Giuseppe Tucci: le spedizioni tibetane dal 1928 al 1933 – Andrea Morandi
Speciale Giuseppe Tucci – Seconda Parte
Tra il 1925 e il 1930 Tucci aveva vissuto in India insegnando italiano, tibetano e cinese presso le università di Shantiniketan e di Calcutta, dove lo studioso non si limitò ad esercitare la professione di docente ma, oltre a perseguire le sue finalità di studioso ed orientalista in maniera “sedentaria”, iniziò ben presto a viaggiare verso i confini del Tibet e nei territori circostanti. Nel maggio del 1926 si spinse da Darjeeling (dove si era recato con il poeta bengalese Rabrindanath Tagore) verso l’interno del Sikkim. A Temi fu scattata l’unica immagine che può essere con certezza attribuita a questo viaggio: una foto di gruppo in cui Tucci appare insieme ai suoi accompagnatori, corredata da una didascalia scritta dallo studioso sul retro, con informazioni sul luogo, la data e le altre persone ritratte. Nel 1926, in un periodo imprecisato tra giugno e agosto, coincidente con il periodo di pausa estivo dalle lezioni, Tucci visitò l’Assam. Durante il viaggio visitò Gauhati e si soffermò in particolare al tempio di Kamakhya, sul quale scrisse poi un articolo. Dato il suo crescente interesse verso il buddhismo, visto dallo studioso come un coronamento della filosofia indiana classica e un ambito di studio ancora vasto ed inesplorato, Tucci tra il 1928 e il 1930 organizzò alcune spedizioni nel Ladakh, in Nepal e nelle aree himalayane dell’India di cultura tibetana. Dal giugno all’ottobre 1928 visitò Rawalpindi e gli scavi di Taxila, poi, in compagnia della moglie Giulia Nuvoloni, si diresse a Shrinagar attraverso Murree: dopo che ebbero ottenuto il lasciapassare per il Ladakh, si recarono in alcuni dei principali monasteri del paese. In particolare, la coppia soggiornò per oltre un mese nel monastero di Hemish, poiché Tucci voleva studiare i testi della biblioteca. Si sono conservate fotografie datate al 1928 anche di Dras, Leh, Basgo e Lamayuru. È probabile che la maggior parte della documentazione fotografica sia stata eseguita da Giulia Nuvoloni, la quale scrisse anche una relazione del viaggio, pubblicata però incompleta. L’anno successivo, sempre con la moglie, visitò il Nepal, mentre nel dicembre 1929 – 1930 Tucci viaggiò in India settentrionale e tra febbraio e marzo 1930 visita Darjeeling e Ghum. Tra il giugno e il settembre 1930 Tucci tornò nuovamente in Ladakh e forse visitò anche lo Zangskar, per rintracciare antichi testi buddisti e testimonianze artistiche a archeologiche; tuttavia di questo viaggio rimangono solo brevi accenni negli scritti[1] e una quindicina di fotografie del Ladakh sulle quali sul retro compare la data «1930». Nella corrispondenza con le autorità indiane per ottenere i permessi di viaggio, si fà riferimento anche allo Zanskar, ma non si conosce esattamente quali siano state le località visitate. Da luglio a ottobre 1931 Tucci organizzò la sua prima grande spedizione che, secondo il suo progetto iniziale, doveva attraversare zone poco conosciute dello Himalaya indiano e buona parte del territorio del Tibet occidentale.
Nella prima parte del viaggio Tucci attraversò il Ladakh e visitò Rupshu, Lahul e Manali. Percorse in seguito la valle del Sutlej fino allo Spiti, che fu da lui risalito fino a Kaza (Kaja), come è documentato dai nomi delle località in cui raccolse i ts’a-ts’a[2] pubblicati nel primo volume della serie Indo-Tibetica[3]. La marcia della spedizione fu rallentata da una serie di traversie, cosicché essa entrò in Tibet superando il passo di Shipki, e raggiunse Tiak solo il 2 ottobre: dato che l’inverno stava per cominciare rinunciò a proseguire e rientrò a Shimla alla fine del mese. Nel novembre 1931 Tucci visitò nuovamente, ma per breve tempo, il Nepal: al fine di consultare le biblioteche e mantenere contatti con le autorità e gli studiosi del posto, si trattenne a Kathmandu e nelle vicine città storiche. La successiva spedizione ebbe luogo tra giugno e ottobre del 1933: con questa Tucci volle completare l’esplorazione dello Spiti raggiungendolo dalla valle del Chandra, proseguendo la ricerca sui monumenti archeologici, religiosi e artistici dell’antico regno di Guge, riprendendo il cammino da dove era stato impedito a continuare due anni prima,. per giungere fino a Gartok, capoluogo della regione affacciato sull’Indo. Questa è la prima spedizione che Tucci raccontò sotto forma di diario, per cui è molto più facile ricostruire l’itinerario con le varie località visitate e gli elementi di interesse annotati dal professore. Vi è innanzitutto da segnalare che per questa spedizione fu ingaggiato in qualità di fotografo, cineoperatore e medico Eugenio Ghersi[4], il cui apporto fu determinante per la documentazione raccolta: il diario della spedizione fu infatti pubblicato originariamente con la doppia firma di Tucci e di Ghersi[5]. Seguiamo ora nel dettaglio la carovana, organizzata dal Tucci a Sultanpur, dove giunse il 14 giugno 1933, dopo un viaggio prima in treno e poi in camion da Palanpur (Kangra).
Qui lo studioso incontra tre servi kashmiri (il capocarovaniere Kalìl, il cuoco Abdùl e l’uomo di fatica Sheikh) che faranno parte della spedizione, tutti e tre veterani di questo genere di impresa, e organizza materialmente la carovana, inventariando il materiale occorrente per il viaggio e la documentazione. Sultanpur è una città mercantile di confine, crogiuolo di genti diverse (indù, balti, tibetani) e luogo di partenza delle varie carovane. Per accedere alla valle del Chandra e allo Spiti era possibile il transito da due passi: il Rohtang-La (3900 metri), rimaneva chiuso fino a dopo la metà di giugno, ed era accessibile solo a carovane di pony e yak, e l’Hamtah-la (4200 metri), transitabile solo per carovane di portatori; i portatori di Jagatsukhsi rifiutarono di andare per il passo di Hamtah e dopo lunghe e laboriose trattative si stabilì di partire con una carovana di pony e di raggiungere lo Spiti attraverso il Rohtang e la valle del Chandra. La carovana, composta da ventiquattro cavalli e diciassette carovanieri, partì dunque all’alba del 21 giugno per la prima tappa fino al ponte di Kelat, dove giunse nella sera dello stesso giorno, mentre Tucci e Ghersi viaggiavano in camion, lungo una strada impervia e pericolosa, transitando per ponti pericolanti a grande velocità, Tucci in prima classe e Ghersi in seconda, seduto sui sacchi della posta, ricongiungendosi infine con il resto della carovana. Il 23 giugno, dopo l’arrivo a Manali, ultimo ufficio postale e telegrafico del paese, vengono arruolati portatori locali, dato che quelli originali non davano troppo affidamento e il passo poteva essere in condizioni difficili per la neve. Il giorno successivo la carovana parte da Manali per il passo di Rohtang, percorrendo un’antica strada gradinata che una leggenda tibetana vuole costruita dal mitico Gesar. [6] Nelle vicinanze del passo Tucci scopre la presenza di una tana di un serpente sacro onorato dai viandanti, che versavano del latte come offerta in un incavo scavato nella roccia: il culto dei serpenti era preponderante nella religione bon, che nel Tibet ha preceduto il buddhismo e che sopravviveva nei riti, nelle leggende e nelle cerimonie che accompagnavano la vita dei Tibetani. Il 25 giugno la carovana valica il passo, dove la neve era ancora molto alta e il freddo intenso, ma da cui risultava fantastica la visuale sulle guglie e i picchi ghiacciati della catena himalayana. Sul passo si trovava un lhato: un cumulo di pietre con alcuni rami secchi piantati sopra di esso, al quale venivano annodate dai viandanti buddisti delle striscie di stoffa multicolore, come offerta per le divinità che abitano il passo.
Dal 26 al 31 giugno la carovana percorre la strada per lo Spiti: il sentiero è pericoloso, perchè ancora molto innevato, soggetto alla caduta di frane, massi e valanghe e prevede il pericoloso attraversamento di fiumi e del ghiacciaio dello Shigri. Il 31 giugno, dopo varie disavventure e pericoli, la carovana valica il passo di Kanzam ( 4500 metri) dove, oltre al lhato, si trovava un pianoro cosparso di cippi di pietra di varie dimensioni, piantati verticalmente, di cui molto sgretolati dal ghiaccio: il fatto che di frequente questi siano presenti sui passi del Tibet indica che probabilmente non sono pietre funerarie, ma piuttosto monumenti rituali, del genere dei lhato. Lungo la strada, che dal passo scende lungo la valle del fiume Lichu, vengono anche trovate iscrizioni preistoriche su grossi macigni, raffiguranti capre e uomini, dello stesso tipo di quelle ritrovate in Ladakh. A tarda sera il gruppo raggiunge il villaggio di Losar, lungo il corso del fiume Spiti, dove Tucci ha modo di conoscere le personalità del luogo: i lama e il medico. A Losar lo studioso ha modo di visitare alcune cappelle private ricche di testi sacri, biografie di santi tibetani, manuali liturgici e trattati di mistica buddhista[7], nonché diversi esempi delle onnipresenti thanka[8]. Il tempio del villaggio, appartenente alla setta gialla[9], appare piuttosto nuovo e modesto; i membri della spedizione hanno inoltre modo di assistere a danze popolari e canti.
Il 4 luglio la spedizione giunge a Kibar (4200 metri), dopo aver transitato per Hansi, Kioto e Tumlè. I templi di Kibar sono tutti di scarso interesse: l’unico tempio antico della zona (Lha k’an sgan) è distrutto; più interessante è invece una cappella privata chiamata Cianciublìn, che conserva pitture murali probabilmente del diciassettesimo secolo. Il medico del paese fornisce una raccolta delle erbe mediche da lui normalmente utilizzate. [10] Il 7 luglio viene aggregato alla carovana un lama, appartente al monastero di Kaze e precettore del nono dello Spiti[11] : questo permetterà a Tucci di avere più facile accesso ai monasteri incontrati lungo il percorso. Nel villaggio è giorno di festa: si tiene un banchetto e viene celebrata una cerimonia di esorcismo, documentata fotograficamente dal Ghersi. Il giorno successivo la carovana riparte e arriva il 9 luglio al monastero di Ki, il cui capo ha dieci anni ed è un tulku, ovvero un incarnato.[12] Il monastero sorge su una collina e assomiglia ad una cittadella: qui Tucci avrà modo di assistere ad una danza religiosa dei sacerdoti del monastero e potrà acquistare oggetti sacri. Il 10 luglio si giunge a Kaze, nel territorio della setta dei Sakyapa.[13], dove si trova il monastero del lama aggregato alla spedizione, che si staglia su rocce impervie ed è circondato da alte mura costruite sull’orlo di precipizi. Le pitture sono di scarso valore e la biblioteca non è fornita, ma Tucci riesce ugualmente a trovare qualche pezzo interessante. Il 12 luglio la spedizione transita per Lithang, nella zona di influenza religiosa dei Nyingmapa[14]. Partendo da Lithang la carovana si divide in due gruppi: Tucci e Ghersi con le tende, il materiale fotografico, la cucina e due uomini proseguono per Lhalung nella valle del Lingti, mentre il grosso della carovana parte per la capitale Drangkhar. A Lahlung Tucci visita un antichissimo tempio con statue di divinità e una vecchia immagine in legno di un Buddha meditante, di fattura indiana, che verrà ceduta a Tucci dopo un complicato rituale. Il 15 luglio la carovana si riunisce a Drangkhar, capitale dello Spiti, che sorgeva su una roccia a picco che strapiomba sul fiume e consta di una trentina di case addossate alle mura pericolanti e ai ruderi dell’antica città: anche il vecchio castello reale versava in rovina, i templi erano stati saccheggiati, per cui Drangkhar era ormai capitale soltanto di nome. I tempietti (lha k’an) della città sono piccoli e in stato di abbandono, le pitture murali cancellate, tuttavia qua e là furono trovati affreschi interessanti raffiguranti vite di Buddha, scene relative alla fondazione dei templi e cerimoniali, nonché idoli in bronzo e legno. Il capocarovaniere Kalìl tratta con i lama per l’acquisto di oggetti interessanti. La spedizione prosegue poi per Tabo, dove trascorrerà il 19 e 20 luglio, dopo il tragitto attraverso Po (3500 metri) e un lungo, ripido e pericoloso sentiero fino a Tabo.
Tabo era un villaggio povero, che doveva la sua fama al monastero fondato da Rin Chen Bzang Po[15], costituito da otto templi, di cui il più grande è anche il più antico. Esso fu fondato da Rin Chen Bzang Po, ma gran parte della costruzione, al tempo della spedizione di Tucci, risaliva al XIV secolo: conteneva statue ed affreschi molto interessanti, sia per la storia dell’arte nel Tibet occidentale, sia per lo studio dell’iconografia buddhista. I fregi e le statue dei templi, tra altri elementi, raffiguravano leggende della tradizione tibetana, momenti della vita di Buddha, cicli mistici buddisti connessi con le scuole tantriche e vari mandala[16]. Della biblioteca non restavano che scarsi frammenti; in ogni caso gran parte dell’importante complesso monastico versava in stato di grave degrado e abbandono. Per i Tibetani, tuttavia, il carattere di cui un edificio è investito dalla cerimonia di consacrazione iniziale non va perduto, al di là del suo stato di conservazione: una rovina non è meno degna di venerazione che un tempio in buono stato, perché per il popolo tibetano solo il carattere sacro del luogo ha valore, al di là di considerazioni artistiche e archeologiche. A est del monastero sorgevano, lungo una rupe scoscesa, una serie di cellette monastiche abbandonate, dove i lama si ritiravano per lunghi periodi al fine di meditare, anche per dodici anni consecutivi, senza nessun contatto con il mondo esterno. Inoltre, nella valle attorno al monastero, si erigevano numerosi ciortèn[17], spesso in file di 108, numero sacro per il buddhismo: Tucci e Ghersi di dedicarono all’esplorazione di ciascuno di essi, poiché spesso contenevano oggetti sacri (tra cui ts’a ts’a) e scritture.
La spedizione riparte e attraversa il 21 luglio Lori, ultimo villaggio dello Stato dello Spiti; il 22 giunge nella valle del Pare-Chu e il 23 arriva a Chang, alle frontiere dello Stato di Bashahr (dove dominava l’ortodossia indù), ai confini con lo Spiti, dove la gente appare diversa rispetto ai montanari dello Spiti: gli uomini portano i capelli lunghi, un berretto di lana bianca con una banda di velluto nero e un vestito di lana grezza tagliato a foggia di lunga tunica; sia le donne che gli uomini amano adornarsi di fiori; i sacerdoti non portano più la tunica rossa dei lama, ma la comune casacca dei laici, pur portando il rosario buddhista al collo. A Chang Tucci ha modo di visitare un antico tempietto le cui pareti, anche se annerite e rovinate, conservavano tracce notevoli di interesse dal punto di vista storico, iconografico e religioso. Il 25 luglio la carovana affronta una marcia di tre ore sino a Nako, villaggio più grande di Chang e come l’altro formato da tre borgate, costruite sui costoni della montagna. I templi di Nako sono stati ampliamente studiati da Tucci nel terzo volume di Indo-Tibetica; diciamo qui soltanto che si trattava di un piccolo tempio contenente, oltre a pitture murali del XV e XVI secolo con figure buddhiste, una roccia sulla quale la leggenda vuole scorgere l’impronta della mano di Padmasambhava.[18] L’altro tempio sorgeva su un pianoro a sud-ovest del paese ed era attribuito dalle tradizioni del luogo a Rin Chen Bzang Po: ai tempi della visita di Tucci restavano alcune statue di stucco raffiguranti la sacra pentade dei Buddha supremi e una bella immagine in stucco di una divinità femminile probabilmente riconducibile alla Prajnaparamita, poi alcuni mandala notevoli connessi con il culto di Vairocana[19]. Queste opere, accuratamente documentate dalle fotografie del Ghersi, vanno attribuite ad una scuola identica a quella che decorò i templi di Tabo. Usciti dal tempio un sacerdote conduce Tucci e Ghersi a vedere un grosso macigno, dove si trovava un’antica impronta che la tradizione attribuisce al dio Purgyul: Ghersi per fotografarla la scavalca, commettendo involontariamente un sacrilegio, e per questa sua azione involontaria avrà qualche problema, ma tutto si risolverà in breve tempo.[20] Il 27 luglio la carovana riparte per Tashigang, attraversando il passo omonimo e arrivando nella valle dello Sutlej, lungo una strada pericolosa poiché soggetta a distacchi improvvisi di frane e macigni; il monastero di Tashigang è invece costruito sopra una roccia tra due vallette, al riparo dalle frane. Mentre Kalil porta la carovana al villaggio per piantare il campo, Tucci e Ghersi si recano al monastero per conoscere un famoso incarnato, forse la personalità religiosa più autorevole in tutto l’alto Kunavar. Egli stesso accompagna gli Italiani nella cappella centrale del tempio, dove si trovavano una serie di statue di scarso interesse, ma dove viene mostrato a Tucci un preziosissimo ruchièn, una veste cerimoniale di ossa umane finemente lavorate e scolpite con divinità dei cicli tantrici più esoterici. La veste è principalmente adoperata per la cerimonia del chod[21]; Tucci si offre di acquistarla ma l’incarnato non vuole saperne.
A Namgia (3000 metri) il 28 luglio la carovana allestisce il venticinquesimo campo, dove si conclude la prima parte della spedizione, che in un mese circa ha attraversato la valle del Chandra, lo Spiti, visitato tutti i monasteri e i templi, fotografandone gli interni, gli affreschi, le statue e le iscrizioni, raccogliendo importantissimo materiale per lo studio del Tibet, sia per la sua storia politica e religiosa che per aspetti ancora in parte sconosciuti del lamaismo. Il materiale raccolto nello Spiti venne riunito in casse ed inviato a Poo in deposito fino al ritorno della spedizione. Alla carovana venne aggregato Devichand, il lamberdar di Poo (il figlio della più alta autorità della contrada, lo zialdar), che insieme al lama di Kaze si mette all’opera per ottenere il permesso di visitare i principali tempietti privati del paese e cercare tra le vecchie raccolte di libri quelli più rari ed interessanti. Egli è buddhista, pur appartenendo ad una frangia della religione buddhista, come in genere avviene in questa zona, decisamente intrisa di hinduismo. Viene inoltre “arruolato” nella carovana l’amico di Devachan Denzin, profondo conoscitore del Tibet poiché aveva prestato per qualche tempo servizio come corriere postale. Viene dunque riorganizzata la spedizione, distribuiti i viveri e controllato il bagaglio, calcolando la durata della missione fino a circa il 20 novembre.
Tucci ha poi la poi la possibilità di visitare la casa e il tempio del signorotto del paese, ricco di belle statue e pitture, ma il prestigio della sua famiglia nel villaggio gli impedisce di vendere tutto ciò che vorrebbe acquistare il professore tuttavia, interessato a guadagnare un po’ di denaro, il lamberdar di Namgia si presenta di notte da Tucci con pacchi di libri da cedere, tra cui una copia del trattato tra il Tibet e i re del Ladakh. L’orientalista incontra anche tre alpinisti inglesi diretti a Nako per tentare la prima salita al Leo-Purgyul. La notte del 2 agosto, arrivato il giorno prima per compiere cerimonie di esorcismo, si presenta l’incarnato di Tashigang, inviando un messo a Tucci con il ruchièn visto a Tashigang: alla fine, dopo contrattazioni varie, il prezioso e macabro oggetto passerà nelle mani dello studioso. Il 3 agosto la carovana si incammina preceduta come al solito da Tucci e Tenzin; a circa due miglia dal paese un piccolo torrente segnava il confine tra l’alto Bashahr e il Tibet, nonché il termine della Hindustan-Tibet trade-route, che si trovava sotto il controllo inglese. Dopo aver transitato per un pericolosissimo sentiero affacciato sul baratro, la carovana giunge al villaggio di Shipki, dove Tucci era già conosciuto perché nella spedizione del 1931 proprio in questo luogo si era ammalato ed era stato curato da un lama; la spedizione è dunque accolta calorosamente, il professore trascorre la notte in un tempio. Il giorno dopo arriva anche il resto della carovana con i cavalli che ha avuto grandi difficoltà nel percorso. Tucci rincontra anche il lama che lo aveva curato nel 1931: è un mongolo che vive in meditazione in un eremo sopra il villaggio. Dopo essere transitato per Kiuk, il 6 agosto Tucci giunge a Serkung, mentre il grosso della carovana parte per Tiak. A Serkung Tucci credeva si trovasse un tempio di Rin c’en bzan po, ricco di affreschi e statue, mentre non vi trova che una piccola cappella privata, contenente però oggetti religiosi antichi, nonché un piccolo tempio piuttosto moderno.
Il 7 agosto la parte di carovana condotta da Tucci riprende la strada lungo il Sutlej, dove un lungo muretto in pietra conduce ad un ciortèn di grandi dimensioni, sul quale campeggia l’iscrizione: “Omaggio al grande traduttore”, ovvero il famoso Rin c’en bzan po, che nacque non lontano da questa zona. Il sentiero si fa più difficile poiché si restringe e si inerpica su per macigni a picco sul fiume; i cavalli vengono scaricati e i bagagli portati in spalla. Dopo grandi rischi e fatiche verso sera si arriva a Tiak dove i due gruppi si ricongiungono. Di fronte a Tiak, nascosto in una valletta, sorge Radnis, patria di Rin c’en bzan po: il fiume in piena non permette però l’attraversamento. Comunque a Tiak vi era un tempio dedicato al grande traduttore che, pur versando in cattive condizioni, conservava tracce di indubbia antichità, come una serie di divinità in stucco inquadrata in una cornice di motivi ornamentali di tradizione indiana. La cella centrale era chiusa, ma Tucci riuscì comunque ad identificare una figura di Avalokiteshvara[22] a quattro braccia e altre immagini sacre, nonché una statua in bronzo di Padmasambhava con gli occhi in argento; la pianta del tempietto era a croce greca, riproducente cioè il diagramma del mandala; intorno al piccolo tempio si trovavano numerosi ciortèn con iscrizioni antiche. A Tiak inoltre la spedizione vede gli ultimi alberi: fino al ritorno non ne avrebbe incontrati altri.
Partendo da Tiak l’ 8 agosto la spedizione abbandona la valle dello Sutlej e punta a nord-est verso Miang, dove si accampa un’ultima volta prima di superare il passo dello Shirang. Lungo il percorso si trovavano sorgenti sacre poiché ritenute sedi di divinità. A Miang, circa tre mesi prima del passaggio della spedizione, era successa una grave disgrazia: una valanga sul passo Shirang aveva decimato gli uomini del villaggio, mentre cercavano di trarre in salvo una carovana di Tibetani bloccati nella tempesta: il paese era quindi ormai popolato solo da donne, vecchi e bambini e l’unico lama del villaggio viveva murato nella sua cella. La setta che domina il paese è quella aBrug pa: non ci sono templi, ma solo qualche cappella privata, e le rovine imponenti di un castello sulla montagna, chiamato Dorgèlin nella tradizione. Le pareti del castello erano costituite da pesanti blocchi di fango e sterpaglia, con un basamento in pietra. L’antichità e l’importanza del paese viene documentata da Tucci grazie al ritrovamento di alcuni oggetti preistorici tipo campanelle di bronzo, fibbie decorate, ecc. spesso indossati dai locali come talismani, (per farsi capire dagli abitanti del villaggio, e farsi portare gli oggetti, per poi eventualmente comprarglieli, Tucci era costretto a chiedere di “oggetti caduti dal cielo”, altrimenti essi non avrebbero capito). All’epoca della spedizione del 1933 l’archeologia preistorica in Tibet non era ancora incominciata. Tucci e Ghersi assistono in questo luogo al macabro ritrovamento di un corpo femminile sventrato e decapitato, e al funerale della donna celebrato otto giorni dopo la sua morte: nel Tibet questa era una normale forma di “seppellimento”, nel corso della quale il lama tagliava a pezzi il cadavere per facilitare l’opera degli animali e degli uccelli. Questa usanza era praticata in gran parte del Tibet specialmente dai nomadi, e all’epoca della spedizione era stata sostituita dal rito dell’incinerazione solo in qualche regione.[23] La spedizione riparte da Miang per una strada ripida e difficile valicando il passo dello Shirang (4920 metri) e l’11 agosto giunge al villaggio di Nu sotto una furiosa grandinata. Tucci e Ghersi, insieme ad alcuni carovanieri, intraprendono ricerche archeologiche nelle rovine dei forti circostanti, che non danno grandi risultati, a parte qualche ritrovamento di ossa umane, vasellame in terracotta rozzamente decorato e alcune frecce di ferro. Sorgevano poi due tempietti, appartenenti alla setta dGe lugs pa, in cui l’orientalista trova affreschi del XVII secolo raffiguranti divinità e momenti della vita del Buddha. I due forti di Nu erano stati costruiti con tecnica diversa rispetto a quelli di Miang: non erano stati adoperati mattoni di fango, ma pietre e ciottoli di varia grandezza sovrapposti: erano probabilmente resti di un’ occupazione militare.
Il 13 agosto Tucci arriva a Gumphug, dove il resto della carovana si era già accampato nei pressi del tempio. A Gumphug (località non segnata sulle carte, nemmeno un vero e proprio villaggio) c’erano un paio di case, un tempietto e alcuni ciortèn molto antichi, dove lo studioso rinviene alcuni ts’a ts’a. Tutta la zona apparteneva ad una famiglia di lama della setta aBrug pa. Tucci andrà a far visita ad un vecchio lama della famiglia che mostrerà la cappella principale della famiglia, ricchissima di libri, statue di divinità e thanka.[24]. Inoltre visiterà un tempietto dove la famiglia di sacerdoti si ritirava per meditare: si trovava lungo uno strettissimo passaggio scavato nella roccia a strapiombo sul fiume, ed era per metà scavato nella pietra e per metà costruito con grossi mattoni di fango. All’interno c’erano statue di stucco colorate e numerosi thanka di pregio, ma ormai rovinati. In un angolo a fianco dell’altare vi era inoltre uno scaffale di libri polverosi e abbandonati: Tucci riuscirà ad acquistare alcune delle opere più rare, tra le quali alcuni testi liturgici della setta bonpo.[25] Il 15 agosto la carovana raggiunge il pianoro di Dungbara (4600 metri), dove si svolgeva probabilmente il mercato all’aperto più alto del mondo e dove genti di tutti i tipi (mercanti, sacerdoti, razziatori di cavalli, nomadi selvaggi ecc.) si incontravano per contrattare su merci di vario genere, come lana, riso, uva secca, stoffe e oggetti vari. Il 16 agosto viene piantato il trentacinquesimo campo della spedizione nel villaggio di Luk, dopo aver valicato il Karum-la. Luk era ridotto ad un paesino di poche case, ma la sua importanza di un tempo era testimoniata dalle grandi rovine di case e monasteri; inoltre numerosissimi ciortèn molto antichi, alcuni di grandi dimensioni e intonacati di rosso. L’esplorazione delle rovine del castello non porta a nulla di notevole, invece la visita del monastero porta Tucci alla scoperta di bellissimi affreschi e di immensi thanka; il tempio apparteneva alla setta dei dGe lugs pa.
L’Hindustan-Tibet trad- route proseguiva da Luk per l’Op e quindi tagliava dritto fino a Shangtse; tuttavia la carovana non poteva seguire quella via perché l’Op in quel periodo era impetuoso e non aveva ponti: bisognava dunque seguire la strada battuta dai postini di Poo che andavano fino a Gartok che, pur essendo più lunga, aveva il vantaggio di passare per alcuni monasteri interessanti come quello di Rabgyeling e di Sumur. Il 19 agosto la spedizione valica il difficilissimo passo di Sumur (4900 metri) e il 20 sosta tutto il giorno nel paese di Sumur, dove c’erano solo due piccoli gompà[26] in rovina, in uno dei quali vi erano manoscritti antichi di mistica e liturgia. Sumur non aveva più di sei o sette case, anche vista l’altitudine: la gente viveva solo di pastorizia. Il 21 agosto la carovana entra nella valle di Jangtang, in un paesaggio meno desolato rispetto a quelli attraversati negli ultimi giorni. Vi erano case trogloditiche abitate da pastori, rovine e lunghe file di ciortèn, contenenti ts’a ts’a antichissimi. In un tempio in rovina erano ancora visibili tracce dei rosoni circolari in mezzo a cui dovevano trovarsi statue di stucco, come a Tabo, e sulle pareti i frammenti delle grosse travi che le sorreggevano. Il giorno successivo la carovana giunge al monastero di Rabgyeling, dove si accampa: esso era solo un monastero, anche se sembrava una fortezza, e non vi erano case attorno. Tucci viene invitato a prendere il tè con il capo del monastero e gli è concesso di visitare approfonditamente il luogo. Restavano tre templi: uno in basso, piuttosto moderno, ma contenente una raccolta di belle statue antiche e alcuni libri interessanti. Il gTsug lag k’an era invece il tempio più grande e antico, in discreto stato di conservazione: le pareti erano affrescate con pitture del diciassettesimo secolo, con rappresentazioni di divinità; inoltre vi erano moltissime statue e thanka. Il terzo tempietto, molto antico, era letteralmente stipato di statue di ogni dimensione, molte delle quali di pregio e portate dalla Mongolia e dalla Cina, nonché di libri, oggetti sacri e pitture; il tempio era probabilmente dedicato a divinità tantriche e riservato ai riti di iniziazione.
Il 24 agosto con una marcia rapida viene raggiunto Raksa (4500 metri), dove sorgevano rovine di un castello, ciortèn e abitazioni trogloditiche. In generale in questa zona la carovana attraversa sempre luoghi semi-abbandonati e rovine, indice dello spopolamento del paese. La spedizione prosegue fino al villaggio di Kyinipuk, dove Tucci scopre diverse abitazioni trogloditiche scavate nel tufo, tra cui una caverna dove l’orientalista trova migliaia di ts’a ts’a, alcuni dei quali del decimo secolo. In un’altra caverna era depositata un’intera biblioteca, con migliaia di fogli manoscritti, di argomento religioso. La marcia prosegue attraverso vallate un tempo popolate ora quasi disabitate, costellate di rovine, grotte e ciortèn, fino ad arrivare e accamparsi il 26 agosto a Shangtze, capitale estiva della prefettura di Tsaparang, alle pendici della catena del Ladakh. Un castello di proporzioni immense sorgeva sopra il colle sull’altra riva del fiume, riconosciuto dalla tradizione come castello reale di Guge. Tucci viene ricevuto in visita dallo zonpòn (prefetto) e sua moglie. Lo studioso ottiene poi il permesso di visitare il tempio, che versava in stato di abbandono; le pareti erano coperte di affreschi del sedicesimo secolo, tra cui gigantesche figure degli otto dei della medicina, appartenenti al periodo di massima fioritura dell’arte di Guge, che rappresenta a sua volta il punto di arrivo di una lunga tradizione artistica le cui origini risalgono a maestranze dell’India, chiamate dai primi re del Tibet occidentale. Sugli altari erano poste statue di tutte le forme e dimensioni e nella cella centrale era dipinta un’enorme figura di Vairocana, simbolo della coscienza cosmica e del vuoto oltre il fluire del mondo fenomenico. Si riparte il 29 agosto per Shang, villaggio di poche case, con resti di due castelli e due templi sconsacrati, con poche pitture di pregio ma devastate dal tempo, manoscritti gettati alla rinfusa, frammenti di libri lasciati nell’incuria e thanka.
Il 31 agosto comincia l’ascesa al Laoche-La attraverso estese praterie popolate da grandi branchi di asini selvatici. In un valico a 4900 metri viene mostrata a Tucci una pietra venerata dai Tibetani, in cui compare un sigillo da loro attribuito a Padmasambhava. Il 1° settembre viene raggiunto il Laoche-la dove la carovana valica il passo a 5500 metri e la spedizione si accampa a 5200 metri sotto una fitta nevicata. Nei giorni successivi continua la marcia ad alta quota sul versante orientale della catena del Ladakh, verso la capitale del Tibet occidentale, giungendo nel pianoro di Gartok, un’immensa pianura tra i 4700 e i 4500 metri, al limite orientale raggiunto da questa spedizione del 1933. Qui scorre il fiume Gartang, affluente dell’Indo, che separa la catena del Ladakh da quella del Kailash. Gartok, pur essendo la capitale, non consta che di due case, qualche capanna per i servitori e alcune tende di lana appartenenti a mercanti. Gartok è la capitale estiva, mentre quella invernale è Gargunsa. Questi due nomi derivano dal termine garpòn, ovvero ufficiali di alto rango inviati da Lhasa, che restavano in carica per tre anni. Anticamente, come riferisce anche Ippolito Desideri, Gartok era sede di una guarnigione militare, fatto dovuto alla vicinanza del regno del Ladakh e alle scorribande di predoni tartari. Al tempo della spedizione di Tucci la guarnigione non esisteva più.
L’orientalista viene invitato a prendere il tè dal garpòn e gli viene fatto dono di un importante libro-guida del pellegrinaggio del Kailasa e del Manosarovar[27] , ricco di interessanti informazioni storiche e geografiche. Una grande fiera si svolgeva a Gartok il 25 settembre, e già erano arrivate alcune carovane di mercanti, che vendevano merci di ogni tipo. Tucci riesce a stringere amicizia con un lama proveniente da Kham e diretto a Gargunsa per ritirarsi in meditazione, il monaco,comprendendo l’immensa conoscenza del professore della religione e mistica tibetana, gli proporrà addirittura di diventare suo discepolo sotto la sua guida spirituale per dodici anni, a meditare in qualche grotta del Tibet. L’asceta riprenderà poi da solo la sua strada, mentre Tucci riorganizzerà la carovana per prendere la via del ritorno. Dal 9 al 13 di settembre sono giorni di sosta forzata a Gartok: bisognava organizzare nuovamente la carovana, informarsi sulle strade da percorrere e attendere il ritorno di due uomini mandati da Tucci da Namgia a Rampur per ritirare del denaro, che stava per finire. La spedizione riparte il 14 settembre riattraversando la pianura e, guadando le numerose ramificazioni del Gartang, prosegue la marcia lungo una valle selvaggia e triste popolata da lupi. A più di 5000 metri di quota, valica il Bogo-la (5900 metri) con un percorso difficile sulla neve, ma in uno scenario di grande bellezza, e discende a 4800 metri dove, sotto una nevicata, si accampa il 16 settembre. Il 18 settembre la carovana giunge a Toling, dopo essere transitata il giorno precedente per il piccolo villaggio di Dongbo. Lungo la strada per Toling Tucci ha modo di visitare un luogo chiamato Drinsa, completamente disabitato e antichissimo: sono rovine di un tempio dalla pianta simile a quelli di Guge e ciortèn che contenevano gli ts’a ts’a più antichi ritrovati dalla spedizione.
A Toling il lama di Kaze e il lamberdar di Poo vengono mandati al monastero con una lettera di presentazione del prefetto di Tsaparang e una cospicua offerta monetaria. Dopo un lungo colloquio con le autorità religiose del monastero viene concesso a Tucci di visitarlo e di poter scattare delle fotografie, cosa piuttosto insolita poiché il governo di Lhasa ne aveva proibito la visita a tutti gli stranieri. Toling è praticamente solo il monastero, tutto il resto era in rovina: non vi era altro poi che qualche casupola di mota e alcune grotte scavate nelle pareti di rupi argillose, in cui vivevano i servitori laici del monastero e dei suoi dignitari; un tempo però dovevano sorgere in quella sede molte altre costruzioni, come abitazioni private e castelli reali. Secondo l’Andrade, che visitò Toling nel 1624, qui risiedeva la madre del re di Guge. Il monastero era circondato da mura, all’interno numerosi ciortèn, cappelle, templi colorati rosso scarlatto, e un santuario centrale sormontato da una cupola dorata. Fuori dalla cinta muraria, ai quattro angoli, sorgevano quattro grandi labàb ciortèn, cioè ciortèn che sui lati hanno delle scale che stanno a ricordare, secondo la tradizione indo-tibetana, l’ascesa del Buddha al paradiso tushita, quando andò a predicare la sua dottrina alla madre ascesa al paradiso dopo la morte. Secondo quanto riferito a Tucci dai monaci, nel ciortèn sull’angolo di nord-ovest sarebbero conservate le reliquie di Rin c’en bzan po. Intorno al tempio vi erano poi innumerevoli ciortèn di tutte le dimensioni, isolati oppure a file di 108.
Il 20 settembre Tucci viene ricevuto dal khampo del monastero, il quale, rendendosi conto della profonda erudizione dell’orientalista e del suo interesse verso la religione del Tibet, stringerà amicizia con lui. Tucci, in compagnia del lama di Kaze, sale poi ad esplorare le rovine sulle montagne circostanti: antiche cappelle collegate da corridoi mezzo franati con all’interno i resti di magnifici affreschi e statue di stucco colorato di finissima fattura. Prevalgono le rappresentazioni di divinità nel loro aspetto terrifico e quelle di deità infernali. In mezzo a ruderi di un altro tempio lo studioso molti manoscritti, frammenti di statue di carta pesta e di stucco e parecchi ts’a ts’a. In una grotta sottostante, di difficile accesso, viene scoperta una biblioteca intera con anche finissime opere miniate (alcune delle quali realizzate probabilmente da maestranze indiane) e frammenti di statue in legno e stucco e pezzi di cornici di rame dorato.
Il giorno successivo Tucci visita e documenta in maniera esaustiva l’importante monastero di Toling guidato da un lama colto e preparato. Ai tempi dell’Andrade vivevano in questo monastero cinquecento monaci, nel 1933 non erano che una trentina. La pianta del tempio è a croce, come fosse un mandala. All’interno del tempio era riprodotto il ciclo tantrico del Vajradhatumandala, con la statua di Vairocana al centro, Akshobya a est, Ratnasambhava a sud e di seguito Amithaba e Amoghasidhi. Molteplici affreschi di grande qualità erano presenti nelle cappelle che formavano i vari bracci della croce e illustravano tutto il pantheon mahayanico. Il nome sotto cui è conoscito il tempio è Ye shes ‘od (che era un celebre re di Guge che invitò in Tibet Atisha, e fu il patrono di Rin c’en bzan po); secondo la tradizione Rin c’en bzan po era solito abitare nella cappella di Ratnasambhava. Questo tempio era sempre stato celebre nella cultura tibetana, poiché in esso molte opere buddhiste vennero tradotte in tibetano dagli originali dell’India, e dunque fu questo un importante polo di irraggiamento della dottrina buddhista nel Paese delle Nevi. Dopo aver visitato e fotografato il tempio di Ye shes ‘od Tucci passa all’esplorazione delle venti cappelle che lo circondano: anch’esse molto antiche, anche se in alcuni casi portavano segni di restauri e ritocchi. Erano coperte di affreschi e stucchi e letteralmente stipate da ogni genere di statua: i cicli che predominavano erano quelli di Vairocana, Aksobhya, Vajrapani, Samara e gli dei della medicina.
Il tempio Tonghiùd lacàn era sconsacrato: sullo sfondo vi era una grande figura di Shakyamuni, sulle due pareti Avalokitesvara e Tara; inoltre diversi affreschi raffiguranti i Buddha dell’evo attuale. Sempre abbandonato risultava un altro grande tempio, chiamato Lacàn carpo (il tempio bianco), con il soffitto lavorato e colonne di legno: la fattura piuttosto barbarica dell’ingresso tradiva un’origine indiana, con rappresentazioni del vimana[28], due gazzelle e in mezzo una ruota[29]. Le pareti erano interamente ricoperte da splendidi affreschi, del XV e XVI secolo, raffiguranti varie divinità e scene con cimiteri, belve divoratrici di cadaveri e asceti in meditazione.[30] Sul lato opposto si trovava il duncàn, la s”ala delle adunanze”, con al centro una gigantesca figura di Buddha in bronzo dorato con Amitayuh e Maitreya ai due lati; le pitture erano qui molto rovinate. Il tempio era adoperato come luogo di ritrovo dei monaci per le cerimonie rituali giornaliere: infatti si trovavano qui vari utensili cerimoniali in argento.
Vi era poi il tempio dei sedici arhat[31], che prendeva il nome dalle sedici statue di stucco dei protettori della legge conenute nel sacrario. Le statue erano di qualità inferiore rispetto a quelle del tempio di Ye shes ‘od. Sulle pareti vi erano raffigurazioni di Buddha. Molto importanti erano poi alcuni pannelli, anche se rovinati dalle infiltrazioni d’acqua, poiché raffiguravano scene della storia del Tibet e le varie fasi della diffusione del buddismo in queste terre. Tucci venne quindi ammesso nel tempio più sacro di tutto il complesso di Toling, il sercàn, ma stato visitato prima da uno straniero. Esso era il sancta sanctorum di tutto il monastero: vi si accedeva attraverso un vestibolo e una porta istoriata da immagini sacre, di provenienza indiana. Il sercàn era fatto da tre piani che vanno rastremandosi, come si trattasse di un tronco di piramide: nello stile riecheggiava modelli indiani come il tempio a tre terrazze di Odantapuri, al quale diversi architetti tibetani si ispirarono. Si accedeva dal primo al secondo piano e da qui al terzo attraverso scalette esterne che immettevano in ambienti angusti dai pilastri e cornici di legno scolpito; le pareti di ogni cella erano coperti da bellissimi affreschi di finissima esecuzione. Erano qui riprodotti vari mandala, che riproducevano diagrammi della mistica buddista e delle scuole tantriche più esoteriche, con tra gli altri i cicli di Vairocana, Guhyasamaja, Samara e Kalachakra.. Tutta questa immensa mole di materiale artistico venne ampiamente fotografata da Tucci e Ghersi: Toling era infatti uno dei più antichi e celebri monasteri dell’intero Tibet. La spedizione riparte il 22 settembre percorrendo la strada tra Toling e Tsaparang, che era al tempo dei re di Guge, secondo la tradizione locale, una città di 3000 famiglie, anche se tale cifra sembra piuttosto esagerata. Nel 1933 la città era disabitata e in rovina, pur se molto vasta. Un tempo Tsaparang era la capitale ed un emporio commerciale di grande importanza, con costanti rapporti di traffico con Garwhal. Tutte le province confinanti si rifornivano di merci a Tsaparang: doveva essere una città ricca e attiva nei commerci.
Tutta la giornata del 23 settembre è dedicata da Tucci all’esplorazione delle rovine e dei templi che restavano in un’atmosfera di triste desolazione e abbandono. Le antiche cappelle reali, pur istoriate di superbe pitture murali, erano sconsacrate e a volte pericolanti. La visita di Tucci comincia dal tempio che sorgeva in pianura, chiamato lotàn gompà: esso presentava la pianta caratteristica delle cappelle costruite durante la prima dinastia di Guge, con atrio e nicchia. Era ancora frequentato da monaci di Toling, ma era gravemente degradato, con molte pitture rovinate dall’acqua. Nella nicchia vi era una grande statua di Vairocana, sulle pareti a destra e sinistra due mandala inoltre vi erano raffigurazioni della vita di Buddha. Sopra la porta era effigiata la dea Kargyal[32] a cavallo di una capra. Dall’altra parte di un torrente vi era un altro gompà chiamato Lacàn car po (il tempio bianco), anch’esso minacciato dalle infiltrazioni d’acqua e con gli affreschi rovinati. Vi era un immenso Buddha di bronzo dorato e molte statuette di maestri buddhisti e Buddha poggiate su piccole mensole o cadute a terra. Le pareti erano affrescate con pitture così raffinate che parevano miniature, un po’ come nel sercàn di Toling. Il ciclo riprodotto in questo tempio è quello del vajiradhatumandala, con i cinque simboli dell’emanazione cosmica e le divinità del pantheon mahayanico. I margini a destra della nicchia centrale erano invece istoriati con la genealogia dei re di Guge, anche se le didascalie erano così in alto che Tucci non riuscì a leggerle o fotografarle. In un fregio erano anche raffigurate scene della fondazione del tempio, con feste e cerimonie. Più in alto di questo tempio ce n’era un altro chiamato il Lacàn marpò (ovvero il tempio rosso). Nella nicchia centrale vi erano due gigantesche statue di Buddha una dietro all’altra, con intorno gli otto dei della medicina inquadrati in cornici decorate; come nell’altro sacrario vi erano anche qui rappresentazioni dipinte della fondazione del tempio, con anche scene di carovane che portavano le travi a Tsaparang per costruire gli edifici sacri. Il soffitto era dipinto a lunghe fasce parallele con motivi floreali e geometrici e una serie di mandala. Accanto a questo tempio ve n’era un altro di dimensione più ridotte, dove Tucci ebbe qualche difficoltà a farsi accompagnare. In esso vi era una gigantesca statua di Maitreya[33] di bronzo dorato, con di fronte Gigcèd (Bhairava), rappresentato con cinque teste di cui quella centrale di bufalo: nonostante l’aspetto spaventoso è un dio benefico e misericordioso. Sulle pareti vi erano affreschi antichi di divinità tantriche, poi molte statue in bronzo dorato di finissima esecuzione.
Sopra ancora sorgeva il tempio del trutòb (ovvero dell’uomo perfetto): non aveva porta, era sconsacrato e pericolante. Sulla parete centrale stava una raffigurazione di Gigcèd con intorno affreschi tantrici con divinità dall’aspetto terrificante. Molte di queste fantastiche pitture erano accompagnate da preziose didascalie. In cima alla montagna restavano le macerie del castello reale smantellato e i resti del tempietto di Demcog (Samvara), in cui era venerato lo yi-dam o spirito tutelare del paese. Vi erano pitture sulle pareti di superba qualità che illustravano il ciclo di Samara e del Guhyasamaja. In questo tempio, ai tempi degli antichi re di Guge si svolgevano i battesimi iniziatici. Il 25 settembre la spedizione riparte e arriva a Toshang, dove sorgevano due case, due templi, un castello e una fila di ciortèn, il tutto in stato di abbandono. La carovana prosegue nei giorni successivi per Puling, il fiume Op e Rildigang, un piccolo villaggio in mezzo ai campi dove sorgeva un tempietto con una cappella molto antica contenente affreschi e una notevole statua in avorio di Avalokiteshvara. Il 29 settembre si continua per Ri valicando un passo a quasi 5000 metri di quota da dovve si possono vedere svettare le cime ghiacciate del Purgyul. Ri era un grosso villaggio molto antico adagiato sui campi. Vi era un monastero, che comprendeva diversi templi e cappelle in cui vivevano alcuni monaci alla dipendenza di Toling. Tucci, lasciando offerte e mance, può visitare i templi e le cappelle private. Il tempio più grande, in completo disfacimento, era attribuito a Rin c’en bzan po, e restavano alcune statue in stucco con divinità assise su fiori di loto poggiato su un trono, tra cui quella di Vairocana. La carovana prosegue verso Sud, verso il monastero di Chusu, costruito su un gigantesco sperone che scende sul fiume Sarang: anche questo semi-distrutto e abbandonato, con due tempietti: in quello basso moltissimi libri e manoscritti gettati alla rinfusa, statuine e thanka sparse per terra; l’altro tempietto sembrava piuttosto una cappella di qualche lama, ed era situato in alto su di una terrazza: conteneva alcune statue e thanka.
Il 1º ottobre Tucci è ricevuto dal rupòn[34] di Sarang che, dietro una mancia, mostra all’orientalista alcuni preziosi documenti storici del Tibet, senza però permettergli di fotografarli. Il viaggio prosegue attraverso il ponte Tinzam sullo Sutlej, poi lungo un sentiero estremamente scosceso sotto lo Sharing-la, che viene valicato il 3 ottobre, seguendo successivamente la strada carovaniera percorsa all’andata, transitando dunque per Tiak, Shipki, Namgia per giungere il 7 ottobre a Dabling, dove Tucci va a far visita ad una vecchia conoscenza: l’ultimo discendente di una antica stirpe di lama che possedeva una vasta biblioteca di testi buddhisti, tra cui opere mistiche e iniziatiche sulle pratiche ascetiche dei saggi tibetani. Dal 9 al 12 ottobre viene percorsa la strada da Dabling a Poo e il 13 ottobre la carovana giunge a Kanam, luogo celebre poiché in uno dei suoi gompà visse per qualche tempo il grande pioniere della tibetologia Csoma de Körös. Qui Tucci trova ancora le opere del canone buddhista sulle quali egli lavorò per scrivere la sua analisi. Più in alto si trovava un gampò attribuito dalla tradizione a Rin c’en bzan po, ma che, essendo stato pesantemente ricostruito, non conservava del tempio antico che la pianta. A Kana, durante la sosta della carovana, Tucci assiste inoltre ad una lunga danza rituale e cerimonia cantata per celebrare la nascita di un figlio maschio nel villaggio. Dal 14 al 16 ottobre la spedizione passa per Jangi e Pangi fino a Chini, dove già comincia a sentirsi la vicinanza con l’India e il territorio è montagnoso, ma coperto di foreste: fino a quel punto arrivavano le propaggini del buddismo lamaistico e viveva ancora il ricordo di Rin c’en bzan po; oltre cominciava un buddhismo compenetrato di induismo.
Dal 18 ottobre al 2 novembre la carovana continuava la propria marcia sino a Simla, dove ha termine la fondamentale e affascinante spedizione di Tucci nel Tibet Occidentale del 1933, in una delle zone più misteriose e sconosciute dell’Asia.
Note:
[1] G. Tucci Nuvoloni, «Dal Kashmir al Ladak (Viaggio di due studiosi italiani)», Nuova Antologia, vol. 278, serie VII, agosto 1930, pp. 381-396, 525-537; settembre 1930, pp. 118-131, 249-263; ottobre 1930, pp. 516-529; G. Tucci, «La spedizione scientifica Tucci nell’India, nel Nepal e nel Tibet», L’Illustrazione Italiana, LVIII, 40, 1931, pp. 508-509.
[2] Gli ts’a ts’a sono delle tavolette votive, delle tipologie di figure coniche o delle formelle di argilla impastata con acqua e talvolta con le ceneri di lama o personaggi santificati, talvolta appiattite, solitamente ricoperte da uno strato di calce che ha la funzione di preservarle.
[3] In seguito alla spedizione del 1931 Tucci fu in grado di completare le informazioni precedentemente raccolte e produrre così i primi due volumi di Indo-Tibetica, forse la sua opera più famosa, costituita quattro volumi divisi in sette tomi, tradotta anche in inglese. Il primo volume porta come sottotitolo Contributo allo studio dell’arte religiosa tibetana e del suo significato ed è esplicativo delle motivazioni che avevano spinto lo studioso ad organizzare queste prime spedizioni.
[4] Eugenio Ghersi nacque a Oneglia il 14 luglio 1904. Nel 1931, in qualità di medico della Marina Militare, fu inviato a prestare servizio per un anno sulla cannoniera Carlotto, che pattugliava il corso del Fiume Azzurro da Shanghai alle gole di Yichang, e a questa esperienza risale il suo primo approccio con l’Asia. Ghersi e Tucci si incontrarono nel 1933, per tramite di un cugino del professore che era ufficiale sulla stessa nave di Ghersi. Il medico, durante le spedizioni di Tucci, ebbe anche il ruolo di disegnatore degli schizzi cartografici dell’itinerario. Nel periodo 1933 – 1935 collaborò assiduamente con Tucci anche mettendo ordine nella documentazione raccolta. Dopo essersi sposato nel 1936, Ghersi lavorò come medico a Jeddah per due anni. Tra il 1939 e il 1940 partecipò ad una crociera militare attorno al mondo. Fu nominato Capo della Sezione fotografica del Centro di documentazione storica per le operazioni navali della Marina Militare nel giugno del 1940. Fece carriera e nel 1967 fu promosso Ammiraglio ispettore e diresse l’ospedale militare di La Spezia fino a quando non andò in pensione. Morì a La Spezia il 13 ottobre 1997.
[5] Per approfondimenti maggiori sul ruolo di Ghersi nelle missioni di Tucci cfr. Rossi Luisa e Gemignani Carlo A, 2009, Geografia e fotografia di montagna: Eugenio Ghersi nelle spedzizioni di Giuseppe Tucci, in “La Dimora delle nevi” e le carte ritrovate, Filippo de Filippi e le spedizioni scientifiche italiane in Asia centrale (1909 e 1913-14), Atti del Convegno Firenze 13 – 14 marzo 2008 a cura di Laura Cassi, in Memorie Geografiche, nuova serie n. 8 anno 2009, pubblicate come supplemento alla rivista Geografica Italiana, pp. 205 – 232.
[6] Gesar di Ling: famoso eroe dell’epica tibetana. La storia di re Gesar di Ling costituisce il poema epico più importante del Tibet. Gli studiosi tibetani pensano che il personaggio di Gesar di Ling si riferisca ad un re vissuto intorno al decimo secolo. E’ menzionato nelle cronache familiari della dinastia rLangs che governò gran parte del Tibet nel quattordicesimo e quindicesimo secolo.
[7] Giuseppe Tucci, nel corso delle sue spedizioni, era perennemente alla ricerca di testi e manoscritti, soprattutto mistici e religiosi, dato che era in particolar modo interessato alle religioni del Tibet, di cui era profondo conoscitore. Egli riteneva tra l’altro possibile ritrovare nelle biblioteche dei più sperduti monasteri tibetani opere buddhiste di cui in India si era persa traccia: innumerevoli furono le opere letterarie ed artistiche da lui acquistate da monaci accomodanti e portate in Italia. A volte si rimane un po’ interdetti, leggendo i diari delle spedizioni di Tucci, nell’apprendere la quantità di opere di ogni genere portate via da templi e monasteri, d’altronde molto spesso queste stesse opere giacevano in contesti di degrado e abbandono, sovente a causa dell’ignoranza degli stessi monaci, e sarebbero probabilmente andate perdute per sempre se il professore non avesse compiuto questo spoglio sistematico.
[8] Pitture religiose su tela.
[9] Dge lugs pa: setta gialla. Setta buddhista dei riformati fondata da Tson k’a pa nel XIV secolo. sono il lignaggio più diffuso e più potente del Tibet. A Lhasa nel Potala ha sede il Dalai Lama, ritenuto dai Gelugpa un Tülku, emanazione, del Bodhisattva Chenresig; mentre nel monastero Gelugpa di Tashilunpo a Shigatse, ha sede il Panchen Lama, Tülku del Buddha Amithaba.
[10] La spedizione raccoglieva infatti un erbario medico completo delle regioni attraversate, annotando ogni volta il nome locale della pianta. Venivano inoltre raccolte opere mediche, dato che la letteratura medica tibetana, pur derivata per la maggior parte dall’India e in misura minore dalla Cina, ha conosciuto un’elaborazione locale con connotati originali.
[11] Il nono è una specie di figura reale del paese.
[12] L’incarnato è un bodhisattva, cioè un individuo che ha già raggiunto la massima perfezione, ma sceglie di rinunciare al nirvana per restare nel mondo e per salvare e aiutare gli esseri. Il suo principio cosciente trapassa così di corpo in corpo, egli è un Buddha in potenza.
[13] Essi derivano il proprio nome dal Saskya Pan c’en, che ricevette per primo l’investitura del Tibet dalla dinastia mongola e operò una prima riforma del lamaismo.
[14] Setta religiosa dedita a pratiche ascetiche.
[15] Rinchen Zangpo (rin chen bzang po, 958-1055) fu un prolifico traduttore all’inizio del periodo di diffusione del buddhismo in Tibet. Nato nella regione di Ngari (mnga’ ris), nel Tibet occidentale, fu ordinato monaco all’età di 13 anni. Intraprese diversi viaggi nel Kashmir per studiare la dottrina buddhista e le lingue dell’India, godendo della protezione di Lha Lama Yeshé Ö (lha bla ma ye shes ’od),il re di Ngari. Quando Atisha (Atiśa Dipankara Shrijnana) arrivò in Tibet, Rinchen Zangpo (che aveva 85 anni)lo conobbe e studiò con lui. Durante la sua vita, Rinchen Zangpo fece anche erigere monumenti ed edifici religiosi nel Tibet occidentale, alcuni dei quali esistono ancora.
[16] Mandala, termine di origine sanscrita, significa letteralmente: «essenza» (manda) + «possedere» o «contenere» (la); si può tradurre anche come «cerchio-circonferenza» o «ciclo», (entrambi i significati derivanti dal termine tibetano dkyil khor) è un termine simbolico associato alla cultura veda ed in particolar modo alla raccolta di inni o libri chiamata Rig Veda. La parola è anche utilizzata per indicare un diagramma circolare costituito, di base, dall’associazione di diverse figure geometriche, le più usate delle quali sono il punto, il triangolo, il cerchio ed il quadrato. Il disegno riveste un significato spirituale e rituale sia nel Buddhismo che nell’Hinduismo. Il Mandala rappresenta, secondo i Buddhisti, il processo mediante il quale il cosmo si è formato dal suo centro; attraverso un articolato simbolismo consente una sorta di viaggio iniziatico che permette di crescere interiormente.
[17] I ciorten sono torrette, alte da 2 a 15 metri circa, caratteristici del Tibet; possono essere antichi o nuovi. La parola chorten in tibetano significa “ricettacolo per le offerte”, traduzione dal sancito dhatugarbha (che divenne poi dagaba, da cui deriva il nostro termine pagoda). Essi possono contenere reliquie, ma più che tombe o reliquari, sono cenotafi per ricordare un evento, una persona, insomma una specie di ex voto. Il tibetano che, viaggiando, passa vicino ad una di queste costruzioni (vanno sempre sorpassate tenendosi alla loro sinistra), considera gli ciorten come un simbolo della religione stessa. In essi possono essere presenti ossa di lama venerati, ceneri, immagini sacre o libri. Anche la loro forma ha un preciso significato simbolico, poiché sta a rappresentare diversi momenti dell’ascesi spirituale buddhistica e della dottrina.
[18] Padmasambhava (detto anche Padmakara e Padma Raja, tibetano: Padma rgyal-po ‘Re del loto’) (Cinese: 蓮華生上師; Tibetano: Pema Jungnay – Padma ‘byun-gnas), in Sanscrito significa ‘Nato dal Loto’. In Tibet è noto come il ‘Prezioso Maestro’ Guru Rinpoche ed è venerato dalla scuola Nyingmapa come secondo Buddha. Viene considerato il primo e più importante diffusore del Buddhismo in Tibet, particolarmente del Vajrayana e il fondatore del Buddhismo tibetano. Il suo culto è diffuso anche in Bhutan e in Sikkim. Con Padmasambhava varie divinità del pantheon tibetano furono trasformate in divinità tutelari del buddhismo, i Dharmapala, in particolare le forme irate (Krodha), come la Shri Devi Lhamo. Ma è probabile che egli fosse anche responsabile dell’importazione di figure già presenti nel culto tantrico della sua regione natale, l’Uddiyana, come Kurukulle. A Padmasambhava si fa anche risalire la pratica, specifica del Buddhismo tibetano e non presente nel Buddhismo Vajrayana indiano, di sotterrare in luoghi remoti (grotte, montagne, ghiacciai) dei tesori religiosi, detti terma (gter-ma): testi tantrici che sarebbero poi stati scoperti secoli dopo dai terton, gli ‘scopritori di tesori’. In questo modo gli insegnamenti più segreti si sarebbero rivelati al momento opportuno e alle persone giuste. Direttamente agli insegnamenti di Padmasambhava si rifà la scuola Nyingmapa (rÑin-ma-pa), la più antica delle scuole tibetane (ma diffusa anche nel Sikkim, Bhutan e Yunnan), spesso erroneamente citata dagli occidentali col nome di ‘Berretti Rossi’. Tipicamente Ningmapa è l’importanza dei Mantra, l’esorcismo, la divinazione e le guarigioni magiche.
[19] Vairocana (chiamato anche Vairochana o Mahāvairocana; in tibetano རྣམ་པར་སྣང་མཛད།, rNam-par-snang mdzad, è un Buddha che rappresenta l’incarnazione del Dharmakaya, e dunque può essere visto come la rappresentazione universale del Gautama Buddha storico. Nel buddhismo sino-giapponese, Vairocana può anche rappresentare l’incarnazione del concetto di vacuità (śunyātā). Vairocana è una figura centrale nella filosofia dei Cinque Buddha del Buddhismo Vajrayana. La sua consorte è Tārā Bianca.
[20] Per un resoconto completo delle disavventure di Ghersi a Nako cfr. Tucci G., Dei demoni e oracoli, Neri Pozza, 2006.
[21] Il chod è un rituale che prevede il ritiro dell’iniziato in un luogo dove si espongono i cadaveri e che si suppone infestato dagli spiriti, armato di un pugnale magico, di un flauto ricavato da una tibia umana, del kapala (teschio che finge da coppa) e del damaru (un piccolo tamburo rituale). Egli, in quel luogo spaventoso (soprattutto terrificante per un tibetano) dovrà invocare gli spiriti e i demoni della tradizione offrendosi in olocausto; egli dovrà vincere le paure e realizzare lo shunya, cioè il “vuoto”. Per un approfondimento sul rituale del chod cfr. David-Neel Alexandra, Mistici e maghi del Tibet, Astrolabio, 1965.
[22] Avalokiteshvara è un bodhisattva che rappresenta la compassione di tutti i Buddha. E’ uno dei bodhisattva più venerati nel buddismo mahayana, ed è spesso raffigurato nella forma femminile di Guan Yin. In Tibetano, Avalokiteshvara è conosciuto sotto il nome di Chenrezig, སྤྱན་རས་གཟིགས་ , di cui il Dalai Lama è la reincarnazione. Avalokiteshvara è una divinità importante nel buddhismo tibetano, ed è considerato, per la scuola tantrica Vajirayana, come un Buddha. Nella scuola buddhista Mahayana (Grande Veicolo) è considerato un bodhisattva di alto livello. Il Dalai Lama è considerato dalla scuola GelugPa e da altre come la manifestazione terrestre di Cherenzig.
[23] Da notare la quasi assoluta mancanza di legname in gran parte del Tibet.
[24] Thangka: pitture religiose su stoffa, solitamente raffiguranti divinità, scene della vita di Buddha o mandala, spesso usati come supporto per la meditazione.
[25] Il Bön (tibetano: བོན་) è un’antica religione del Tibet e del Nepal, diffusa anche in alcune aree dell’India, del Bhutan e nelle province cinesi del Sichuan, del Gansu e dello Yunnan. E’ solitamente considerata una religione legata allo sciamanesimo e all’animismo; il suo fondatore è considerato Tönpa Shenrab Miwoche. Il Bön distingue tre fasi del proprio sviluppo: una orale, di “bon manifesto”, in cui sarebbe stata prevalente la prassi dell’estasi oracolare e dei sacrifici, forse anche umani. Nella fase successiva, di “bon differente”, si officiavano soprattutto culti funerari regali. Infine i testi sacri del bon riconoscono una terza fase di “bon trasformato”, in cui si ammette l’influsso del pensiero buddhista. Quest’ultima è l’unica fase storicamente accertabile del Bön nella forma attuale e risale all’epoca dell’introduzione del buddhismo in Tibet (VII-VIII sec) Il Bön ha raggiunto la sua massima diffusione nell’area himalayana e subhimalaiana nel VII secolo dopo Cristo. Dopo la diffusione del buddhismo in Asia, si è mescolato con quest’ultimo e oggi sopravvive in una serie di rituali e di usanze considerate compatibili con il buddhismo stesso. Bönpo è un termine che designa un seguace della religione Bön
[26] Il Gompa è un tempio buddhista simile ai monasteri o alle abbazie. I gompa si trovano prevalentemente in Tibet, Ladakh, Nepal e Bhutan. Gli interni variano da regione a regione, seguendo comunque un unico schema: una sala centrale per la preghiera con una statua di Buddha, panchine per i monaci per la meditazione e le camere per dormire e mangiare
[27] Il monte Kailash (Kailāśā Parvata) è una montagna appartenente alla catena dei monti Gangdisê che fanno parte dell’Himalaya nel Tibet. Da qui traggono fonte alcuni dei fiumi più lunghi dell’Asia: l’Indo, il Sutlej (un importante affluente del fiume Indo), ilBrahmaputra, e il Karnali (un affluente del fiume Gange). La montagna è considerata un luogo sacro da quattro religioni: Induismo, Buddhismo, Giainismo e Bön. Nella religione indù, è considerata la residenza di Shiva. La montagna si trova nei pressi del lago Manasarovar e del lago Rakshastal sempre in Tibet. Non sono stati registrati tentativi di scalare il Monte Kailash, poiché il luogo sacro non è considerato scalabile in ossequio alle credenze buddiste e indù. È il più significativo picco nel mondo che non ha registrato alcun tentativo di arrampicata noto. Il lago Manasarovar si trova a 4556 metri di altezza ed è uno dei laghi più alti del mondo. Esso è di forma circolare con una circonferenza di 88 chilometri, 90 metri di profondità e 320 chilometri quadrati di superficie.Il lago è solitamente ghiacciato tutto l’inverno fino alla primavera. E’ collegato al vicino lago Rakshastal dal canale naturale Ganga Chhu. Per gli Indù, I Buddhisti, I Giainisti e i Bonpo il lago Manasarovar è sacro. Chi beva l’acqua del lago raggiungerà il paradiso di Shiva e sarà purificato dai peccati commessi durante cento incarnazioni. Come il monte Kailash il lago Manasarovar è un luogo di pellegrinaggio che attrae fedeli dall’India, dal Tibet e dai paesi vicini, i quali vengono a bagnarsi nelle sue acque sacre. Sulle sponde del lago sorgono alcuni monasteri, il più importante dei quali è il gompà di Chiu, costruito sul fianco di una collina.
[29] Simbolo della prima predicazione della legge nella simbologia buddhista.
[30] Molti asceti tibetano erano soliti ritirarsi nei cimiteri al fine di meditare e ottenere realizzazioni mistiche.
[31] Nel Buddhismo Theravāda e nel Buddhismo dei Nikāya, gli arhat “degni di venerazione” sono coloro che hanno raggiunto il pieno risveglio spirituale, diventando degni di essere venerati dal sangha. Un arhat ha quindi percorso lo stesso cammino di un Buddha raggiungendo il nibbāṇa (pāli, nirvāṇa sans.), ma non attraverso una dottrina e una disciplina sviluppati autonomamente, bensì grazie all’insegnamento di un Buddha, vivente o passato. Nelle altre scuole di buddhismo, e in particolare nel buddhismo Mahāyāna, gli arhat sono dei Buddha a tutti gli effetti, detti śrāvakabuddha, ma comunque inferiori a coloro che, pur potendo ormai conseguire tale stato, prendono il voto di continuare a rinascere innumerevoli volte come bodhisattva fintanto che resteranno al mondo esseri senzienti non illuminati, e sono detti Bodhisattvabuddha o Samyaksambuddha.
[32] Divinità protettrice dei templi, molto frequente nelle pitture di questa regione.
[33] Il Bodhisattva Maitreya; tibetano Byams-pa — è il nome del prossimo Buddha nella soteriologia buddhista, un bodhisattva che molti buddhisti credono comparirà sulla Terra, otterrà l’illuminazione completa, e insegnerà il puro Dharma. Il Bodhisattva Maitreya sarà il futuro Buddha, successore di Gautama Buddha, ed è destinato ad essere “Re del mondo”, unendo tutti i fedeli delle varie scuole. La profezia della venuta di Maitreya è presente nella letteratura canonica di tutte le tradizioni buddhiste (Buddhismo dei Nikāya, Theravāda, Mahāyāna e Vajrayāna) ed è accettata dai buddhisti come un dato di fatto, un evento che prima o poi avverrà. Maitreya è in genere rappresentato seduto all’occidentale, con entrambi i piedi per terra e non alla maniera indiana posti sullo stesso trono, ad indicare che il trono su cui siede gli è stato dato in prestito e ancora non gli appartiene.
[34] Carica militare simile al nostro colonnello.
(continua…)
Andrea Morandi