La Fenice e la resurrezione ermetica – Luigi Angelino
La frase “come la fenice risorge dalle proprie ceneri” è ormai entrata nel linguaggio popolare ed adattata a molteplici situazioni diverse fra loro, assumendo un significando metaforico e perdendo, nel contempo, il suo significato primigenio. Proviamo a ripercorrere brevemente l’origine del mito, per arrivare a focalizzare la nostra attenzione sui relativi significati simbolici ed esoterici. Come è noto, la fenice o “uccello di fuoco” è quella creatura che si trova in numerose culture antiche, alla quale si attribuiscono le straordinarie capacità di riuscire a controllare il fuoco e di risorgere dalle proprie ceneri dopo il decesso, perpetuando un ciclo continuo di morte e di resurrezione. Nell’antico Egitto, l’essere mitologico, associato successivamente alla Fenice, era chiamato Bennu, raffigurato di frequente con la corona di Atef oppure adornato dall’emblema del disco solare. L’aspetto di Bennu era molto simile ad un passero o ad un airone, che risorgeva dalle acque e non dal fuoco. A similitudine dell’airone che, quando spicca il volo, sembra imitare l’innalzamento del sole dall’acqua, la Fenice fu proprio associata al nostro astro, rappresentando la parte spirituale del dio del sole Ra, l’anima (il bà). Nella simbologia egizia, pertanto, la Fenice presiedeva al giubileo reale, assumendo il significato del sole che sorge e tramonta. Ma, essendo indicata come “colei che risorge per prima”, finì col comprendere in sé anche la simbologia del pianeta Venere che, proprio per questo, era chiamato la “stella della nave del Bennu-Asar” e menzionato come “stella del mattino” nelle invocazioni religiose.
Nella mitologia greca al misterioso uccello, di cui cambiò anche l’iconografia, fu dato il nome di Fenice, diventando una sorta di aquila reale arricchita da colori splendidi come il rosso, l’oro, l’azzurro e la porpora, con lunghe piume che gli scendevano dal capo verso la coda, formata da altre tre lunghe piume, una azzurra, una rossa e l’altra rosa (1). Pochi esegeti ormai si chiedono se il mito della “Fenice” possa derivare da una creatura realmente esistita, preferendo concentrare la propria attenzione sui significati semantici e simbolici. Non sono mancati, tuttavia, coloro che, rimarcando il concetto che ogni mito contiene in sé almeno un piccolo nucleo di verità, hanno creduto di individuare nella “Fenice” il riferimento ad un uccello realmente esistito in epoca antica nelle regioni dominate dall’impero assiro. In più, è stato osservato il fenomeno scientifico secondo il quale alcune specie di volatili sbatterebbero le ali sul fuoco, allo scopo di allontanare i parassiti. In epoca ellenistica e romana la “Fenice” fu identificata con una serie di volatili: il fagiano dorato, l’airone rosso, l’airone cenerino, l’ibis ed il pavone, sebbene su quest’ultimo animale sia fiorita progressivamente una letteratura a sé stante, sviluppatasi soprattutto in età cristiana. In tale contesto, è stato osservato come gli antichi sacerdoti egizi celebrassero rituali al ritorno del primo airone cenerino che si posava sopra al salice sacro di Eliopoli (2), ritenendo l’evento di buon augurio per la salute e la prosperità della popolazione. Il ritorno della Fenice era visto come l’inizio di un periodo di fertilità incarnando, nella religiosità egizia, la manifestazione di Osiride risorto e raffigurato, per questo motivo, mentre siede sul salice, albero sacro a questa divinità. Nel mito della creazione, la Fenice sarebbe stata la prima forma di vita apparsa sulla collina primordiale, a sua volta originata dal “grande caos acquatico”. La Fenice era sempre la stessa (semper eadem) e sempre un esemplare maschio che conduceva la propria esistenza presso una piccola sorgente d’acqua fresca, situata in un’oasi del deserto d’Arabia (da qui l’appellativo alternativo di “araba fenice”), in una località nascosta e praticamente introvabile dall’uomo (3). Una tradizione poetica racconta che la creatura, mentre si immergeva nell’acqua, intonava un canto così sublime che il dio sole fermava la sua barca per fermarsi ad ascoltare tale melodia. Nella versione ellenica del racconto, il sole arrestava “il suo carro” all’udire il soave canto. La religiosità egizia voleva che Bennu, di tanto in tanto, visitasse Eliopoli, la città sacra al sole, posandosi sulla pietra “ben-ben”, una sorta di obelisco totemico collocato all’interno del santuario principale della città.
Nella cultura ebraica che, per ovvi motivi storici e geografici, assimilò numerosi elementi dell’evolutissima civiltà egizia, la Fenice era chiamata Hachol o Milcham (4). Al di là del discutibile e controverso valore religioso, molto suggestiva è la leggenda secondo la quale soltanto il Milcham resistette all’invito di Eva, rivolto a tutti gli animali del giardino dell’Eden, di condividere con lei il pasto del frutto proibito. Tutti gli altri animali cedettero alla tentazione, perdendo l’immortalità e la purezza, mentre il Milcham si impose per la sua integrità e capacità di resilienza. Per questa dimostrazione di integrità morale, Dio avrebbe ricompensato la creatura, collocandola in una città fortificata, dove avrebbe potuto prosperare per un periodo di mille anni, alla fine del quale l’uccello sarebbe stato bruciato e poi risorto da una larva a forma di uovo. E’ evidente la somiglianza con il racconto egizio: la città fortificata rievoca Eliopoli ed il ciclo temporale è semplicemente raddoppiato.
Dal punto di vista storico, uno dei primi riferimenti alla Fenice risale ad Erodoto che parla di questo uccello che apparirebbe ogni 500 anni, secondo la credenza tramandata dai sacerdoti egizi di Eliopoli. La Fenice risorgerebbe dalle ceneri, dopo la morte del suo genitore, che poi sarebbe da identificarsi con essa stessa, o con la precedente versione di sé stessa. L’uccello, dopo aver vissuto 500 anni, si ritirava in un luogo nascosto, costruendo un nido di uovo in cima ad una quercia o ad una palma, dove si adagiava, lasciando che i raggi del solo la incendiassero. La morte accompagnava l’uccello tra i profumi della cannella e della mirra, poi dalle ceneri emergeva una larva a forma di uovo che, nell’arco di tre giorni, si trasformava in una nuova Fenice. Erodoto, ovviamente, si preoccupa di sottolineare come il racconto sia di natura fantastica e, pertanto, poco credibile. Ovidio, nelle incomparabili “Metamorfosi”, fornisce un versione più “ellenistica” del mito del magnifico volatile, cambiando l’ultima fase del viaggio della nuova Fenice che trasporterebbe il nido nel tempio di Iperione (5), il Titano padre del dio Sole. Il romano Tacito rende ancora più suggestiva la narrazione, mediante un’immagine poetica: la nuova Fenice innalzerebbe il corpo del genitore defunto fino a farlo bruciare sull’altare del dio Sole, in una sorta di rituale di carattere ciclico-generazionale. Nell’antica Roma, la Fenice assunse anche un valore politico e sociale, diventando l’emblema della forza dell’impero. Per questo, si ritrova la sua immagine incisa su alcune monete imperiali e dipinta sui mosaici di importanti edifici pubblici o privati. Naturalmente, in ambiente cristiano, il percorso di morte e di resurrezione della Fenice venne interpretato come espressione emblematica del cammino di salvezza dell’uomo, compiutosi mediante il sacrificio di Gesù Cristo.
Nel Fisiologo (6), opera considerata tra i più antichi “bestiari” della cristianità medievale, si procedette a riassumere il racconto classico della Fenice, riducendolo ad una delle ennesime manifestazioni visibili del Salvatore. Una menzione al mitico uccello non poteva mancare nella “Commedia” dantesca. Il divino poeta nell’Inferno, in pochi versi, ci offre uno splendido compendio del mito millenario: “che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa, erba né biada in suo vita non pasce, ma sol d’incenso lacrima e d’amomo, e nardo e mirra son l’ultime fasce” (7). In epoca tardo medievale ed, ancora di più, in quella umanista-rinascimentale, nell’ambito della riscoperta e della rivisitazione dei miti classici, la Fenice diventa un simbolo importante e significativo di ogni processo di rinascita spirituale, indicando il compimento del processo chiamato di “trasmutazione alchemica”, che implicava una forma di rigenerazione dell’uomo. Non a caso gli Alchimisti chiamavano con l’appellativo di “fenice” la pietra filosofale.
Nella maggior parte delle culture del mondo vi sono uccelli mitologici che presentano evidenti similitudini con la fenice, come in quella ebraica, azteca, sumera, inca, slava e, soprattutto nella mitologia orientale. In particolare, in Cina, la Fenice, chiamata Feng, è una delle creature magiche che guida le sorti del Paese, proteggendone la parte meridionale. Feng incarnava il potere e la prosperità, appartenendo in maniera esclusiva all’imperatore ed alla sua consorte che erano gli unici a potersi fregiare del suo simbolo. Presentando un’iconografia molto simile a quella egizia, nell’antica Cina Feng racchiudeva in sé le forze primordiali dei Cieli, venendo spesso raffigurato con la testa e la cresta del fagiano, ma con la coda del pavone. Una particolarità dell’uccello mitologico cinese era che, in numerose rappresentazioni, comprendeva attributi di altri animali sacri: ad esempio la fronte della gru, il collo del serpente, il guscio di una tartaruga, la coda di un pesce o perfino le squame di un drago (8). Il Feng è spesso dipinto con una sfera di fuoco che richiama il sole, portando nel becco due pergamene, o in alcune varianti, una scatola quadrata in cui si conservavano i testi sacri. A differenza del Bennu egizio, il Feng può essere sia di sesso maschile che femminile ed anche vivere in coppia felicemente. Di carattere cosmologico è l’Ho-ho giapponese, chiamato anche Karura, immaginato come una possente aquila con piume dorate capaci di sprigionare fuoco e gemme magiche che ne adornano il becco, la cui funzione principale è quella di annunciare il sopraggiungere di un nuovo ciclo temporale. Il Garuda della cultura induista e buddista ha, invece, un importante significato epico e didascalico, incarnando uno dei supremi veggenti “d’infinita coscienza” , impegnato in una strenua lotta contro i Naga, la famiglia dei serpenti e dei draghi. Per la ricchezza e la complessità dei suoi significati, una trattazione a parte meriterebbe Quetzacoatl (9), il dio uccello o serpente piumato dell’America Centrale, venerato dai Maya e dagli Aztechi insediati nello Yucatan, nell’attuale Messico che, secondo la leggenda, aveva l’eccezionale capacità di morire e di risorgere, introducendo ogni volta una nuova era. Nella tradizione dei nativi americani, troviamo la figura di Wakonda, il volatile associato al fenomeno atmosferico del tuono, venerato soprattutto dal popolo Dakota. Per l’etnia Sioux, al mitico uccello sarebbe associato un “grande potere superiore”, dispensando saggezza al popolo ed illuminazione durante le visioni dello sciamano.
Alla narrazione emblematica dell’uccello che risorge dalle proprie ceneri, è strettamente collegato anche il simbolo dell’uovo, come elemento cosmogonico primordiale. Nelle raffigurazioni classiche, di frequente Dioniso era immaginato con un uovo fra le mani. E anche nella tradizione della festa di Ostara (Easter) (10), trasfigurata nella Pasqua cristiana, vi è l’usanza di regalare uova, per festeggiare il ciclo naturale che ricomincia con la stagione primaverile. A prescindere dalle differenziazioni culturali, non vi è dubbio che la simbologia della Fenice, legata all’immortalità, in quanto sempre capace di rigenerarsi, si perde nella notte dei tempi, come del resto la maggior parte dei grandi archetipi presenti nell’inconscio collettivo della storia dell’umanità. Il mito dell’immortalità e, di conseguenza, quello della rinascita, tuttavia, non deve essere inteso in senso lineare, ovvero come la vita eterna sempre associata allo stesso soggetto, ma nell’accezione “circolare”, ossia come legato al cambiamento ed al rinnovamento della persona che periodicamente “rinasce”. In tale contesto, è possibile affermare che la Fenice si riferisca alle qualità divine dell’uomo che dovrebbe vivere la propria ciclicità come una possibilità di evolversi, per il raggiungimento di una consapevolezza sempre più profonda e matura. Nell’esoterismo ermetico, l’acrostico I.N.R.I (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum) è da intendersi come “Igne Natura Renovatur Integra”, esprimendo cioè l’idea che attraverso il fuoco la natura riesce a rinnovarsi integralmente.
Seguendo lo stesso filone alchimico, la croce non è altro che una raffigurazione plastica dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco). E’ necessario, a tale proposito, evidenziare come l’evangelista che ci offre più dettagli sull’acrostico I.N.R.I. sia proprio il redattore della tradizione giovannea, considerata la più esoterica ed iniziatica tra quelle originate dagli insegnamenti di Gesù di Nazareth (11). Il redattore del quarto vangelo, attribuito in maniera pseudo-epigrafica all’apostolo Giovanni, si preoccupa anche di universalizzare il messaggio, sottolineando come l’iscrizione sulla croce fosse stata incisa in tre idiomi diversi: l’ebraico (la lingua dei padri e della tradizione giudaica), il latino (la lingua dell’impero), il greco (la lingua degli intellettuali e “coinè”- comune- ai popoli del Mediterraneo). L’immagine del fuoco che divora, ma che nello stesso tempo rigenera, è stata sviluppata dalla simbologia esoterica, mediante la contrapposizione tra il concetto di Caos, di frequente raffigurato come Drago o Basilisco e la stessa Fenice, portatrice di armonia e di stabilità. Il processo di iniziazione è descritto nel rapporto con il pregresso principio, ovvero con l’evento, soltanto in apparenza traumatico, della morte del padre che, in ambito alchemico, si intuisce chiaramente anche nei riferimenti ai due Re, o ai due Leoni, il giovane e il vecchio (il verde ed il rosso). E’ innegabile che tale ciclo di evoluzione presenti significativi punti in comune con il conflitto interiore di matrice edipica, culminante in un difficile processo di rinnovamento psichico e biologico.
Nel suo libro “Simboli della trasformazione” (12), Carl Gustav Jung si occupa del legame tra l’essere umano e l’immagine della Fenice, designandola come un archetipo comune dove la straordinaria capacità di vincere la morte implica il significato più profondo della possibilità di rinascere dopo un’esperienza di fallimento. In buona sostanza, si può ragionevolmente affermare che il simbolo della Fenice ben incarna sia l’evoluzione dell’umanità nel suo complesso, sia del singolo soggetto che ha bisogno di un continuo rinnovamento per purificarsi dai rigidi schemi che potrebbero intrappolare la sua spiritualità e per spiccare il volo verso la scintilla divina da cui proviene.
Note:
1 – Cfr. Francesco Zambon ed Alessandro Grossato, Il mito della fenice in Oriente e in Occidente, Marsilio Editori, Venezia 2004;
Eliopoli, oltre all’importante funzione religiosa, rivestiva un significativo ruolo politico-amministrativo, come capitale del 13° distretto del Basso Egitto;
2 – Attualmente è inglobata tra i sobborghi della capitale Il Cairo;
3 – L’immagine dell’oasi nascosta richiama il mito del giardino dell’eden;
4 – Il simbolo del milcham si riscontra anche nell’Antico Testamento biblico (Giobbe 38,36);
5 – Prima di essere personificato, il termine Iperione era un appellativo riferito al sole, traducibile letteralmente con l’espressione “che si muove al di sopra”;
6 – La maggior parte degli studiosi ritiene che il libro sia stato redatto ad Alessandria d’Egitto, in ambiente gnostico, intorno al II/III secolo d.C., e poi diffuso successivamente in Occidente;
7 – Cfr. Inferno Canto XXIV, 106-111;
8 – Cfr. Mario Bussagli, Miti d’Oriente, Editore Rusconi, Milano 2021;
9 – Il nome, traducibile letteralmente con l’espressione “serpente piumato”, è in lingua azteca. I Maya lo chiamavano Kukulcan;
10 – La festa di Ostara è di origine germanica e veniva celebrata nel giorno dell’equinozio di primavera; ad essa in epoca medievale è stata sovrapposta la festa di Pasqua della tradizione giudaico-cristiana che cade nella domenica successiva al primo novilunio di primavera;
11 – Il periodo storico della redazione del testo giovanneo, scritto in greco come gli altri tre vangeli canonici (Marco, Matteo e Luca) chiamati sinottici, è individuato dagli studiosi tra il 90 ed il 110 d.C.. Il contenuto presenta profonde influenze della cultura ellenistica, come il famos “incipit”: in principio era il Verbo (logos), e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio;
12 – Nel suo volume, Simboli della trasformazione, pubblicato nel 1912, Jung comincerà a prendere le distanze da alcune concezioni freudiane.
Luigi Angelino,
nato a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense ed un master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Con la Cavinato editore international ha pubblicato nel 2017 il romanzo “Le tenebre dell’anima”, nel 2018 la sua versione inglese “The darkness of the soul” e la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”. Nel 2019 ha pubblicato un thriller filosofico-teologico, “La redenzione di Satana I-Apocatastasi” ed una raccolta di saggi/racconti, “Ritratti Mortali” insieme ad una coautrice. Nel 2020 ha pubblicato “L’arazzo dell’apocalisse di Angers” e “Pandemia-il mondo sta cambiando”, nonché il racconto dedicato a sua madre “Anna”; nello stesso anno ha collaborato, con altri autori, al libro auralcrave sulle vicende che hanno ispirato famose pellicole cinematografiche “Il sipario strappato” e all’elaborazione della raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa”. Nei primi mesi del 2021 ha pubblicato con Cavinato “Nel braccio di Orione”, un viaggio attraverso il sistema solare, “La redenzione di Satana II-Apostasia” e “La ricerca del divino” con la CTL di Livorno. Nello stesso anno è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.