del giurista romano e lungi dall’arrampicarci sugli specchi di una vana battaglia ermeneutica, peraltro manifestamente intollerante perché non rispettosa della fonte medesima e dei suoi significati, proprio dal passo surriportato emerge quanto sia storicamente veridico, poiché ideologicamente coerente, ciò che qui abbiamo tentato di esplicitare. La concezione del “Diritto naturale” come un ordinamento morale cui il diritto positivo degli uomini deve uniformarsi, non solo non è mai esistita nella cultura giuridico-religiosa romana (Cicerone, infatti, quando appare parlare in tale guisa, nel “De Republica” 3,22,33 e nel “De Legibus” 2,4,8, anche se in modo stilisticamente pregevole, non fa che presentare al pubblico erudito romano, teorie stoiche da lui ripensate. Pertanto non è il giurista a parlare ma l’avvocato innamorato della filosofia greca…); ma quello che, a volte nei testi dei giuristi, sempre giuntici tramite la raccolta giustinianea, viene citato come “Ius naturale”, si confonde nella Tradizione giuridica romana con lo Ius gentium che è, come sappiamo, il Diritto non romano che la potenza dell’Azione spirituale della stessa Romanità accoglie nell’orbis romanus mutandolo in Ius civile, cioè evento culturale romano. Fatto emblematico di tale atteggiamento è la Constitutio Antoniniana del 212 d. C…. Lo Ius gentium è quindi l’insieme degli usi, delle consuetudini e dei costumi giuridici e religiosi delle gentes, tanto quelle precedenti la nascita di Roma quanto le intere popolazioni nel senso di nationes che Roma stessa andava ad incontrare; tutto ciò il Romano lo giudica come qualcosa di estraneo alla civitas, di naturalistico nel significato di primitivo e che la Res Publica in termini culturali romanizza pur conservando le loro precipue caratteristiche ed elementi distintivi, realizzando quello che definiamo il miracolo della tolleranza della Città che diviene mondo: unico esempio di globalizzazione giusta nella storia dell’umanità!
D’altronde è bene dirlo una volta per tutte, la dottrina del cosiddetto Diritto naturale, nella sua caratteristica intrinseca: sempre come pulsione individualistica, prima in chiave psichicamente fideistica e cioè cristiana e poi, laicizzata, nel giusnaturalismo moderno, non proviene nemmeno dalla Filosofia greca. Gli Stoici, infatti, per “natura” intendevano la “naturalis ratio“, la natura razionale dell’uomo – rectius del saggio – e non quella animale, non interessando loro assolutamente la moltitudine degli uomini in generale, non essendo e non potendo essere gli stessi ovviamente dei saggi. In ciò obbedivano al criterio di giudizio caratteristico di tutta la cultura classica, cioè prettamente elitario ed aristocratico. Allora l’origine della mistificazione della dottrina stoica, la sua democratizzazione proviene dall’individualismo insito nel cristianesimo fino alla Rivoluzione francese compreso lo stesso Illuminismo; quindi da Tommaso d’Aquino, attraverso la corrente francescana, la seconda scolastica, fino a Grotius e Domat[23]. D’Altronde in Agostino la concezione dello Stato è perentoriamente individualistico-contrattualistica e quindi deliberatamente antitradizionale. Per l’Ipponate, infatti, lo Stato nasce dalla violenza e dal sangue[24] e nel suo “De Civitate Dèi“, citando il fratricidio di Romolo, dichiara che lo Stato si fonda sempre sull’ingiustizia; pertanto non può essere lo Stato come egli lo intende finché non si identifica con ciò che Agostino stesso chiama “Città di Dio” fondata e retta dalle leggi del Cristo; concludendo che, per l’effetto, lo Stato romano non è mai giunto ad essere tale! Quanto tutto ciò sia pervicacemente sovversivo nonché inaudito ed estraneo alla cultura classica greco-romana, non è il caso di evidenziarlo. Questa è la parabola discendente di quello che gli Stoici teorizzavano come “Diritto naturale”. In questa guisa si manifesta la trasposizione in termini antropologici, del discorso stoico nella psicologia da democrazia delle anime dell’individuo cristiano e nella sua prassi politico-culturale. L’equilibrato pensiero di un Romano come l’Augusto Marco Aurelio, la sapienza di un Epitteto o le convinzioni filosofiche di natura platonica di un Cicerone si tramutano, nella mentalità giudaico-cristiana, in odio pervicace nei confronti del mondo, del Politico e dell’Impero, in una utopistica, sovversiva ed allucinata “veduta” di quella che Agostino stesso definisce la “Gerusalemme Celeste”. È tutto ciò, seppur mitigato dall’accoglimento della razionalità aristotelica, resterà anche nella Scolastica medievale come un dito accusatorio puntato dalla Chiesa nei confronti dell’Impero, arrogandosi questa addirittura il diritto di sindacare la legittimità medesima dell’autorità imperiale, secondo i dettami che Tommaso riferisce tanto alla “Lex divina” quanto alla “Lex naturalis“, con ciò confermando la esiziale pretesa cristiana della subordinazione dell’Impero alla Chiesa, come dire del Sole alla Luna! (Summa Theologiae, Ia 2ae, q. 93, art. 2; q.91, art. 2 e 4; q. 91, art. 3; q. 95, art. 2).
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Noi, non senza ragione, nel trattare della Romanità abbiamo sempre adoperato[25] un neologismo di nostro conio che è la parola composta: giuridico-religioso, poiché siamo convinti che per il Romano, poiché è il Rito che fonda e crea la Civitas e poiché esso è intrinsecamente sentito dal Popolo dei Quiriti come un agire giuridico-religioso, allora, di conseguenza, nella sua essenza tale Civiltà, come fatto storico, non può che essere di natura giuridico-religiosa[26]. Questo genere di approccio possiamo dire che si è fatto strada negli ultimi decenni, nell’ambito sia degli studi di Religione romana che tra quelli di Giusromanistica, smettendo, pertanto, di considerare, in termini stupidamente moderni e quindi sempre come effetto della cultura cristiana, le due sfere, il Diritto e la Religione nella Romanità, come separate in guisa tale che i relativi studi, pure eccellenti nel loro settore, sono stati sempre quasi come due linee parallele destinate a non incontrarsi mai. Diciamo che i nomi di Axel Hägerström[27], di Pietro de Francisci, per quanto riguarda gli antesignani e di Pierangelo Catalano[28], John Scheid[29], Giuseppe Zecchini[30] e soprattutto Dario Sabbatucci[31] per i tempi più recenti, possono dare un’idea di ciò che può significare accostarsi alla Romanità, pensare e studiare la sua vicenda storica in modo unitario sia come giuristi che come storici della religione antica, entrando così in idea nella sua mentalità, in uno sforzo di umiltà ermeneutica cercando di guardare il mondo con gli occhi dei Romani al fine di comprendere i presupposti ideali, i valori vissuti dalla stessa Comunità nella sua continuità storica e le categorie di pensiero, come forma mentis, su cui gli stessi si fondano. Chi, però, quasi in solitudine, in un mondo ed in un’epoca ammaliati di esotismo e di asiatismo, in cui vigeva ancora la convinzione, tanto popolare quanto cattedratica, condivisa peraltro dagli stessi ambienti tradizionali (vedi il pensiero di Guénon sulla civiltà greco-romana) che la Romanità fosse stata in definitiva solo una civiltà giuridico-politica ma che del fatto religioso in se stesso avesse sempre avuto, in un primo momento, un’idea del tutto primitiva ed animistica che poi arricchì, nel tempo, con il contatto con la cultura greca acquisendo dalla stessa il dato mitologico e che, soprattutto, tutto ciò non avesse avuto niente o quasi a che fare con il Diritto; ebbene, dicevamo, chi in un’epoca siffatta osò affrontare sempre il mondo spirituale di Roma in modo unitariamente giuridico-religioso, fu Evola! Egli infatti intuì, e ciò è presente sin dagli scritti degli anni Venti sino ad Imperialismo pagano, che è impossibile accostarsi all’essenza della Romanità se non ci si sforza di coniugare quei due elementi (Diritto e Religione) che per l’uomo moderno appaiono inconiugati e forse inconiugabili ma che per il Romano sono naturaliter il suo modo di essere nel mondo e la ragione del suo agire rituale nello stesso. Crediamo che Evola sia giunto alla conoscenza di tale verità in virtù di una sua affinità demonica con l’anima di quella Civiltà, rivelandoci pertanto che il nesso, l’anello di congiunzione tra le “due” sfere (che non sono tali ma sostanzialmente una) è il Rito e che, quindi, per tentare di dare una valenza esplicativa ad atteggiamenti, fatti, eventi ed azioni dell’intera storia di Roma, intesa soprattutto come storia del Diritto Pubblico romano nella sua dimensione simbolica e sacrale, in virtù dell’identificazione precipuamente romana di Pubblico con Sacro[32]; è da lì che bisogna muoversi, dalla Romanità quale Ascesi dell’Azione cioè da quel significato magico di creatore ed ordinatore del mondo che il Rito[33] ha in Roma, accostandosi ad essa pertanto in modo tradizionale, cioè organico. Esso, in termini di interdisciplinarietà, è l’unico, infatti, che consente di acquisire la griglia interpretativa in chiave profondamente ed essenzialmente spirituale dell’ intero ciclo romano.
Pertanto la concezione che, nell’ambito del discorso di cui sopra, Evola esprime in relazione al Diritto, è lecito affermare che coincide in modo sorprendente, solo per chi non voglia o non può vedere, per ignoranza radicale e della natura più intima del Diritto Romano e del pensiero unitario dello stesso Evola, con la medesima idea e prassi politica che ne avevano i Romani e che emerge dai testi tramandatici, sempre che gli stessi si leggano senza lenti ideologicamente moderne e quindi deformanti. Ciò che vuole esprimere Ulpiano, infatti, nel passo citato, dimostra che ad un giurista romano fino a tutta l’epoca classica e postclassica, non solo poco o niente poteva interessare ciò che Cicerone, da filosofo, aveva affermato in ordine alle tematiche stoiche, ma che in esso è presente a tutto tondo proprio quella polarità, di cui facevamo cenno all’inizio del presente saggio, tra forze biologiche e realtà spirituali (tra “Ius naturale” che insegna ed indica a tutti gli animali e solo ad essi e “Ius civile” che è precipuo del mondo civile e quindi della Romanità) che è la stessa presente in Evola in tutta la sua esegesi tradizionale ed in particolare nel suo giudizio intorno al cosiddetto Diritto naturale. Nel capitolo citato “Idea olimpica e diritto naturale“, Evola infatti, sviluppando le intuizioni e le argomentazioni di Bachofen[34], già nel titolo stesso dà l’inquadratura di quella polarità, quando contrappone, anche nel linguaggio, l’Idea, in termini platonici, che è per natura olimpica, e quindi relativa al mondo superiore dell’Essere, al Diritto naturale che, in guisa proprio ulpianea, (anche se Evola interpreta in modo diverso il passo…) definisce non il diritto per eccellenza ed in assoluto ma un diritto, cioè un modo, peculiare di una certa “razza dello spirito”, di concepire l’ordine politico in una prassi… antipolitica cioè antivirile e quindi del tutto naturalistico-biologica, egualitaria e femminile, riconducibile alla sfera dell’“etica” dell’utile tipica dei produttori nella tripartizione platonica dello Stato ed al dominio dell’anima concupiscibile nello Stato “in piccolo”. Tale ideologia precede, secondo Evola, anche lo stesso avvento del cristianesimo e, come corrente sotterranea all’itinerario spirituale della stessa civiltà indoeuropea, è presente in tutte le forme asiatico-materne assumenti poi i medesimi caratteri dell’assolutismo di marca tirannica o plebea, contro le quali sempre si erse Roma nella sua guerra sacra contro Dioniso e la Donna che è vicenda storica e simbolica insieme. Riallacciandosi agli studi del geniale Vittorio Macchioro[35] che per primo individuò il filo rosso che legava le correnti orfico-dionisiache al paolinismo cristiano ed alla sua disperata concezione da anima lacerata, Evola espone, anticipando di molti decenni le recenti acquisizioni della scienza politica dell’antichità[36], la natura e le cause vere, cioè giuridico-religiose, della conflittualità tra patriziato romano – di origine indoeuropea e di cultura pastorale, i cui Dèi sono maschi e celesti – e la plebe – con i suoi culti, i suoi riti ed il suo diritto, con l’Aventino come suo colle che si contrappone al Campidoglio, con la sua Triade (Cerere, Libero e Libera, divinità agricole e femminili, dove poi Libero è Dioniso) che si contrappone alla Triade Arcaica dei patrizi (Jupiter, Mars, Quirinus), Numi magico-giuridici e guerrieri.
Evola non poteva non avere quel giudizio sull’ideologia ed il “mito” antico del Diritto naturale proprio perché poi in esso, ed “a fortiori” nella sua cristianizzazione, individuò, potenziati dal nuovo tipo umano prevalente e con capacità quindi scatenanti, tutti quegli elementi di individualismo volontaristico prima (Agostino) e razionalistico poi (Tommaso) in uno con la conseguenziale anima femminile del cristianesimo, che avevano provocato un radicale spostamento delle basi ideali della vita, spezzando la visione unitaria della civiltà classica: l’ “ordo ordinatus” tanto come “dato = voluto“, secondo la mentalità Greca che come “voluto = dato” secondo quella Romana. Evola evidenzia, anche in questo pensando in modo molto simile ad un antico giurista romano, che tutto ciò non avrebbe potuto che annientare la visione serena ed oggettiva della Tradizione classica, a causa della presenza del momento creativo e soggettivo introdotto dall’individualismo cristiano in uno con il suo inaudito concetto di “volontà” (del tutto assente nella visione greco-romana che sapeva solo di “necessità”…) del Dio creatore e della sua legge che, con l’avvento del mondo moderno e con la secolarizzazione dello stesso, producente la cancellazione della fede cristiana, diviene la soggettività pubblica astratta della razionalità borghese e mercantile in una parola il giusnaturalismo moderno, lontano padre del fantasma giuridico kelseniano definito stato di diritto. All’animalità ed alla sfera puramente biologica (Paolo, agli Ateniesi scandalizzati che conoscevano solo della resurrezione dell’anima dal corpo, parlò di qualcosa di volgare come la resurrezione del corpo e infatti alla sua concezione del matrimonio sovrappone la pìstis = fede come “benedizione” di un rapporto che per lui resta sempre animalesco) che è, proprio in termini vetero-testamentari, definita, con un altro termine inaudito e sconosciuto alla cultura greco-romana, “carne”, il cristiano non può opporre nulla di organico e di virile se non la sua phychè prettamente lunare e non certo lo Stato come mente = Nòus quale Idea che dà la Forma alla “chóra” platonica, in tutte le sue significazioni. Tanto è vero che, in tutta la cultura cattolica, anche la più conservatrice, non si parla mai di “Stato” organico, che è qualificante la visione tradizionale Elleno-Romana ed è precipuo di essa, ma della “società” organica, privilegiando quasi per istinto la corrispondente sfera ctonica e femminile, non potendo vedere e quindi ignorando quella celeste, virile e/o superiore. Pertanto Evola afferma, a chiare lettere, che l’origine, la natura ed i fini della ideologia del cosiddetto Diritto naturale sono, come categorie a livello morfologico, eminentemente moderne in quanto biologico-egualitarie se non plebee e quindi antitradizionali e tendenzialmente sovversive nei confronti dell’Ordine giuridico-religioso della Teologia dell’Impero, realtà metapolitica e spirituale, principio ordinatore della “natura”; sovversive quindi di un mondo di oggettive certezze metafisiche cioè essenzialmente spirituali e non certo di natura psichicamente fideistica e, pertanto, umana… troppo umana! Da qui alla laicizzazione dell’ideologia cristiana del Diritto naturale, che è a sua volta una democratizzazione psichica dell’antica dottrina stoica, nel moderno giusnaturalismo, non c’è che il passo verso il tramonto dell’ecumene medioevale e l’avvento del razionalismo ateo ed utilitaristico della borghesia, non tanto e non solo come ceto prevalente quanto come cultura e visione del mondo.
Qui la “natura” non è più quella di cui parlava il cristianesimo, come ordine “morale” secondo la legge del Dio cristiano a cui si deve uniformare il Diritto positivo. Espunta la “fede” come elemento posticcio e sovrapposto ad una natura concepita già dallo stesso cristianesimo in termini meccanicistici e materialistici, quasi precorrendo Hobbes, Cartesio e Newton (avendo cancellato tanto la sacralità dello Stato cioè dell’Impero quanto l’intera concezione portata dalla cultura greca dei grandi miti naturali e della natura vista come “piena di Dei …”[37] e che, invece, per il cristiano sarà: “massa diaboli ac perditionis […]”); non resta che la natura molto più prosaicamente razionalistica dell’individuo (Grozio e Domat) e del mondo visto da Cartesio come “res extensa“, corpi materiali meccanicamente mossi da se stessi in uno spazio desolatamente vuoto. Quell’individuo, “liberatosi” da quella “fede”, vedrà solo i suoi “naturali” diritti (ed ecco il giusnaturalismo moderno) di proprietà, di libertà, di associazione, di lucro, il tutto vissuto uti singulus et contra omnes; in forza dei quali e brandendoli come arma di ricatto imporrà il suo “contratto sociale” (proprio come pensava Agostino che fosse nata la società politica…) e tollererà solo quello Stato che gli consentirà di esercitarli secondo il suo utile, giudicando poi da questo punto di vista della liceità e della legittimità di questa stessa larva di Stato e del suo diritto positivo. E, a ben riflettere, la medesima ultima ideologia del gender, che è la negazione del concetto naturale di genere, non è che la conseguenza terminale di tutta la proterva “religione” moderna dei diritti dell’individuo, che, a questo punto, non sono più “naturali” ma, in un capovolgimento satanico della dottrina tradizionale, e questa è la controtradizione, devono essere riconosciuti e tutelati come “culturali” cioè frutto di scelte operative dell’individuo che, così, rifiuta e non riconosce la sua stessa natura! Tale è l’esito finale, da Età Oscura avanzata, del giusnaturalismo, e ciò dimostra, a contrario, quanto sia nel vero la dottrina tradizionale, quando individua la essenzialità della polarità tra l’elemento culturale-spirituale celeste che è formativo ed ordinante e l’elemento inferiore che è il dato naturale e biologico ordinato; è, infatti, tanto vera tale dottrina che, dopo le ubriacature naturalistiche della modernità, i tempi ultimi ritornano alla stessa in guisa però, come sopra abbiamo accennato, satanicamente parodistica, proprio nella stessa ideologia del gender che è, pertanto, la snaturalizzazione dell’essere umano, indirizzata certamente verso lo Spirito ma delle Tenebre e non più e mai più della Luce!
Tutto ciò acquisito, la vecchia polemica portata avanti da certi ambienti ideologico-culturali di area presumibilmente cattolica, secondo cui Julius Evola, proprio in virtù del suo tradizionalismo avrebbe dovuto non solo consentire con la corrente di pensiero che per comodità definiamo del “Diritto naturale”, ma anzi ne avrebbe dovuto fare uso paradigmatico e referenziale nei confronti della concezione moderna del Diritto (che è contrattualistico-individualistica, priva di ogni legittimazione dall’Alto e quindi eticamente indeterminata nonché finalisticamente neutra) appare non solo e non tanto falsa, cioè non vera in quanto difetta di fondamenti storico-culturali, quanto surrettiziamente contraddittoria. Infatti tale “tesi” pretenderebbe di coniugare la cultura tradizionale in senso lato, se non proprio la Tradizione giuridico-religiosa dell’Occidente che è quella Romana, con la teoria e l’ideologia del diritto naturale che, crediamo, di aver dimostrato essere invece totalmente e radicalmente in contrapposizione con quella, essendo alla stessa tanto estranea quanto appare essere invece la quidditas della stessa concezione borghese e liberaldemocratica dello Stato e del Diritto e cioè dell’ideologia kelseniana del cosiddetto Stato di diritto. Tutto ciò Evola lo ha esplicitato ampiamente nelle sue opere, in tutte, non resta altro che, secondo le varie equazioni personali, chi sappia e possa ne tragga organiche riflessioni nel proprio campo di indagine e sempre secondo lo spirito della visione tradizionale del mondo che è sintetica e simbolica e non analitica e diabolica.
Note:
[1] J. EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno, Roma, 1998, pp. 30 ss.; IDEM, La tradizione ermetica, Roma 1971, p. 31; GRUPPO DI UR (a cura di J. EVOLA), Introduzione alla magia, Roma 1971, vol. III, p. 66; K HÜBNER, La verità del mito, Milano 1990; M. ELIADE, Mito e realtà, Milano 1974.
[2] G. E. R. LLOYD, Polarità ed analogia. Due modi di argomentazione del pensiero greco classico, Napoli 1992; C. DIANO, Forma ed evento, Venezia 1993.
[3] J. EVOLA, L’arco e la clava, Milano 1971, pp. 66 ss.
[4] J. EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno, Roma, 1969, pp. 19 ss..
[5] M. HEIDEGGER, Segnavia, Milano 1987, pp. 193 ss.
[6] Sulla convergenza tra la visione della natura dell’intera sapienza greca e la dottrina tradizionale stessa (su questa vedi J. EVOLA, La Tradizione Ermetica, Roma 1971, p. 37), cfr. G. REALE, Storia della Filosofia Antica, Milano 1980, vol. I, pp. 115, 145, 169 ed il vol. V, pp. 209 ss.; G. R. LLOYD, Magia, ragione, esperienza. Nascita e forme della scienza greca, Torino 1982, pp. 28 ss. e p. 187 note n. 53 e 54; L. GERNEt, Antropologia della Grecia antica, Mondadori, Milano 1983, pp. 339 ss.; F CAPRA, Il Tao della fisica, Milano 1982, pp. 20 ss.; O. BRUNNER, Vita nobiliare e cultura europea, Bologna 1972, pp. 91 ss.; K. KERENYI, La religione antica nelle sue linee fondamentali, Roma 1951, pp. 95 ss.; A. SOMIGLIANA, Monismo indiano e monismo greco nei frammenti di Eraclito, Padova 1961, p. 19, nota n. 48.
[7] Anche sulla parola “materia” è da fare chiarezza: i Greci (PLOTINO, Sulla materia, IV, 9,45; PLATONE, Timeo, 52b2) non conoscevano tale termine moderno e/o cristiano ed il relativo concetto, per essi è conoscibile solo ciò che esiste ed esiste solo la forma, l’essere; la “materia” priva di forma non è conoscibile e quindi non esiste; questo è il senso del frammento di Parmenide in cui è detto che “l’essere e il pensiero sono l’identico”. Infatti hýle è altro, in Aristotele è termine tecnico significante “un insieme di legname accatastato senza ordine” pronto per l’uso. Di conseguenza non conoscevano il termine sòma = corpo in riferimento all’essere vivente ma bensì solo in riferimento al cadavere o a chi si prepara… a morire: e l’uso iniziatico che Platone ne fa nel Fedone è evidente…, cfr. su tale problematica R. DI GIUSEPPE, La teoria della morte nel Fedone platonico, Bologna 1993; H. FRANKEL, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, Bologna 1997, pp. 33ss.; R. B. ONIANS, Le origini del pensiero europeo, Milano 1998, pp. 119ss; G. CASALINO, L’origine. Contributi per la filosofia della spiritualità indoeuropea, Genova 2009, pp. 28 ss..
[8] G. CASALINO, Il sacro e il diritto, Lecce, 2000, pp. 45 e ss..
[9] R. GASPAROTTI, Movimento e sostanza. Saggio sulla teologia platonico-aristotelica, Milano 1995; C. NATALI, Cosmo e divinità. La struttura logica della teologia aristotelica, L’Aquila 1974; W. JÄGER, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze 1961.
[10] E. CANTARELLA – A. BISCARDI, Profilo del diritto greco antico, Milano 1974.
[11] Sul carattere cosmico della regalità di Giove cfr. P. PHILIPPSON, Origini e forme del Mito greco, Torino, 1983, pp. 45 ss.: dove, comunque, alla definizione di precosmico, in relazione a ciò che «precede» Giove, preferiamo il termine ipercosmico, cioè Primordiale, sarebbe a dire il regno di Saturno, l’Età dell’Oro e/o dell’Essere.
[12] PLATONE, Leggi, X, 889 ss.; M. GIGANTE, Nòmos basileus, Napoli, 1993; A. LO SCHIAVO, Themis e la sapienza dell’ordine cosmico, Napoli 1997, pp. 270 ss; G. ZANETTI, La nozione di giustizia in Aristotele, Bologna 1993, pp. 45ss..
[13] G. CASALINO, Il sacro e il diritto, cit. pp. 45 ss..
[14] K. KOCK, Giove romano, Roma 1986.
[15] G. CASALINO, Aeternitas Romae. La via eroica al sacro dell’Occidente, Genova 1982; IDEM., Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2013; cfr. anche C. G. JUNG-K. KERENYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1972, pp. 40ss..
[16] Il processo parte dall’analogia orizzontale, per poi salire con la anagogia verticale: «[…] Si vede perciò che ogni ermeneutica implica l’interpretazione di «livelli» distinti dei Testi Sacri, che si elevano gli uni rispetto agli altri in quel movimento ascensionale di «anafora», propriamente simbolico, in cui ho insistito precedentemente. In altri termini il processo metafisico nel suo insieme si potrebbe rappresentare mediante un’espansione «orizzontale» dell’analogia, e il processo anaforico mediante un orientamento «verticale» verso il Significatore stesso. Venuta dal Verbo, la parola ritorna a Lui, e questo ritorno del fiume alla sua sorgente corrisponde a un’«ascensione» che scopre degli orizzonti nuovi, sempre più vasti e più profondi, allo Spirito che li contempla, riconoscendosi in essi a mano a mano che svela ciascuno dei suoi specchi […], R. ALLEAU, La Scienza dei Simboli, Firenze 1983, p. 113.
[17] J. EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 53-54.
[18] G. CASALINO, Riflessioni sulla dottrina esoterica del diritto arcaico romano, in “Arthos” n. 19, Genova 1982, pp. 255 ss..
[19] A. BERGAIGNE, La religion vedique, Paris 1883, vol. III, pp. 220 e 239. Nella radice “weid” è contenuta la nozione indoeuropea del “vedere-sapere”: cfr. P. SCARDIGLI, Filologia germanica, Firenze 1977, pp. 96ss.; Id è una delle radici (le altre sono: ora “op“) del verbo greco “orào” che significa vedere; in latino è video, mentre risulta chiaro il significato esoterico di Libri Sacri come l’Edda oppure i Veda: i Libri della Visione o, più semplicemente, la Visione …
[20] Y. THOMAS, J CHIFFOLEAU, L’istituzione della natura, Macerata 2020, pp. 16 ss..
[21] “[…] Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati (animalia); ed infatti questo diritto non è proprio del genere umano, bensì è comune a tutti gli esseri animati che nascono in terra ed in mare, ed anche agli uccelli. Di qui discende l’unione del maschio e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio, di qui la procreazione e l’allevamento dei figli; e infatti vediamo che anche agli altri animali, perfino a quelli selvaggi, si attribuisce la pratica di questo diritto…”.
[22] G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, Bologna 1970, vol. I, pp. 151 ss.
[23] M. VILLEY, Leçon d’histoire de la philosophie du droit, Paris 1962, pp. 221 ss.; A. TOURAIN, Critica della modernità, Milano 1997, pp. 49ss.
[24] AGOSTINO, De Civitate Dei, XV, 5; II, 21; CELSO, Il discorso vero, Milano 1987; L. ROUGIER, La sovversione cristiana e la reazione pagana sotto l’impero romano, Roma s. i. d.; W. NESTLE, Storia della religiosità greca, Firenze 1973; in particolare pp. 464ss.; W. F..OTTO, Spirito classico e mondo cristiano, Firenze 1973; SALUSTIO, Sugli Dei e il Mondo, Milano 2000.
[25] G. CASALINO, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, cit.; IDEM, Il sacro e il diritto, cit; IDEM, Res publica res populi, Forlì 2004; IDEM, Tradizione classica ed era economicistica, Lecce 2006; IDEM, Le radici spirituali dell’Europa. Romanità ed ellenicità, Lecce 2007; IDEM, L’origine… cit.; IDEM, L’essenza della romanità, Genova 2014; IDEM, La spiritualità indoeuropea di Roma e il Mediterraneo, Roma 2016; IDEM, Sigillum scientiae, Taranto 2017.
[26] Sulla natura magico-religiosa del diritto romano cfr. oltre al nostro Riflessioni sulla dottrina…, cit.; H. WAGENVOORT, Roman Dynamism, Oxford 1947; W. CESARINI SFORZA, Diritto, Religione e magia, in “Idee e problemi di filosofia giuridica“, Milano 1956, p. 313ss; R. SANTORO, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in “Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo“, vol. XXX, Palermo 1967: in cui la visione del WAGENVOORT è sviluppata ed autorevolmente confermata ad iniziare dalle legis actio…; P. HUVELIN, Magie et droit individuel, in “Annèe Sociologique“, 10, 1907 e Les tablettes magiques et le droit romain, in “Etudes d’Historie du droit romain“, 1900, pp. 229 ss; A. HAGERSTRÒM, Das magistratische Ius in seinemZusammenbange mit d. rom. Sakralrechte, Upsala 1929 (dove è esplicitamente detto che la forma mentis giuridica romana è sostanzialmente magica, come d’altronde noi stessi, in altra sede, abbiamo sostenuto partendo da presupposti tradizionali). Ed infine si veda quel monumento di conoscenza e di intuizioni che è Primordia Civitatis di P. DE FRANCISCI, Roma 1959, in particolare pp. 199-406. L’opera dell’insigne romanista, però, indulge a confusioni «animiste» in ordine alla definizione di Numen. Per una distinzione dalle interpretazioni animistiche cfr. J. BAYET, La religione romana storia politica e psicologica, Torino 1959, pp. 45 ss. e 119 ss. Comunque, sul Numen in Roma cfr. J. EVOLA, Diorama filosofico, Roma 1974, pp. 67 ss. e P. PFISTER, voce: Numen, in PAULY e WISSOWA, Real Encycl., vol. XVII, 2 coli. 1273 ss., Stuttgart 1893 ss. Cfr. anche F. DE COULANGES, La città antica, Firenze 1972: ove tutto il diritto pubblico e privato, è ritenuto fondato sulla religione; P. VOCI, Diritto sacro romano in età arcaica, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris“, vol. XIX, 1953, pp. 39 ss., in particolare la nota n. 22 a p. 43. Infine, sulla fonte «carismatica» = dall’alto dell’autorità cfr. P. DE FRANCISCI, Arcana Imperii, Roma 1970, vol. III (in due tomi).
[27] H. HÄGERSTRÖM, Das magistratische Ius in seinem Zusammenhange mit d. rom. Sacralrechte, cit..
[28] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, vol. I, Torino 1960.
[29] J. SCHEID, La religione a Roma, Bari 1983.
[30] ZECCHINI, Il pensiero politico romano, Roma 1996.
[31] D. SABBATUCCI, Lo Stato come conquista culturale, Roma 1975.
[32] G. CASALINO, Il sacro e il diritto, cit. pp. 75 ss..
[33] J. SCHEID, Quando fare è credere, Bari 2011.
[34] J. J. BACHOFEN, Diritto e storia, scritti sul matriarcato, l’antichità e l’Ottocento, Venezia 1990, pp. 44 ss.; IDEM, Le madri e la virilità olimpica. Studi sulla storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, Roma s. d.
[35] V. MACCHIORO, Orfismo e paolinismo, Foggia 1982.
[36] G. ZECCHINI, op. cit., p. 14.
[37] G. SERMONTI, L’anima scientifica, Roma 1982, pp. 42-43; R. FONDI, Organicismo ed evoluzionismo, Roma 1984.
Giandomenico Casalino