Giordano Bruno, storia di un Adepto: l’attualità di un uomo senza tempo – Stefano Mayorca
Un rogo infame, che ha riempito di vergogna il mondo intero spargendo le spore malefiche e mefitiche di sopraffazioni immani e ingiustizie imperdonabili. Questo è stato il periodo nero dei fanatismi religiosi, ma più ancora della politica sotterranea rivestita del misticismo becero e ipocrita di chi voleva imporre, con la violenza, dogmi incontestabili frutto di un oscurantismo crescente. Un rogo che ha visto sacrificare inutilmente e impietosamente una vita, un pensiero, un illuminato che vedeva oltre, al di là di un orizzonte angusto e misero. Nessuna pietà. Non amore cristiano, ma fiamme divoratrici, riflesso sinistro del male celato nei sottili ingranaggi di una macchina assassina. La vittima un uomo geniale, precursore di teorie delle quali la chiesa stessa, in futuro, si sarebbe appropriata. Stiamo parlando di Giordano Bruno, il filosofo-iniziato. Per uno scherzo del destino apparteneva all’Ordine dei Domenicani, proprio coloro che avevano dato vita all’infernale Inquisizione, il famigerato tribunale di Dio, o del diavolo piuttosto? Filippo Bruno, questo il vero nome del sapiente, nacque nel vicereame di Napoli, nei pressi di Nola, nel mese di gennaio (qualcuno propende per febbraio) del 1548. Nel 1562 si trasferisce a Napoli per studiare e approfondire diverse materie tra cui logica e dialettica, sotto la guida esperta di Giovan Vincenzo Colle conosciuto come il Sarnese. In seguito viene istruito nello studio delle littere de umanità anche dal padre agostiniano Teofilo da Vairano. E’ in questo periodo che si delinea l’interesse per le tecniche relative alla mnemotecnica. Nel 1565 intraprende il noviziato nel convento napoletano di San Domenico Maggiore prendendo il nome di Giordano. L’anno seguente, nel 1566 quindi, viene sospettato per la prima volta di eresia. Al principio del 1572 viene ordinato sacerdote e dopo un breve periodo affronta gli studi di teologia che avranno fine nel 1575, anno in cui redige una dissertazione su la Summa contra Gentiles, di Tommaso d’Aquino. Nonostante il divieto dell’Ordine Domenicano legge e studia le opere erasmiane contravvenendo a una regola ufficiale. Nel 1576 lascia Napoli a causa di un processo per eresia intentato nei suoi riguardi e si trasferisce a Roma, nel convento di Santa Maria sopra Minerva. Il processo napoletano si fa serio, e Bruno è costretto ad abbandona Roma e a partire alla volta di Genova. Da quel momento il filosofo peregrina per tutta l’Italia e si reca a Savona, Torino, Venezia dove dà alle stampe un opuscolo ormai introvabile dal titolo Dé segni de tempi. Dopo la sosta a Venezia riparte per Padova, Brescia (città in cui si narra abbia guarito un indemoniato), Bergamo e Milano. Girerà anche l’Europa visitando la Francia e la Svizzera, dove a Ginevra intratterrà rapporti con l’ambiente riformato. E’ il 1581 quando dopo essersi recato a Lione e poi a Tolosa, ancora una volta, suo malgrado, è costretto a fuggire visti i forti contrasti religiosi sorti tra cattolici e ugonotti, proprio a Tolosa. A Parigi, nel 1582, stampa alcune sue opere.
Tra queste il De umbris idearum, con l’aggiunta dell’Ars memoriae, il Cantus circaeus, il Compendius, il De compendiosa architectura et complemento artis Lullii, e la commedia in italiano Il Candelaio. Nel 1583 va in Inghilterra su richiesta di Enrico III che lo raccomanda a Michel de Castelnau, ambasciatore francese a Londra, e qui tiene una serie di lezioni a Oxford su Copernico. Accusato di plagio viene allontanato dalla cattedra. Scrive l’Ars reminescendi, l’Esxplicatio tringinta sigillorum e il Sigillus sigillorum. Nel corso del soggiorno inglese Bruno compose i Dialoghi italiani; la Cena de le ceneri (1584); il De la causa, principio et uno. Dello stesso anno è il De infinito universo et mondi, mentre nel 1585 vede la luce la Cabala del cavallo pegaseo e il De gl’eroici furori. Un’opera dispersa è invece l’Arbor philosophorum. Questa, in sintesi, l’esperienza umana del grande genio prima degli eventi drammatici che lo condurranno al rogo. Molte altre peripezie si avvicenderanno nella sua tempestosa esistenza, ma noi ci fermiamo qui per affrontare, tra poco, aspetti meno conosciuti e riservati del percorso iniziatico del filosofo-ermetista.
L’attualità di Bruno è stata ben espressa in uno splendido spettacolo storico condotto dal giornalista Corrado Augias, al quale ho avuto il piacere di assistere all’interno dell’Auditorium del Parco della Musica, a Roma. Una rievocazione delle tappe fondamentali connesse con le vicende salienti che hanno portato il domenicano ribelle alla tristemente nota condanna a morte. La sua personalità, di elevato valore intellettuale e spirituale, e le sue doti umane sono state rese vive nell’ambito di tale rappresentazione che ha posto in rilievo le azioni criminose del clero. La cultura esoterica e classica di Bruno era sorprendente, e la sua conoscenza delle scienze ermetiche e del pitagorismo altrettanto notevole. Egli non era solo un filosofo legato alla compagine domenicana, ma qualcosa di più. Era il maggiore Sacerdote Egizio di quell’epoca, iniziato ai Misteri nilensi della Cumana sapienza. Di qui l’impossibilità di abiurare completamente le sue convinzioni, visto il giuramento che l’Adepto aveva siglato alla corrente iniziatica antichissima alla quale apparteneva. Nel suo De magia, si percepisce chiaramente la natura occulta e operativa delle sue conoscenze concernenti la simbolica geroglifica e a riguardo afferma:
“…Per indicare le singole cose, specifiche immagini ricavate dalle cose di natura o da parti di esse…, impiegate per parlare agli dèi onde operare meraviglie Quando Theut o un altro, inventò lettere del genere che oggi usiamo con impiego diverso, si attuò la massima dispersione, sia della memoria, sia della scienza divina e della magia. Perciò, imitando gli Egizi, oggi i Maghi, fabbricate immagini, descritti caratteri e cerimonie consistenti in specifici riti e gesti, esprimono il loro voto quasi con determinati cenni…E si tratta della lingua degli dèi…”.
Nello Spaccio della Bestia Trionfante allude alla pratica alchimica e alle trasmutazioni che ne derivano quando scrive:
“Due sono le spezie di numeri pare et impare, de le quali l’una è maschio, l’altra è femina. Due sono gli Cupidi: superiore e divino, inferiore e volgare…Doi son gli principi essenziali de le cose: la materia e la forma. Due le specifiche differenze della sustanza: raro e denso, semplice e misto. Doi primi contrarii et attivi principii il caldo et il freddo. Doi primi parenti de le cose naturali: il Sole e la Terra…”
. L’allusione al dualismo alchimico, insito nelle due forze solari e lunari, e alla Terra quale materia pesante da trasmutare è palese. E ancora: “…E quell’istesso che fu sempre perseverando l’uno principio materiale, che è vera sustanza de le cose, eterna, ingenerabile, incorruttibile. Conosce bene che dell’eterna sustanza incorporea niente si cangia, si forma o si difforma; ma sempre rimane pur quella, che non può essere soggetto de dissoluzione, come non è possibil che sia soggetto di composizione”.
In un altro punto spiega: “…Soccorre a tutto di dentro con il vital calore et umido radicale: onde tale ipostasi consista; e tal volto, figura e faccia appaia di fuori. Cossì si forma la stanza in tutte le cose dette animate, dal centro del core, o cosa proporzionale a quello: esplicando e figurando le membra; e quelle esplicate e figurate conservando. Cossì necessitato dal principio della dissoluzione, abandonando la sua architettura caggiona la ruina de l’edificio dissolvendo li contrarii elementi”. Tra le affermazioni di Bruno, una, correlata alla dottrina egizia, è esaustiva circa le profonde conoscenze del nolano: “…Quella croce che Hoggidì si tiene sopra l’altari è un carattere e segno scolpito sul petto della dea Iside…I Christiani l’avevano rubato dagl’antichi”.
In questo pensiero si ravvisa la questione relativa al fatto che la Chiesa aveva inglobato in sé simboli e chiavi occulte che appartenevano in realtà alla religione egizia e al Paganesimo, del quale sono stati occultati i riti. Riti poi officiati durante la liturgia cattolica. Uno dei capi d’accusa che furono utilizzati per la sua condanna a morte si basa su una teoria oggi largamente accettata. E cioè che la Terra non è il centro dell’Universo, ma che anche in altri sistemi solari può esistere la vita, senza per questo invalidare la concezione di un principio Creatore. L’astronomo del Vaticano recentemente ha esposto i medesimi concetti rubati a Giordano Bruno, ma non per questo è stato arso vivo. La beffa è che il fine filosofo non è stato riabilitato e ai nostri giorni viene ritenuto ancora un eretico. A noi non interessano le fazioni politiche, tuttavia va rilevato che quando Pio XI, nel periodo relativo ai famosi Patti Lateranensi (11 febbraio 1929), chiese a Benito Mussolini di rimuovere la statua commemorativa che ritraeva Giordano Bruno, collocata in Campo dei Fiori a Roma, il Duce si rifiutò di compiere un’azione tanto esecrabile. Le affermazioni che Mussolini formulò durante il discorso che tenne alla Camera dei Deputati il 13 maggio 1929 circa l’incresciosa vicenda sono esaustive:
“… Non v’è dubbio che, dopo il Concordato del Laterano, non tutte le voci che si sono levate nel campo cattolico erano intonate. Taluni hanno cominciato a fare il processo al Risorgimento; altri ha trovato che la statua di Giordano Bruno a Roma è quasi offensiva. Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno malinconica come il destino di questo frate, resterà dove è…”.
Una decisione assennata, visto che quella scultura è il simbolo della libertà, della morte per mano del clero. E’ fondamentale non dimenticare l’opera di questo personaggio a torto finito nell’oblio. Quella mattina del 1600, quando alle prime luci dell’alba fu condotto al patibolo, gli fu chiusa la bocca con un marchingegno studiato per non farlo urlare e fu denudato e legato al palo. Si concretava in quel momento uno dei crimini più efferati della cosiddetta Santa inquisizione. Senza ritrattare, circondato da avvoltoi incappucciati (i confortatori), che gli mostravano scene di martirio tratti dalle vite dei Santi, Giordano Bruno concludeva il suo ciclo terreno. Nonostante la sua fine, le idee luminose di un vero Adepto rischiarano tuttora le impervie Vie della Sapienza.
Stefano Mayorca