Considerazioni sull’opera ermetica di Oswald Wirth – Luca Valentini
“…la perfetta felicità, fonte della suprema ricchezza e della vera prosperità, trae origine dal fuoco celeste, che infiamma le anime pure. Igne Natura Renovatur Integra” (1)
Cogliamo l’occasione della meritoria ristampa, a cura delle Edizioni Melchisedek di Torino, di una delle opere più importanti ed indispensabili per la comprensione della scienza ermetica – insieme a La Tradizione Ermetica di Julius Evola, all’Alchimia di Titus Burckhardt ed all’opera omnia di Giuliano Kremmerz -, cioè Il Simbolismo Ermetico (nei suoi rapporti con l’alchimia e la massoneria) di Oswald Wirth, per porre in essere alcune semplici riflessioni sulla detta materia, nelle quali cercheremo di offrire ai lettori di Ereticamente alcune chiarificazioni in un ambito di studi e di realizzazione spirituale, in cui il linguaggio criptico è foriero di non poche e semplici incomprensioni. L’Arte ieratica dei figli di Ermete si presenta in tutte le sue diverse modalità come un insegnamento primordiale che, per sua stessa natura, pone un iato irriducibile rispetto a tutte le credenze di natura idolatrica e religiosa. Il Dio degli Ermetisti e degli Alchimisti è l’espressione del serpente uroborico in cui la Totalità del Cosmo e l’Unità della sua irradiazione si sostanziano dello stesso fondamento, senza separazione, senza fede, senza misticismo, essendo la dimensione del Vuoto e dell’Intero allo stesso momento, essendo il Dio Nero, il Sole Nero della sostanza primordiale, cioè la materia naturante che è vita imperitura oltre i cicli della natura:
“E’ questo lo stato della Sostanza Primordiale, impalpabile e trasparente, uniforme e indifferenziata, rappresentata dall’Allume O degli alchimisti” (2).
Nell’opera di Wirth, in ogni riferimento simbolico, nella esplicitazione valoriale di ogni segno, di ogni glifo,di ogni espressione iniziatica, tutto viene ricondotto all’essenzialità della funzione, perché insita nella scienza ermetica è la sublimazione di ogni contaminazione religiosa, che può valere come adeguamento di transito, presso una data epoca e le sue correlate condizioni ambientali e soteriologiche, di una Sapienza che situa la sua palingenesi al Centro fondante del Sacro e non nella circonferenza delle fedi multiple e transitorie. Il simbolo si presenta come vettore di risveglio multiplo e diversificato dell’umano, nella sua indifferenziata diversità, perché ogni simbolo è e può essere adoperato come il grimaldello di una rigenerazione che riguarda essenzialmente la natura caduca dell’essere umano, nella sua crudezza, nella marcata ed evidente assenza di un pathos che soggioga, che umilia, che rafforza vincoli e catene di dipendenza, ma che, al contrario, come nella misteriosofia arcaica, da cui tale dottrina in parte deriva, utilizza l’emozionalità, il patimento quale macerazione dionisiaca indispensabile alla conoscenza. Il sacrificio, nella sua accezione etimologica ed arcaica, è l’apertura della materia greve per la sua purificazione, per la sua trasmutazione, è l’Acqua di Vita che permea la terra secca e desolata ne permette la fecondazione solare. Si diffidi, pertanto, dall’aggettivazione dell’ermetismo, in particolare in senso cristiano – e non solo per le persecuzioni cagionate dal “volere di Dio” contro i figli di Ermete -, ma soprattutto perché l’iniziazione ermetica è da sempre afferente ad una sfera dello spirito assolutamente diversa rispetto a quella, pur nobile e legittima, della mistica:
“Sotto questo profilo, un abisso separa il simbolo dal dogma. Quest’ultimo si presta all’indottrinamento tirannico; è lo strumento di una disciplina intellettuale rigida e assoluta, come la intendono le Chiese, le scuole e le sette. Al contrario, il simbolo favorisce l’indipendenza a scapito delle ortodossie dispotiche” (3).
La conoscenza ieratica non si trasmette e non si acquisisce né con gli scritti né con i discorsi, né con l’adesione dogmatica in strutture ove la “tecnica” palingenetica ha lasciato il passo alla dialettica (4), al confronto, al Dio, all’Architetto, agli Dei situati tutti in zone siderali e ben lontani dall’Uomo. Non casuale è il capitolo che Wirth dedica completamente ai rapporti tra ermetismo e massoneria (5), in cui, nella codificazione dei primi tre gradi della libera muratoria, Apprendista, Compagno e Maestro, viene riassunta l’Opera nelle sue tre gradualità, al nero, al bianco ed al rosso, ma viene meritoriamente espressa la vacuità di tali riferimenti simbolici. Se, come aveva evidenziato in altri scritti (6), la cosiddetta Massoneria Speculativa, fondata nell’anno, per alcuni simbolico, 1717, presupponeva la disomogeneità tra i cosiddetti Landmarks anglosassoni, i regolamenti basali della libera muratoria, e lo spirito originario dell’Ordine, quale tradimento ideale e operativo del deposito sapienziale di occulte ed arcaiche associazioni, che avrebbero conservato i dettami di una Tradizione ancestrale, ricollegata forse al Pitagorismo ed alla misteriosofia mediterranea, il profondo iato con l’indirizzo ermetico consisterebbe nell’ancoraggio massonico a tutta una precisa mitologia giudeo-cristiana. Ma non solo. Qualora si fosse in presenza di riferimenti diversi, a ciò che alcuni hanno denominato “via mediterranea”, rimarrebbero le perplessità, per cui lo stesso Wirth, egli stesso massone, chiede indulgenza, circa la comprensione puramente astratta dell’Arte Regale, la cui profonda conoscenza si realizza tramite l’operatività magico – teurgica, da cui tutte le obbedienze o quasi tutte sono lontane per scelta o per una deriva cerimonalistica, dichiarata non solo da Wirth:
“Sono detentori di un tesoro, ma ne ignorano il valore e non ne traggono alcun profitto” (7).
Tale consapevolezza denota come le conoscenze del Wirth – espresse mirabilmente non solo nel testo in riferimento ma anche e soprattutto nel suo famoso Il Simbolismo Ermetico – vadano riconnesse ad una dimensione operativa appartenente alla più nobile tradizione ermetico-alchimica europea, manifestando l’adesione ad una più universale ed organica dimensione intellettiva, una realtà noetica determinata dalla presenza costante – più che di una rivelazione religiosa così come riportata dai testi biblici – dell’emanazione del Soffio Divino nel Cosmo, tramite l’Anima nel Mondo, come tramandato dalla filosofia platonica e dai Misteri della Tradizione Occidentale, così come espressa nel capitolo Il Magistero del Sole (8). I tre elementi dell’Opera, Zolfo, Mercurio e Sale rappresentano, infatti, la tripartizione microcosmica in cui si compie il “miracolo” della trasmutazione, in cui ogni elemento, posto profanamente in disordine, viene separato, purificato e riposto, sublimato, secondo l’ordine del Sole e della Luna e non più secondo i dettami della Terra. In tali mirabili pagine, si comprende il reale significato della redenzione, della santità, poste ben al di là sia della bassa magia – “il più abbagliante dei Magi non è che misero taumaturgo rispetto al Santo, che dimentica se stesso e non agisce che in unione col divino” – sia di un fideismo religioso che ha ben poco di ermetico – “Gli artisti innamorati del più puro ideale non sono dei mistici esaltati dal bigottismo”.
Il Wirth pone in appendice al suo testo due documenti molto importanti e consequenziali alla propria esegesi ermetica. Il primo documento è il catechismo ermetico–massonico de La Stella Fiammeggiante del barone di Tschooudy, quale sintesi della “Nuove Luce Chimica” del Cosmopolita (1681) e de “La Luce che esce per virtù propria dalle tenebre” (Laurent d’Houry, Parigi, 1686), a cui il Wirth non manca di annotare l’esigenza di rendere un testo ermetico quanto più arido ed enigmatico possibile, per la necessità di estrarre quel tesoro che non si acquisisce tramite le dissertazioni sistematiche ed astratte dei filosofi moderni. Il secondo documento, estratto dal primo, consiste in un’ode alchemica di un italiano di Frà Marc – Antonio Crasellame Chinese, ovvero del Marchese Francesco Maria Santinelli, alchimista pesarese vicino alla regina Cristina di Svezia, anch’ella appassionata di ermetismo, come noto. Nei versi dell’Ode riemerge la via mediterranea a cui abbiamo accennato in precedenza, essendo il barone Tschoudy vicino alla corrente alchimica napoletana ricollegata al Principe Raimondo di Sangro, al suo Antiquus Ordo Aegypti. Essendo lo stesso Santinelli il discepolo di quel Federico Gualdi, che rappresenta una delle personalità centrali della corrente ermetico – italica, con il suo Philosophia Hermetica, in cui, insieme all’ode alchemica, che si identifica nel Lux Obnubilata dello stesso Santinelli, si esplicita enigmaticamente un’operatività ermetica che, dal Gualdi, attraverso il Santinelli e lo Tschoudy, venne a rimanifestarsi nell’ambito degli insegnamenti presenti all’interno della cerchia ermetica egizia napoletana, quale lume aureo della Tradizione Ermetica in Occidente:
“Quanto s’ingannan mai gli Huomini ignari de l’Hermetica Scola, che al suon de la parola applican sol consentimenti avari…” (9).
In conclusione, riteniamo che si debba affermare come nell’opera di Wirth dedicata alla Tradizione Ermetica il ricercatore possa ritrovare la stella polare del retto giudizio, della prudenza, dell’arcaico e socratico dubbio, che sempre deve accompagnare chi osa – non per curiosità ma per virtù – sbirciare nella dimora ove risiede Hermete.
Note:
1 – Oswald Wirth, Il Simbolismo Ermetico (nei suoi rapporti con l’alchimia e la massoneria), Edizioni Melchisedek, Torino 2018, p. 83;
2 – Ibidem p. 18-9;
3 – Ibidem p. 54;
4 – Rinviamo al testo La Via degli Dei di Davide Susanetti, per Carocci Editore, per la comprensione fondamentale di come la dialettica, la verbosità dei discorsi si distinguano irriducibilmente con la cosiddetta dialettica platonica, la quale, lontano dall’essere il moderno confronto di opinioni, sii esplicitava nella maieutica filosofale di un maestro verso un discepolo, di recipiendario lunare che accoglieva l’insegnamento della maestria ammonia o solare, per usare un gergo kremmerziano;
5 – Oswald Wirth, op. cit., p. 95ss;
6 – Oswald Wirth, La Regolarità Massonia (a cura di Vittorio Vanni), Edizioni Tipheret;
7 – Oswald Wirth, Il Simbolismo…op. cit., p. 105;
8 – Ibidem p. 139ss.;
9 – Ibidem p. 217.
Luca Valentini