Arturo Onofri – Ciclo lirico della terrestrità del Sole – Stefano Eugenio Bona
Il Ciclo Lirico finale, come abbiamo cercato di suggerire nelle precedenti sezioni, non è altro che l’autochiarificazione e il leggìo in cui la poesia è esatto conio realizzativo di una dimensione spirituale. Tramite la lettura attenta è tale la consapevolezza, la resa di alcuni “stati”, non di semplici impressioni disordinate in un poetar sull’emozionale, che Onofri è stato misconosciuto da quella critica che di sforzi non ne ha mai compiuti per andare verso il nucelo della sua poetica. Da questa ampia parte della cittadella delle lettere è stato relegato a propugnatore di bizzarrie limate in poesie “fuori dal tempo”, a parer loro preda di un furor mistico inconcepibile. Ancor per sminuirlo si è sottolineata l’appartenenza steineriana come fattore artificioso e schematico, quasi una volontà di farsi mero portavoce e megafono, limitandosi al compitino da accolito (e abbiamo anche già visto, tra l’introduzione alla Scienza Occulta e la sua vera presa di contatto con la realtà spirituale, che non è così riducibile…), ovvero fare trascrizione versificante di quanto potrebbe ritrovarsi nei testi dottrinari. Se così fosse non sarebbe appunto vera poesia ma applicazione sistematica, quindi negazione di quel rito di velatura che deve accompagnare il senso musicale e più profondo dell’ispirazione. Le Muse non cantano se noi siamo troppo occupati con il tagliare, cucire, sezionare, rianimare. Onofri lo sapeva bene, e anche se non ci troviamo sulla sua stessa linea su alcuni punti salienti, certo va riconosciuta la potenza della sua proposta, in una linea evoliana che possiamo certamente fare nostra: ”Di là dagli accenti esortatorio-messianici e dai residui di riferimenti dottrinali, e di là inoltre dalla semplice lirica e da quanto egli ancora concedeva all’amore per il bello e per l’umano – di là da ciò, è dove Onofri giunse a realizzare questo potere magico cosciente dell’immagine e del verbo che ha dato al mondo moderno qualcosa di unico”[1]. Qualcosa di unico sì, poiché il Ciclo Lirico può essere davvero il poema cosmico della nostra recente tradizione letteraria. Per comprendere Onofri ma soprattutto il Ciclo Lirico, il curatore ed editore del ciclo lirico per la casa editrice La Finestra Marco Albertazzi, fa notare una cosa: bisognerebbe avere cognizione della materia trattata, ovvero per evitare fraintendimenti occorrerebbero cognizioni elementari delle fonti extraletterarie, mentre “i critici non conoscono le distizioni più basilari tra esoterismo ed essoterismo”…Ma poi si stampano, per esterofilia, autori come Yeats, Rilke o Pessoa che ”presuppongono un afflato cosmico e un vocabolario esoterico molto affinato”[2], per essere compresi… Cosa curiosa e su cui mi interrogavo in un precedente intervento… La critica, molto diffidente con l’ultimo Onofri, è la stessa che però magari loda l’onirico non solo in questi sommi poeti, ma in altre forme ben più teatrali di letteratura. Sempre Evola mette in luce la difficoltà di ricezione dell’opera onofriana: “Gli occultisti, lo accuseranno di fare il poeta, e riterranno privo di senso e di utilità lanciare questi brividi di liberazione assoluta a mezzo di immagini liriche più o meno stravolte, a persone che non sanno nemmeno dov’è il principio. Mentre i critici d’arte accuseranno lo sfondo occultistico di Onofri, meno visibile, ma pur sempre presente, nelle ultime produzioni; e quand’anche non se ne accorgessero, nell’apprezzare Onofri unicamente il poeta secondo il loro concetto di poesia, di nuovo sarebbero in equivoco”.[3]
Onofri si staglia in una grandezza inusitata e nuova, poiché opera coscientemente quello che altri operarono solo per riflesso; secondo Evola un Rimbaud ebbe un’arte combinatoria nel disporre ritmi ed immagini su un “piano sottile” simile ad Onofri, ma soltanto istintivamente, senza un metodo. Sempre Evola nel tributo uscito per Vallecchi mette a punto un’ottica per far risaltare ciò che di più essenziale operava nel poeta. Il filosofo si sofferma sulle opere, da Trombe d’Argento fino alle inedite, ed evidenzia come l’ultimo periodo seguisse “una profonda crisi interiore che, in qualche modo, liquidò la sua esperienza letteraria e lo condusse sulle soglie di una superiore visione e di una rinnovata coscienza… Il punto di riferimento è spostato, è già oltre la poesia…” – “Onofri chiese alla poesia soltanto quel miracolo di comunicazione, a cui non credette chi invece, nella stessa tradizione, si ammantò nel silenzio ermetico e pitagorico”.
Abbiamo utilizzato, come prefazione al Ciclo Lirico, le pagine del suo incontro con la dottrina di Steiner, le abbiamo fatte parlare senza interromperle troppo, in modo da avere un quadro abbastanza focalizzato su ciò che rappresenta l’ultima fase poetica del Nostro: l’apoteosi di tutto il suo passaggio terreno. Doveroso introdurre il Ciclo Lirico con una sezione a parte su Steiner, perché il modus agendi onofriano è precisamente in queste righe del già citato Lanza, in duplice lente: “Per intendere il ciclo Terrestrità del Sole occorre dunque disporre il background della mistica antroposofica (Steiner) inverata nei procedimenti di una tecnica musicale atta a farla vivere artisticamente (Wagner)”[4]. Proseguendo sempre nella stessa pagina nomina i poli della poetica onofriana con gergo wagneriano: “…Non c’è ora sviluppo di temi o svolgimento di discorsi: al più, un oscillare indefinibile tra i poli della consunzione (Tristano) e quello della redenzione (Parsifal)”.
Ancor più doveroso è citare Le Trombe d’Argento come altro testo con cui il poeta lancia davvero quello “squillo” fino a fargli prendere la forma compiuta e sontuosa nei sei volumi finali.
Per Onofri il Cristo è perennemente vicino alla condizione umana: il salmo che porrà il via alla rinascita spirituale onofriana è quello de Le Trombe d’argento, steso in contemporanea con Il Nuovo Rinascimento come arte dell’Io del 1924, anno cruciale. Ne Le Trombe d’Argento il poeta usa la cosmogonia letta nella Scienza Occulta di Steiner e la plasma in un delicato sistema fantasmatico d’immagini e di concatenazioni. Sono immersioni accordate in un gioco sintattico che tende alla promessa di redenzione. Oltre ad affinità con gli ermetici, per il valore dato all’onirico, citiamo una delle composizioni più trasognate della raccolta, ovvero Risveglio Notturno: ” Dopo un’ora di sonno, qualcuno stanotte m’ha scosso. / Ad occhi socchiusi, nel buio, come pian piano tornando alla terra d’altezze celesti/ mi sentivo discendere e svegliare. / Ed esseri-luce uscivano intanto da me, dileguando; /finché ho ritrovato me stesso, occhi aperti, nel letto. / Allora un nuovo pensiero, quasi qualcuno che in me subentrasse improvviso,/ un nuovo pensiero d’amore s’è aperto nell’anima mia come una grande farfalla di luce”. La farfalla di luce è una poderosa memoria di vita angelica che torna ad operare nella via battistica-giovannea verso l’Aprirsi-Fiore finale, lo ribadiamo, perché questa è l’unica via che Onofri si traccia in cammino. In questa via dal distacco dalla terrestrità s’instaurerà il ritorno solare via via fino ad esser fibra d’universo, in quelle parole di fuoco che palpitano come i raggi stessi che le bruciano. La tensione che nelle Trombe d’argento esprime la fatica per ritrovare la Luce, porta ad un punto di rottura anche lessicale e semantico, visto che nel Ciclo Lirico metterà a punto una levigatura elegante e cadenzata come non mai, nel verso rotondo e solare. Onofri è in preghiera fino alla Terrestrità sì, dopo risuonano Trombe d’Oro, si fissa l’ascolto delle cose ultime.
Il poeta romano si accinge alla poesia metafisica sistematica solo quando si sentì sufficientemente iniziato alla Parola-Fuoco giovannea…Il “calore” della terra comunicante, avvertito come forza per l’ascesa della volontà del poeta. Nelle Trombe d’Argento (ancora in prosa d’arte) inizia la produzione del “vino segreto” a cui accenna Rumi nella sua poesia mistica, evidenza colta in Grappoli (un programmatico ibrido tra prosa d’arte, stile aforistico e confessione diaristica): “Una promessa di gioia è sul volto di tutti e della terra. Come in grappoli azzurro e oro, pende fra i tetti e lungo il fiume. Albero del paradiso! Nemmeno so ricordare la nera passione di ieri, l’insonnia e il torpore indoliti. Frutti del paradiso, ecco rivengono alla memoria antichissima le viste immemorabili, le primordiali nudità dell’anima, con la sua prima santa innocenza”. Quindi l’innocenza ritrovata e il rilancio della propria parte più alta in un tuffo di “primordiali nudità dell’anima”, una presa di coscienza però ancora venata di disillusione profana (sempre in Grappoli): “Anima che ancora non sa portare le lunghe maturità dei suoi propri sogni, dei suoi propri tormenti e lavori, compiuti da sempre, ora allungo la mano ai grappoli d’oro del sole verso i fogliami azzurri che splendono. E rièccomi quale un fanciullo”. Il poeta si esorta al compimento, in un altro grappolo d’uva (quasi) pronta. È la macerazione che qui deve espletarsi, e che si è già espletata nella precedente fase: qui sono le ultime propaggini, la gestazione prima del Ciclo Lirico, l’anticamera della sua risoluzione. Sempre in Grappoli: “Uscir dalla stretta antica del corpo, e ripassarvi liberi dentro, come una forma di sole nel sole, che abbia vinto gli ostacoli e le prigionie. Dammi tu forza di vincere, o libertà sempre mia, il peso della mia nascita, e rifammi figlio del cielo in questo corpo, ch’io tragga un vino d’uomo, dai grappoli celesti dell’amore!”. Poi in Risveglio Notturno l’Io vegliante in un’atmosfera da sogno esperienziale (abbiamo già indicato nell’onirico un senso prospettico caro ad Onofri): “Ad occhi socchiusi, nel buio, come pian piano tornando alla terra da altezze celesti, mi sentivo discendere e svegliare. Ed esseri-luce uscivano intanto da me, dileguando; finché ho ritrovato me stesso, occhi aperti, nel letto. Allora un nuovo pensiero, quasi qualcuno che in me subentrasse improvviso, un nuovo pensiero d’amore s’è aperto nell’anima mia, come una grande farfalla di luce…Quella luce che emana dai mondi, fluendo e rifluendo in un’onda perenne come un respiro divino, quel fulgore tuttora velato ai nostri occhi, ma in sé risplendentissimo di gloria, sospinto, come il vecchio spinge il mare, dagli spiriti eccelsi in un brivido eterno d’amore; quel fulgore, ecco, sentivo essere in me, abitare nel mio corpo di terra, disteso sul letto notturno”. – Il poeta scorge con una vista ultravisiva il punto in cui l’Uomo cristico gli si presenta, il focus d’emanazione dalla sutura del braccio verticale e orizzontale di croce: “Quella luce beata, che era come, infittita nel mio sangue, condensa in pieghevoli membra, in organi sacri di vita, in muscoli d’uomo vibranti, pervasi d’eccelsi pensieri, quella luce era fatta, ecco persona sulla terra, e in essi abitava il mio spirito, – celato sole fra celate stelle”. E alla fine la risposta autoconoscitiva: “…E un entusiastico impeto del sangue rispondeva: Così sarà, se tu vuoi veramente la tua vita, se tu infinitamente ami d’amore”. Davvero qui è il Novalis a risuonare: “Volontà mista con brama di sapere – è fede”[5].
Sempre da Trombe d’Argento prendiamo Bufera d’estate: “In fondo all’orizzonte il tuono brontola. – Brontola, tuono! Caligine della canicola, che pesi sulle creature come un mantello di morte, togliendo il respiro alle piante stecchite, agli animali accosciati e ai nostri petti ansimanti, – che un impetuoso spirito ti laceri, caligine, – spezzandoti dall’orizzonte…Gli alberi immobili, come ispettriti, tendono al cielo le braccia implorando ristoro, le acque stagnanti del lago invocano brividi e schiume, il cielo illividito e senza suono risospira le sue tenere e profonde trasparenze…Soffia, vampa di vento, che spingi all’orizzonte le tue elettriche mandre di nuvole! Con le gole assetate, cone le camicie aperte sul petto in sudore, noi t’aspettiamo come in agonia….Ma ecco, sul monte, laggiù, il turbine leva una nube di polvere gialla, come bava di povera bestia assetata…Soffia, incalza, infuria, vento che spazzi il fiato gemente del mondo, e lo innalzi in matasse di nembo sui mille crateri d’arsura! Già le distanze dei boschi son diventate più limpide, sotto il cielo violaceo, già il lago s’incresta di candide strie, e il rombo dei tuoni s’insegue intronando la terra dentro le sue viscere…Salute, o querce, che il ciclone scapiglia e sconquassa, strappandovi a volo le foglie vizze, i rami morti e le schegge risecche! Oh, benedette voi, chiome alfine arieggiate di selvaggia musica! Evviva, erbe danzanti del turbine, come i capelli sulla mia testa, come i guizzi nei miei rinnovati pensieri!”- È evidente un senso panico del rimescolìo eracliteo delle stagioni, Natura mai doma e mai fissa…Il fluire dei diversi stati climatici è come quello tra le componenti interne del poeta e alla fine sarà la pace, la musica, sempre lei, che penetrerà quando tutto sarà sin-tonia. Vi è qui come un ringraziamento euforico e bambino, in un liturgico vagheggiamento di una soluzione: pioggia-canicola, una combustione proprio nel periodo più secco dell’anno, per salire alle dinamiche superiori della primavera successiva, l’autoevidenza del Ciclo Lirico.
II
Veniamo al Ciclo Lirico della Terrestrità del Sole. Qui, come per l’incontro con Steiner, sarà d’uopo lasciare larga parte al testo stesso, alle liriche di palpitante bellezza, al concerto in ogni petto disposto ad accogliere tali versi. Il concetto di un Nuovo Rinascimento torna nella prima parte del Ciclo Lirico. Terrestrità del Sole reca l’epigrafe ”Allo Spirito del Nuovo Rinascimento”. Non si potrebbero immaginare i due momenti onofriani con l’esclusione di uno dei due termini. Nel Ciclo Lirico si certifica un concetto fondamentale: Onofri è tradizionalista che concede comprensione progressiva del ruolo dell’artista sulla terra e al contempo, nella vera arte vede donata una volta e per tutte la capacità di autoconoscenza. Vi è un’espressione ardita nel Nuovo Rinascimento, per cui l’incanto dell’arte antica e di una concezione statica non deve occludere passaggi ulteriori, nuove scoperte nei mezzi da adoperare e nei risultati da ottenere: “Vera arte fonda ripetutamente non solo un canone ma una tradizione, esse è la sua tradizione…”- e ciò avviene eminentemente col Ciclo Lirico.
Nel Ciclo Lirico, il discrimine che si voleva abolire, come da dichiarazioni programmatiche del Nuovo Rinascimento, diviene fusione tra teoria e ascesi, ovvero il vanire del soggetto (il cercare di non essere persona “frontale” dietro la scena, quindi oracolarità oggettiva, financo spossante e ipnotica) per la reintegrazione finale. Qui tutto è com-prensione del proprio stato misero di Terrestrità che però ha acquisito il raggio dell’origine Solare; l’Io cerca la fissazione cosmica e abbandona le fughe e i tentativi poetici precedenti. Poi si vincerà il Drago…
Il Ciclo Lirico si divide in sei volumi: 1) Terrestrità del Sole; 2) Vincere il drago!; 3) Zolla ritorna cosmo; 4) Suoni del Gral; 5) Aprirsi fiore; 6) Simili a melodie rapprese in mondo. Le uniche pubblicate con il poeta in vita sono le prime due (la prima per Vallecchi nel 1927, la seconda per la Ribet di Torino nel 1928), mentre le altre usciranno postume. Una mole immensa di versi (circa 20000) ed un’iperbole finale non così usuale: se è vero che molti danno il meglio o nelle prime opere o in quelle più meditate della maturità, in questo caso si ha proprio un’altra dimensione, ovvero il fine per cui ci si trovava a lavorare su di sé, fin dall’inizio. L’ultimo quinquennio è altamente operoso, difficile persino da comparare con altri scrittori; il “Vagabondo senza cricche” è più che mai teso ad esprimere tutto il suo potenziale. Le poesie dell’ultimo periodo hanno “aerazioni” minime tra loro, sono un invariato registro dell’Unica Opera, che poi è in nuce, in sintesi e a posteriori il seme e l’albero di ogni autore. Ogni vero autore scrive una sola Opera suddivisa in capitoli, come intuì Goethe.
1) Dunque Terrestrità del Sole, con cui si apre il Ciclo: qui si inizia a scorgere l’unità “planetaria” e nell’uomo inizia a manifestarsi la rifrazione della Luce. Il rapsodo qui delineato è l’Io vincitore del mondo, non l’io-epico. Se il trionfo netto sarà in movimenti ancora successivi, qui si ha una prima trasmutazione del sangue, ove la luce non passa, poiché si deve compiere il miracolo eucaristico, in modo che si svincolino le passioni dal transito di vita biologica. Il fluido ematico è preso ad esempio, visto che ricorre in numerose prese di contatto tra il “terrestre e il solare”….Con il primo movimento del Ciclo si hanno tutti i motivi anche delle raccolte successive, in potenza, e il volto si pone fin da subito al Sole, poi fissato in atto nell’Aprirsi Fiore. La lirica 5 di Terrestrità del Sole è tra le più complete e potrebbe essere presa davvero ad emblema del Ciclo intero, poesia manifesto, ove tutto parla con il linguaggio di una macerazione ormai risolta in nuovi succhi e linfe (termini sempre molto ricorrenti, nella tavolozza di colori di Onofri):
Con la più cruda scarica di gelo
ho toccato lo schema del possibile:
l’impalcatura di montagne ancora
insite (e i piani suoi sgorgano in popoli)
nell’algebra di amori delinquenti
e di fiori che parlano preghiere.
È il punto nullo, ove converge il corpo
fuor d’ogni suo disegno abituale,
nato pianeti e sfere di potenza.
È l’attimo turchino, senza scopi,
di là d’ogni durata:
l’eterno Incominciare,
che riprende ogni dianzi, ogni fra’ poco
nel suo fiat senza tregua,
astratto da qualunque calcolarsi.
È l’esser nulla, essendo Io solamente.
Fòlgore d’un crearsi onnimondiale,
tu dormivi negli umidi recessi
del mio vegliare addormentatamente,
ma il tuo risveglio è forza di quiete,
come una sparsa musica
rappresa in un tacersi.
Da Terrestrità del Sole ora citeremo doverosamente altri passaggi. In tutti c’è il riconoscere il proprio stato di partenza, ma anche la consapevolezza di essersi ormai staccato dalle concrete rimanenze, dalle falle terrene in cui si fa inghiottire l’uomo materiale. Nella 12 il fluido sanguigno, come tramite purificato dal transito meramente animale, il ballo sontuoso dei lemmi in una musica di raggiunta pacificazione:
Ecco il ritmo frenetico del sangue,
quando gli azzurri tuonano a distesa,
e qualsiasi colore si fa fiamma
nell’urlo delle tempie.
Ecco il cuor mio nella selvaggia ebbrezza
di svincolare in esseri le forme
disincantate a vortice di danza.
Ecco i visi risòlti in fiabe d’oro
e in lievi organi d’ali.
Ecco gli alberi in forsennate lingue
contorcersi, balzar fra scoppiettii
di verdi fiamme dalla terra urlante.
E tra l’altre manie del mezzogiorno,
ecco me, congelato in stella fissa,
ch’esaspero l’antica aria di piaghe
metalliche, sull’erba di corallo.
(Pulsa il fianco del mare sul granito
come un trotto infinito di cavallo).
Così la numero 22 (estratto), inno alla rinascita e alla paradigmatica farfalla animica liberata sul finale, in questo nuovo stato:
La luce tua, che dai chiusi occhi ammiro
in ali d’oro, il sangue la ribeve
sostanziando al suo palpito breve
ombre infernali e cieli di zaffiro.
Ma il raggio è tuo! Sei tu l’alata forma
che dà senso al mio corpo in sé caduco,
e in mondi l’amplia, perché più non dorma.
Sei tu la gloria, a cui s’apre, in sua falla,
la luce occlusa nel terrestre bruco,
per diventar celestial farfalla.
Il poeta è veggente e sente ormai con un afflato attivo, come scorgiamo nella numero 23 (estratto):
Tutto, dal sollevarsi ed abbassarsi
delle mie coste, l’onda impronunciabile,
su cui veleggia a un vento di miracoli
l’Essere più che rapido,
è uno squillo d’altezze, è un puro ampliarsi
di quel mare ov’ei naviga: estro-dio
ch’esala mondi sparsi.
Troviamo qui un modular di “mondi”, come proiezione dell’ascolto interno…Ne vien fuori un’auspicata e rinnovata forza, applicabile anche per il bene dei popoli (tensioni steineriane all’agire nel mondo), sempre nella 23:
Oh, quei suoi globi ardenti!
O sguardi, onde si staccano profili
d’eroi, d’amanti e d’armonie di popoli!
La sua memoria risonante è un dio
che assegna fasi agli astri,
colori all’aria, e angelici progetti
ai fiori nuovi e all’acque impersonate
come faune celesti.
(Ma non è che il ronzio d’un ascoltarmi!)
La bellezza fragile e tattile della 82, dal forte schema musicale nella chiastica immaginale di quartine, con rimandi rosacruciani:
Un solo profumo di rosa
in calda atmosfera veloce,
beato di sé, si riposa,
nell’ombra che ha forma di croce.
È solo un profumo: è sospiro
di farsi bontà volontaria,
che induce a color di zaffiro
il nimbo di sole dell’aria.
La terra solleva dall’ombra,
con braccia d’eterno avvenire,
il duro dolor che la ingombra,
sognando altri cieli fiorire.
E ignara ogni vita si sposa,
dall’ombra che ha forma di croce,
a un cielo che odora di rosa,
in calda atmosfera veloce.
2) Ecco lo squarcio di Maya, il risveglio delle facoltà latenti che sconfiggono le illusioni della materia (il nero e il terrigno spesso nominato nelle liriche). Le doti per il colpo di grazia sono la coscienza, la volontà e l’equilibrio per Vincere il Drago! – non vi è augurio più grande di questo. Esortazione massima ai “risvegliati di questa terra”, sigillo e controllo acquisito sulle forze infere, messe a bada tramite la lancia poetica. Una leva che sferza e chiude lo spazio inferiore della materia, ovvero il mostro ormai immobile, pietrificato dal gesto d’ardore operato dalla volontà libera, non più egoità rinchiusa. Già nella prima raccolta il carattere agonico è evidente, ma qui s’instaura una dialettica di stremate parole per uscire dalla caverna e dalle ombre. In questa raccolta sono evidenti gli impasti cromatici “alchimizzanti”, ad indicare processi decisivi ove si “coniugano gli amplessi di colori” (lirica 45), ove si schiariscono le dense nubi e si recupera la soavità dell’aria minacciata dal fetore del “drago”. La volontà deve disciogliere la solidificazione terrea, con una tripartizione verso il nucleo agente: sangue-cuore-fiore nella gamma selezionata dei colori poetanti.
Passiamo quindi alle liriche di Vincere il Drago!; subitanea la dichiarazione di “sacra guerra”,con l’epigrafe “Ai combattenti per lo spirito in Michele Arcangelo” e con la lirica 1:
L’alto movente, ch’eccita ogni stasi
del passato a riprendere contatto
col volere che intìma nuove fasi
in avanti alla terra, urta di scatto
le resistenze nere
illuse di volere.
Volontà d’uomo è solo movimento
verso il proprio rinascere immortale;
e il desisterne è morte, è il fuoco spento
d’antichi dèi, nel corpo minerale
ove l’uomo è feticcio
irreale, e terriccio.
Dal cherubico volto di Michele
splende in mondialità, senza arrestarsi,
l’uomo che crea divine parentele
fra il suo futuro e gli esseri scomparsi,
che fu lui stesso, ma
senza sua volontà.
Raggia, da quel divino aspetto, il fuoco
della parola-dio, che uccide il mostro
superstite del nostro sangue fioco;
e in quel volto risuscita, ma nostro,
l’onnipotente aiuto
già da noi ricevuto.
Ora il nostro risveglio umano è l’atto
che induce, fatto spada eccelsa, stasi
del passato a riprendere contatto
col voler nostro, ch’eccita altre fasi
in avanti alla terra.
E santa è questa guerra.
Ricorre sempre il ritorno allo stato di “magia natural” bruniana dell’infanzia, viva consapevolezza di uno stato da recuperare. L’elemento volontaristico, nella seconda parte del Ciclo, si fa più potente e deciso, per ripristinare e vivere “la visibilità del mio destino”, visto che eroicamente “la sola volontà di sollevarsi/ al verbo delle altezze, offre un compenso…”.
Lo sforzo della battaglia contro ciò che trascina l’Io nel buio è così ripagato, nella 2:
La melodia di nuvole sospese
nell’azzurra dolcezza del mattino
richiama dal mio sonno, ancora illese,
forme di sogni che sognai bambino.
Energie d’oro, che il mio sangue apprese
in densità di muscoli, e perfino
d’ossa adulte, risciolgono palese
la visibilità del mio destino.
Errori antichi oppongono alle nubi,
sollevate di musica, il fio denso
dei sali sotterrati in prismi e in cubi.
La sola volontà di sollevarsi
al verbo delle altezze, offre un compenso
di suoni infanti agli atti adulti scarsi.
Il calice, il farsi coppa per l’avvento del Nuovo Rinascimento espresso nella 5. E tornano gli Dèi…Trasfigurati dall’a-dogmatica nuova religione del verbo steineriano-giovanneo:
Calici di calore aprono il suono
d’un’estate impossibile, nel cuore
dell’inverno ghiacciato, alzando il tono
di nevai senza foglie a un brio di flore.
Ma non durano i vortici di luce
se non l’attimo appena in cui balena
un disegno di prossime fiducie
verso uno straripar d’anime in piena.
Balzerà strenuamente, oltre i confini
della terra contratta, un fuoco terso
di dèi sepolti, che sarà mattini
diafani come volti d’universo.
E tu vivrai (con nembo di colori
e suoni d’oro) un insaputo assenso
dei cieli alla vertigine d’amori
tuoi, perché siamo un solo amore immenso.
Nella 9 la vita onirica collega i mondi e l’uomo ritrovato deve stringere l’amplesso, non vivere unilateralmente:
Le figure enigmatiche del sogno
concepiscono sé nell’aureo amplesso
che congiunge in ogni attimo il domani
ai tempi arcaici amplificati in mondi
fuor della vita nostra che si scioglie
in sua potenza duplice, nel sonno.
L’una è profetico impeto di gloria,
l’altra è un meditar-mondi, entro il ricordo.
E dorme restaurato il sangue d’uomo,
resuscitando i numi del suo fuoco,
ma la sua volontà veglia: s’estrania
fuor del polso, e interrompe il martellio
dei pensieri e degli atti in mutamento
nella durata ove l’istante è i secoli.
Il suo volere è in libertà: s’abbraccia
ai firmamenti d’astri, organi d’oro,
e il suo sangue rièvoca il ricordo
d’una terrestrità senza persona,
che ripercorre i cicli (insiti in lui)
dell’immensità breve, nata corpo.
Fra i due promessi un sole unico brilla,
che interamente illumina le nozze
sinfonianti fra la terra e il cielo.
Eplicito assenso unitivo, gioia irrefrenabile per l’accesso ad una ex-stasis “onnimondiale”, per dirla coi suoi lemmi. La 10 (estratto):
…L’Alfa e l’Omega, nella tua catena
fatta d’innumeri esseri viventi,
ch’erano tua solarità terrena
e saranno, via via, le tue potenti
terrestrità celesti,
onde già dea saresti,
l’Alfa e l’Omega intonano il son Io
nel tuo sangue che vuol rinascerne ali,
versando dal tuo seno dentro il mio
gli alfabeti di fuoco angelicali:
perché tu vi discerna
te, come vita eterna.
Sentire la pugna, sentirla in ogni fibra come nella 46. L’aria è vorticosa, lo spirito in ebollizione e in una ressa sensoriale per vincer-sè:
Impeto insensuale a dismisura
verso eccelsi splendori onniveggenti
da di noi l’entità che disoscura
le tenebre del corpo in firmamenti.
Coro, che in membra alate è creatura
unica, tutta cieli trasparenti,
è sintesi che supera Natura
nell’insita unità degli elementi.
Uomo, oh slancio che anela ad esser tutto,
nulla essendo per sé, tranne l’intento
magico a cui converge ogni costrutto;
ora e sempre tu sei dovunque un uomo
fuor che in te stesso: se sei congiungimento
d’amore, onde il tuo sangue è un cielo e un duomo.
Finita la raccolta si palese una “vita irraggiante”, perché con l’aiuto di Michele si è vinto il Drago del materialismo. Quello contro cui chiamava a raccolta, presentando La scienza occulta: “Tra le più alte personalità spirituali che negli ultimi decenni sono apparse in armi contro il drago del materialismo moderno, primeggia in armonia e potenza interiori la personalità di Rudolf Steiner”,
Così la 150 (estratto):
Un vita irraggiante si palesa
nella tua volontà di dir parole
da dentro la mia anima, protesa
nell’ascoltarti, o musica del sole,
fino a dimenticarsi
in questa sua catarsi…
3) Con l’esortazione incessante alla lotta contro l’apparenza e le illusioni del sensibile del movimento precedente, l’uomo stante nella zolla ri-beatificante può successivamente sentire il respiro dell’Ápeiron. La zolla redenta dal sangue cristicamente trasceso, è il tema centrale della terza raccolta del Ciclo e rappresenta il movimento inverso rispetto al primo, ovvero anche il tre come moto eterno di ritorno all’Uno: dallo sguardo sulla terrestrità ora ci si sposta a quello della zolla ridivenuta parte sacrale del Cosmo. Il programma del Nuovo Rinascimento, dopo la vittoria sul “drago” si incarna sempre più fino all’Aprirsi Fiore. In Zolla Ritorna Cosmo un vortice di simultaneità rappresentativa-espressiva. Come sinestesie dell’Io, i sensi devono lavorare per ristabilire le cifre dell’origine attraverso i dati sensibili disseminati in terra. Per le uscite dal mondo, il Poeta si serve di raffigurazioni frutto di correspondances baudeleriane. I rimandi sonori si fanno sempre più acuti fino ai “Suoni del Gral”. Queste le parole di Onofri in calce: “ Dopo Terrestrità del Sole e dopo Vincere il Drago! vengono terze, in ordine di tempo, queste altre modulazioni costruttive, o azioni coscienti della parola spirituale, che va verso il suo risveglio cosciente, secondo quanto primariamente ho disegnato in quella regola poetica che è stata pubblicata nel 1925 col titolo di Nuovo Rinascimento come Arte dell’Io. Roma, 29 settembre 1927 A.O.” Dopo la sconfitta del drago, l’uomo torna ad essere parte attiva di un cosmo generatore. Zolla Ritorna Cosmo è la chiave di volta del Ciclo, la mutazione di paradigma e di prospettiva, il credere individuale nel potersi Aprire Fiore. Oltrepassato l’ostacolo del Drago, l’uomo può compiere il resto del cammino con forza rinnovata, quella della partecipazione all’anima intellettiva, ovvero l’ “alone volatile di fuoco”, l’immagine della combustione unitiva di chi non partecipa più ad una elementarità inferiore.
L’annuncio della Zolla che ritorna Cosmo è dato nella 1:
Trombe celesti annunciano alla terra
che l’un dei cori angelici è innalzato
a quell’onnipotente urto di guerra
che dà forma al futuro, in quanto è nato
umana volontà
che, in noi, terra si fa.
Alberi e cuori esalano un respiro
che unitamente ascende verso i mondi:
vita irragiante eternità, nel giro
degli astri in sé defunti, su dai fondi
del tellurico suolo
che innalza impeti a volo.
Zolla ritorna cosmo, per ridare
alle stelle energie germinative
create qui dal pullulìo solare
d’erbe e d’umanità: zolla che vive
nei cieli sovrumani,
tessendovi il domani.
Sali, o virtù dell’anima!, con quella
preghiera che grandeggi a dismisura,
e trova, in quel salirvi, la tua stella
che t’aspetti lassù! Luce futura
è in quella ascesa enorme,
cui svegli il cuor che dorme.
Paradigmatica dell’intera raccolta la 3, ove si trova la formidabile locuzione richiamata in precedenza:
Divampa in sogni cosmici la terra,
nel desiderio di germogliar mondi.
Un alone volatile di fuoco
fiammeggia nelle ampiezze della luce
da lei, come dal seme planetario
che di sé schiuderà nuovi sistemi
di cieli e nuova terra; e alimentando
l’albero della vita dalla morte
futura sua, già sogna il mio vegliarla,
alzato sopra lei con forze d’uomo.
Nel mio notturno sonno, o Madre, io vidi
te balenante sprigionar dal senso
tuo, nei cori degli angeli frementi,
quel Sole umano che t’aureola d’ali,
nel flutto del mio sonno respirando,
come la veglia massima d’un noi
futuro, che ti vuole per suo Corpo.
Su, fra le morte costellazioni
già porta il morir nostro il tuo messaggio
di vita nuova, e in esso anzi si risveglia
sé dal sonno profondo che fu sangue:
nel volere del tempo, ove tu vivi.
Nella 2 (estratto), le “parentele”, l’unione, il punto d’incontro, la vittoria sulla scissione operata dal materialismo:
Due volti, che aleggiano in penombra,
sboccia il sorriso delle parentele
fra terra e cielo, come un suono muto
ch’ha forma in queste umane creature,
tue profezie d’esser volontà d’oro.
Nella 6 (estratto) l’umanità che deve trasformarsi radicalmente, ha uno dei suoi proclami. Vi è anche il riconoscimento del sangue spirituale, esso ormai scorre:
Estasi ultrasonante alza i sorvoli
tuoi nell’immenso pullulio dei mondi
come vocali inflessioni d’oro
che articolano in terra le parole,
quando parlano in te, luce vivente!
L’impennarsi in excelsis dei tuoi scatti
siderali verso astri incalcolati,
nei sistemi del cielo, è, in firmamenti
cherubici, le gesta d’un’assidua
passione terrestre in solidali
cicli d’un millenario trasformarsi
d’umanità, che suda e geme sangue.
…. E poi troppe, davvero troppe immagini riuscite o semplicemente versi di squisita fattura stilistica, dalla presa simultanea sull’intuizione e sull’emozione… Come un visibilio, un ribadire lo sfociare della storia nel senso cristico. La 95 è di nuovo una poesia manifesto:
Cifre d’oro! Il concilio ìgneo dei ritmi
disoccupa lo spazio conglobato
a spessore terrestre, e n’apre i nodi
metallici, onde colpi d’ale bianche
palpitano in fulminei tuoni d’ombra;
sfata i basalti in limpide persone;
arroventa in fragori emancipati
i fruscìi sinuosi d’acque in moto
lungo l’innamorato logorarsi
dei continenti, a zattera sui mari.
E i plebisciti d’ascoltar quei suoni
sciolti dai luoghi, dove, agonizzando,
sanguinavano spazio, entrano in zuffa
d’uragani di musica, agitando
ciascuno il sì d’un nome originario
che asserisce partecipi ingerenze
in gesta nate numi, corpi, mondi.
Concilio delle Voci dei primordi
riconvergenti sé nel logaritmo
d’un Verbo intero, generano, al punto
focale dei consensi, il pio silenzio
tacitatore dei cicloni ardenti
in profili e freddate ombre e parvenze.
Dal simultaneo fremito corale,
che di più ritmi crea stretta congiura,
la potenza d’ardore ch’era vita
fa che il suono trapassi nella luce,
e la luce s’interni entro i mutismi
precipitati in tenebre, adombrando
visibile in sue masse corporali
l’articolarsi-noi della Parola.
4) Con il quarto movimento ci si muove più liberamente ancora, in un senso di appartenenza e di risveglio dell’Uomo Universale in noi; cacciato il drago e “rinzollata” la terra cosmicamente, l’esser-ci in terra è ormai riscattato in senso goethiano e novalisiano. Suoni del Gral è indirizzato alla milizia gnostica pronta alla liberazione dell’uomo-automa. Volume curato da Mario Gromo ed uscito postumo, aveva tuttavia ricevuto una consegna scritta da Onofri nella Pasqua del 1928 e lasciata in epigrafe: “Questo quarto ciclo…Vuol risuonare a coloro che sappiano compiere l’atto di venire volontariamente incontro alle sonorità rivelatrici della Poesia rinata, il nutrimento spirituale che corrobora l’anima indebolita dal materialismo e dalla meccanicità, per farla stare sveglia, ed eretta, con la sua volontà individuale di resurrezione nel Cristo. Roma, Pasqua del 1928, A.O.” Con i Suoni del Gral abbiamo l’ascolto di quell’effluvio di velluti e di richiami superni coi quali il poeta partecipa alla “caccia sacra” del Cristo-Parola, per tesser in armonia con le sfere dell’esistenza. Il Cristo vivente, l’Io attivo e vero sorgerà quando fede e scienza, arte e filosofia, mistica e pratica saranno Uno. In Onofri poesia e musica hanno il più alto valore gnoseologico e tutto qui tende all’unità del Suono primordiale. Infatti nei “Suoni” si ha la fusione tra parola e suono auspicata da Mallarmé.
Partiamo con la lirica 3, ovvero il presagio del compimento:
Or che ti presagisco, o liberarsi
del mio vivere eterno fuor dei sensi,
ora soltanto i miracoli sparsi
in aspetti di mondo sono immensi.
Quando la fiamma della mia catarsi
toglie ch’io sia natura, o in lei mi pensi;
tanto più miei gli oggetti, allor disparsi,
creano, di me, propri ricordi intensi.
E il ricordar gli aspetti circostanti
mi si ricolma d’anima ispirata
che li riplasma, alate luci e canti.
E così torno a vivere (ma dentro
- me) quella terra eterna, che rifiata
in prodigi d’un Io, ch’è sfera e centro.
Ormai il poeta è come veggente, anche se non certo in senso rimbaudiano, e tutto risuona, tutto è gioia di ri-conoscimento tra i piani della manifestazione. La 9:
Riconosco al di là di queste zolle,
di questi fiori semplici e di queste
famiglie innumerevoli di forme
d’uomini e d’animali, il raggio sparso
del primordiale archetipo d’un Uomo
che fu parola ingenita dei mondi.
Qui, nel moltiplicato essere primo,
riconosco ombre nitide e tranquille
del mescolato fuoco originario…
..E le piante rinate dall’amore
ascenderanno a un muoversi animale,
e le pietre sbocciando in flore d’oro
risorgeranno musiche di cieli.
Questi prodigi prossimi tu ami,
anima mia, nel folto ove sei scesa.
Una luce che al mondo rassomiglia
(come la tua parola originaria,
che fu carità d’Uomo universale,
s’apparenta alle singole parvenze
della terrestrità dove ora preghi)
una luce di spiriti sublimi
or ti si svela come tua sostanza
ineffabile d’Uomo, una, infinita.
E il suono onde sei fremito è l’osanna
del tuo riconoscente offrir te stessa.
L’ansia unitiva massima, in versi come nella lirica 21 (estratto):
Di te basta un sentore: e sul mio male
d’esistere, il morirne è un firmamento.
Oh, spandi olio odorato sul tormento
della mia solitudine mortale!
E al tocco del tuo crisma,un rullio d’ale
mi colma il vuoto nero, ove io divento
nulla per me, ma tutto rapimento
d’alzarmi nel tuo fremito mondiale.
La non esclusione degli Dèi dalla scena del suo cristico sentire è evidente nella 30. Il Cristo è concepito come l’archetipo sommo mentre gli Dèi sono gli agenti, prima e dopo l’incarnazione:
Per quante stelle hai tu nel firmamento,
altrettante, dal centro di ciascuna,
raggiano deità, come un concento
d’anime, che il tuo nome unico aduna.
Il tuo soffio le muove, come il vento
le nuvole; e la terra or se ne imbruna,
or sfavilla dall’oscuramento,
in pieno scintillìo di sole o luna.
Col raggio de’ tuoi dèi, che sol ci sazia
fame e sete nell’anima digiuna,
e per tua volontà che si fa grazia,
potrà l’anima umana sollevarsi
(colma ogni sua mortifera lacuna)
al coro dei tuoi astri, ora in te sparsi.
Poi l’impersonificazione del mendicante nella 35 – il poeta alla cerca dell’oro si rende pellegrino eterno, per conquistare la vera ricchezza si rende “vuoto” e ricettivo anche sol per “quel lampo” di vicinanza al Logos:
Questa mia povertà di mendicante
lampeggia in me l’oro della parola
pronunciatrice di tue membra sante:
ove ogni vita nostra è tua figliuola.
E risfolgora intera, in un istante,
l’eternità che in angeli trasvola
dentro e fuor del tuo grembo, respirante
onnipresenza d’uomo, unica e sola.
La mia penuria ecco è sì gran dovizia
in quel lampo di te, che per la piena
d’oro, anzi, geme l’anima novizia.
E tu prendi il suo gemito, e v’infondi
la fluida eternità della tua lena
e vi susciti il coro dei tuoi mondi.
Nella 163 il fuoco come principio di purificazione, dopo le fatiche e le angustie delle prove iniziatiche a transumanarsi:
Fuoco risanatore, imprimi il suono,
ch’anima i cieli, fin dentro il mio sangue!
Edificane un uomo altro da quello
che respirava i sonni vegetali
esalati col sole in queste piante!
E il tuo sublime ordire organi d’uomo
purificati ‘ogni terra morta
nella luce del primo dei risorti,
salmòdia suoni di riconoscenza
alla divinità di tutti i mondi.
5) Veniamo al movimento quinto, ovvero il trionfo “onnisonoro”, l’echeggiare perenne e continuativo del Gral in quell’apertura al sovrasensibile che è l’Aprirsi Fiore. Onofri è finalmente restituito allo stato edenico in cui si torna “Puer”: è lo stupore incarnato, il principio agente tra la retina del poeta e il tessuto del manifestato. L’eterno femminino di marca anche goethiana è invero ciò che dal presente del mondo incarna ed incorpora sulle orbite visive del poeta, per suscitare la grazia nel cuore, “aperto fiore” sotto-sopra-dentro-attraverso i raggi del sovrasensibile. L’apoteosi della logologia e del Sole. Per tutta la raccolta il senso della pienezza della Zolla è portato all’estremo. Qui, anche partendo dal titolo stesso, si può rimarcare come i termini “fiore, seme e albero” siano tra i più utilizzati nel Ciclo Lirico. Onofri con il primo intende il mezzo animico di apertura al sovrasensibile, con il secondo e il terzo l’uomo in carne ed ossa “piantato” a terra in missione o in morte concreta. Il fiore è il calice che si schiude.
In Aprirsi Fiore, il calice è l’archetipo della redenzione avvenuta e disposta eternamente a ricevere Luce. La ricompensa è lo stesso posizionamento e lo sbocciare. Non è il fiore secco e destinato a morire nel suo veleno come da baudeleriana memoria, perché le radici sono confitte nel rimescolio cosmico, a seguito di una ricomposizione della frattura spleenetica ottocentesca. Con l’Aprirsi Fiore la cifra del calore nel petto umano è la definizione di un approdo…D’altra parte dopo il movimento 5 c’è un sussurro, che ci parla del silenzio come “stato” di pax raggiunta dal poeta. Il suono del Silenzio. Nota sempre Marco Albertazzi nel volume de La Finestra: “Il silenzio si compne della totalità dei suoni, e diviene una sorta di cornucopia che produce infinite scale melodiche: queste scale, a loro volta, sono le componenti di ogni creazione. Il Silenzio è identificato quindi con la Volontà primigenia che si esprime per mezzo dell’emissioni sonore…”.
Il fiore dell’infinito, il possesso ultra-terrestre dei rimandi tra i “mondi” è dichiarato raggio còlto fin dalla lirica numero 1:
Raggi e scintille: fuoco sfolgorante
di colori mutevoli nel sole,
sono i fiori sui prati e sulle aiuole,
fra un fogliolìo di redivive piante.
Le forme-idee del suo sentirsi amante
l’anima ammira, in queste famigliuole
che vègetano luce, dalla mole
opaca della terra germinante.
Gesti e preghiere tacite di fiòre
e di fogliami, in colorite forme,
disegnano i modelli al nostro amore;
come se il fuoco eccelso, in noi sopito
a mirar fiori, ordisse, mentre dorme,
un proprio aprirsi fiore d’infinito.
Sempre per parlare del rinovellato centro umano, ovvero il cuore ardente realmente recettivo, la 4 (estratto):
Il delicato fremito del cuore
esubera dal cerchio del tuo seno
toccandomi col fuoco onde si muore
in presenza d’un angelo terreno
che ridilata in cieli
i nostri ardori aneli.
Col tuo silenzio musicale inondi
il mio muto ascoltarti, ove si plasma
il presentito brivido dei mondi
ch’esala dal tuo sangue, in un fantasma
cui già ti sei promessa,
più vera di te stessa.
Ti sei promessa al tuo diventar lui,
conscia appieno dell’impeto di guerra
che vorrai tuo, contro i reami bui
congiurati ad uccidere la terra
ove un dio, dopo morto,
vive con noi, risorto.
Con la 12 (estratto) vi è la piena indentificazione con il raggio finale di Sophia; qui si compie il passaggio dantesco: “ché la mia vista, venendo sincera,/ e più e più intrava per lo raggio/ de l’alta luce che da sé è vera”[6]:
…Il calor della terra in forma viva
d’un io, conscio via via del suo volere
articolare in suoni anime e sfere,
si muta in carità suscitativa
onde l’uomo diventi
uno, in tutti i viventi.
O fuoco della grazia onde sgorgammo
dai tuoi primordi, in angeli futuri,
tu vuoi, perché la forma in noi perduri
sopra la morte, arderci a grammo a grammo,
dal peso onde si muore,
in entità d’amore.
Poi la 22, ove “la luce che da te piove nel cavo” è potenza iterativa del farsi vaso-fiore colmo d’acqua vitale, non più vizzo nelle secche della Waste Land eliotiana:
La luce che da te piove nel cavo
di questa conoscente anima schiusa,
è libertà che innalza il cuor già schiavo
dalla tua prigionia di terra ottusa.
L’unità dei tuoi mondi, che ignoravo
nella mia sorda angoscia, è l’aurea musa
che diluvia una grazia, ond’io mi lavo
giorno per giorno d’ogni macchia infusa.
Basta ch’io t’apra l’intimo recesso
della mia volontà risuscitata
come il supremo fiore di me stesso,
e subito il tuo verbo che si spazia
nei cieli, versa a lei musica innata
di quel Me, ch’è lui stesso la tua Grazia.
La 49, centrale per i topoi classici di Onofri, è altra poesia che potrebbe esser presa a compendio, soprattutto per le ultime due terzine. Il poeta è come ebbro (richiama essere lui stesso “il girasole impazzito di luce” montaliano…Ma non come oggetto, non un “portami”…Lui-Girasole…).
Si presenta anche la figura della donna dantesca come cruciale, accanto alla cristicità del rinato: la Beatrix onofriana è il filtro d’intrinseca beatitudine tra i “mondi”. Il “punto indicibile di sole” con cui si coglie il pensiero vivente è anche il veicolo (non solo qui ma in tutto il Ciclo Lirico) con cui agisce la Sapienza Santa.
Qui c’è sempre il riconoscere sé soltanto nel processo di ri-nascita antroposofica:
Senza la carità del tuo soccorso
Onnipotente, il sangue si converte
In nera solitudine, in rimorso
Di non essere in sé che angoscia inerte.
Della tua fluida luce un solo sorso
Io n’ebbi dalle tue ferite aperte
E il lungo tempo che da allora è scorso,
La mia memoria quasi non l’avverte.
Il ritmo dei tuoi secoli s’è stretto
In un punto indicibile di sole
Fra la tenebra angusta del mio petto;
E in quella goccia d’oro, unica, vive
L’oceano immenso delle tue parole
Che ondeggiano di mondi senza rive.
La 35 si focalizza anche sul fuoco purificatore. Quello che brucia l’ego…Circolarità del primo aspetto iniziatico che realmente conta…:
La virtù consapevole del fuoco,
onde si vince in noi la frenesia
dell’amore di sé, splende soltanto
come carità cosmica, in un sacro
entusiasmo per le creature
singolarmente amate, poi che ognuna
è una forma dei cieli, impressa in terra.
L’infinita armonia dei tanti mondi
e degli eterni spiriti viventi
è qui, si muove in queste impersonate
anime apparse in uomini terrestri.
In ognuna è un messaggio unico, santo,
da conoscersi in lei perché sia verbo
(nella comunione della vita)
in un ordine umano, armonioso,
che fondi sulla terra il suo volersi
conoscenza, in ispirito d’amore,
unico, senza morte né misura.
Ma la paura di smarrir noi stessi
nell’amarci reciproco, ci ruba
la conoscenza unànime in comune
che in ciascuno arderebbe onnipotenza
propria, moltiplicando l’Uno immenso
tante volte per quanti uomini sono;
e il terrore di questa luce immensa
ci spezza in tanti popoli, nemici
l’un dell’altro, ci vincola ciascuno
alle catene d’una angusta fame.
Tu, potenza dell’Uomo, opera in noi
la virtù trinitaria del riscatto
nel fuoco della tua rinata gloria
dalla terra dei morti, ora tua Vita!
Nella 37(estratto) l’evento cristico diviene anche confidenziale:
le appari tu, che vuoi ch’ogni reato
si sciolga in nuova e portentosa luce
di te sgominatore
del buio onde si muore.
73 “Il suono del silenzio…” – La scaturigine avvertita in armonia occulta e ormai svelata sul trono del possibile:
Solamente nel suono del silenzio
che vibra quando ho spento ogni rumore,
trovo la forma in cui mi differenzio
dalla persona mia, che assidua muore.
In quel morire umano io mi potenzio
in un verbo che parla ultrasonore
analogie di luce a cui presenzio
da una terra che splende astro d’amore.
Mutano le parvenze in logorìo,
e mutando trapassano in un mondo
tutto ritmico impulso a farsi mio.
In quel suolo di musica, s’alterna
parlante il voler-noi, sommo e profondo,
ch’è un altro suolo, ma di terra eterna.
6) L’ultimo volume, il più breve, consta di trentatré poesie (gli altri sono intorno ed oltre alle 150 liriche cadauno…), trascritte dagli stessi taccuini in cui si sono ritrovate quelle di Aprirsi Fiore. Pubblicate a parte per interessamento di alcuni amici, soprattutto di Nicola Moscardelli, che firma anche l’introduzione. L’amico poeta sottolinea come Pascoli, Rimbaud e Mallarmé siano sempre gli aedi prediletti….E alle spalle, saldamente Dante, Michelangelo, Wagner. Moscardelli sottolinea un Onofri ascetico più che letterario. “Onofri non è mai stato un letterato” – e ciò suona come attestato di massima purezza. Non solo. Sempre con le parole di Moscardelli ad introdurre quest’ultima raccolta postuma[7]: “ Onofri risentì sulle labbra la freschezza dei ritmi primordiali della nostra lingua che cullarono il nostro spirito infante, e risentì intorno alla fronte lo spirito vigilante dei vati, dei poeti-profeti, dei costruttori di mondi, dei modellatori di anime, dei sondatori di abissi…”. Con Simili a melodie rapprese in mondo il ciclo dell’indiamento della zolla si compie, la cosmogonia gnostica termina come colpo di coda, rappreso.
La poesia sensuale e lunarmente enigmatica degli inizi torna in questo esempio:
L’arrogante innocenza delle rose
spicca sul tuo pallore-madreperla
rilisciato d’insonnie, arso dal mare
del nostro sangue argenteo, condiviso
dalle astruse lascivie della luna.
Il voler tuo, che scioglierebbe i nessi
plastici alle tue morbide giunture
secondanti il curvarsi dei pianeti,
si converte (addentrato nel tuo petto
melodioso) in abbandoni amici
al nostro desiderio d’esser teco,
simile al fuoco estivo delle rose
che d’irruenza spicca sul pallore
di madreperla, onde sei quasi inverno
vivo, nel maschio ardore dell’estate
che,argenteo mare, intorno ti ribolle.
Chiudiamo con un’altra lirica dal sesto movimento del Ciclo, un ennesimo manifesto. Il “sogno oceanico dei mondi” è la via conoscitiva che viene aperta schiudendo i sensi all’onirico e all’opera d’arte totale wagneriana, poiché “ogni arte poetica e poesia/ non è che interpretazione del sogno vero”[8]:
Le forme dell’attesa taciturna
che la terra alza al cielo in ferrei monti
sull’affannoso mescolìo del mare,
s’arrendono al crepuscolo d’argento,
nelle sonorità rosee dell’aria
che ne ricorda in fluidi increspamenti
le parole sognate nell’infanzia
del tempo, quando ardevano avvinghiate
aria, acqua, terra, nella fatua fiamma
d’un miscuglio sinfonico e raggiante,
ove già balenava, nascitura
dagli dèi, la statura della vita,
come un sogno oceanico dei mondi.
È stato necessario allargare questo intervento rispetto ai precedenti, per la vastità e la complessità del Ciclo Lirico. Ci auguriamo che ciò non sia d’impedimento, nel suscitare nuove curiosità su un poeta ancora colpevolmente eluso dai manuali e dagli esegeti della grande poesia italiana.
Questo è il punto che ci preme, per cogliere nel Ciclo Lirico quel “Canzoniere” ove si ascende platonicamente, quell’esercizio di mimesi del Verbo attraverso lo spartito orfico, in una severa rinuncia, in una distanza eroica da tutta la cultura d’ornamento salottiero della sua e della nostra epoca.
Note:
[1] Julius Evola, L’esperienza metafisica nella poesia di Arturo Onofri, AA.VV., Vallecchi, Firenze 1930
[2] Nell’introduzione al primo volume del Ciclo Lirico della Terrestrità del Sole
[3] Recensione a Terrestrità del Sole, in Bilychnis,agosto-settembre 1928
[4]Op.cit., p.155
[5] Frammento 525
[6] Paradiso, XXXIII, 52-54
[7] Per la Finestra editrice è uscita un’altra raccolta di inediti: Nel Tempio dei Mondi. Compresa nello stesso volume di Aprirsi Fiore – Simili a melodie rapprese in mondo, con ben ulteriori 154 Carmi.
[8] Sono le parole di Hans Sachs, il Meistersinger de “I maestri cantori di Norimberga” di Wagner
Stefano Eugenio Bona