Julius Evola: ‘Cavalcare la tigre’ nel Dada come Arte Ultima – Vitaldo Conte
Termino la premessa del mio libro Arte Ultima (2016), che comprende un capitolo su Julius Evola e il Dada in Italia, scrivendo: “Le ricerche sinestetiche dell’Arte Ultima cancellano le linee di demarcazione tra evento, espressione e realtà, per fluire “oltre ogni genere” prestabilito e unico. Queste creazioni concepiscono, con i loro linguaggi che “dialogano”, la propria opera d’arte totale, che può divenire anche ambientazione di esistenza, ritualità espressiva che ricerca il suo oltre”[1].
Cavalcare la tigre come riflessione, attraversando Evola “maestro segreto” del ‘68
Ricorro al titolo di Cavalcare la tigre (1961)[2], il libro di Julius Evola, a sessanta anni dall’uscita, per usarlo ancora oggi come metafora di lettura e azione: nei confronti del pensiero, dell’opposizione (individuale e collettiva), della creazione. Può indicare ancora il come porsi verso questi territori: con lo staccarsi aristocraticamente dalle apparenze “senza spessore” del mondo circostante (pur non entrando necessariamente nella passività o rinuncia) o, viceversa, con l’affrontarle in un qualche modo, ricorrendo a un possibile intervento. Il detto (estremo orientale) – Cavalcare la tigre – continua a riguardare l’essere che non sente appartenenza profonda, né vincoli interiori, con il mondo circostante. Può divenire “un manuale di autodifesa personale” per chi ritiene di vivere in un’epoca di dissoluzione: ieri come oggi. Cavalcare la tigre può rappresentare l’esistenza con i suoi diversi aspetti: come quelli della contestazione a un sistema. L’influenza sotterranea di questo libro fu più vasta delle apparenze. A colloquio con Evola è il titolo di un’anonima intervista (1964). Evola così risponde a una domanda su Cavalcare la tigre e sulle sue possibili influenze, come quelle di favorire l’assenteismo o la rinuncia di ogni azione positiva verso il mondo: «Non nego che il libro accennato non ha potuto non trarre le conclusioni da un bilancio negativo (…). Se qualcuno ha parlato del libro come un manuale dell’anarchico di Destra, ciò, in certa misura, colpisce il segno. Ha sconcertato il mio affermare che oggi non esiste nessun sistema politico, nessun rilevante schieramento o partito pel quale valga la pena impegnarsi sino in fondo: che tutto l’esistente va negato. Ma questa negazione e questo non-impegno non derivano dal non avere dei principi, ma proprio dall’averne; precisi, saldi e non suscettibili di compromessi. Né questa è la sola differenza rispetto al nichilismo o all’anarchismo degli “arrabbiati”, della generazione più o meno bruciata, beats, hipsters e simili, il cui “no” non parte da nulla di positivo. Nella vita di oggi può essere opportuno, per molti, retrocedere per stabilirsi fermamente su di una linea più interna di trincee, affinché ciò su cui non si può più nulla, nulla possa su di noi»[3].
Cavalcare la tigre, che ha avuto varie edizioni, si diffuse «fra gli studenti di sinistra e destra dopo il ’68 francese», come ricorda Vanni Scheiwiller (primo editore del libro). Viva Evola compare sui muri di diverse università italiane (Genova, Napoli, Catania). I movimenti studenteschi di contestazione europea – dei maggio ’68 / ‘69 e delle successive opposizioni – trovano in lui un imprevedibile anticipatore di antagonismi “a tutto campo”. Marcello Veneziani analizza la lettura di questo libro in un articolo (2011): «Cavalcare la tigre fu il ’68 della destra colta e radicale, la trasgressione nel nome della tradizione. (…) Nelle mani dei giovani radicali di destra Cavalcare la tigre diventò un libro pericoloso. (…) perché diventò un nobile alibi per scelte anarco-individualiste, per esperienze trasgressive e alienanti e per la fuga dalla politica. Fu la via d’accesso per entrare da destra nel dionisismo di massa che poi esplose nel ’68. (…) Chi cercò invece di restare nell’ambito della milizia politica, vide Cavalcare la tigre come un fiume di confine per tentare una sintesi tra il radicalismo rivoluzionario di destra e quello di sinistra, o anarco-comunista»[4].
Cavalcare la tigre nel Dada come Arte Ultima
Le vicende e i transiti molto personali – fra Futurismo e Dada – costituiscono un aspetto rilevante della complessa e versatile personalità di Julius Evola. L’autore, in questi passaggi di avanguardia, inizia a formulare un procedimento-percorso di pensiero, attraversando immagini-parole di arte e poesia. Si confronta con il nichilismo e i limiti della ragione, che lo spingono verso la negazione radicale del mondo e dei valori esistenti: fino al punto-zero del Dadaismo. Evola, con gli scritti e la pittura, “guarda” le contraddizioni dada fino a estreme e imprevedibili conseguenze. Ne condivide la radicale essenza nichilista, oppositiva a ogni valore acquisito dell’arte e della morale: la contraddizione, l’assurdo, il non-senso diventano posizione di pensiero “tradotto” in immagini e parole. La sua paradossalità è anche quella di aderire al Dadaismo (che rifiuta la formulazione di linguaggi stabiliti), per poi teorizzarne una possibile estetica: come nel testo Arte Astratta del 1920. Similarmente esprime opere con un intrinseco equilibrio e valore artistico, contrariamente alle intenzioni di questo movimento. Le immagini, che Evola affida alla sua pittura e poesia, non possiedono solo una comunicazione sinestetica: risultano anche segnaletiche di un concetto. Queste accompagnano, in maniera sotterranea, il suo procedimento di pensiero, che sottintende simultaneamente quello esoterico e magico-alchemico. L’esperienza pittorica e poetica di Evola nel movimento dada, pur breve nella temporalità, risulta intensa, anche negli aspetti intellettuali, presenti e illuminanti nella stessa pratica. Come lo è il suo lasciare il pensiero-immagine della pittura e poesia per dedicarsi alla filosofia, con il suo intervenire nella creazione e con la sua indifferenza per il creare o non. Questo suo transito nella creazione suscita riflessioni, in quanto precede e anticipa il suo successivo percorso di pensiero. Evola, anche nei suoi attraversamenti di creazione, rimane sempre un pensatore, che “trascende” la propria espressione in una immagine-parola.
Evola, ritornando successivamente sul Dadaismo, lo definisce un limite. In esso l’arte, nel suo valore religioso e, in generale come spontanea espressione in forma universale, realizza la propria negazione. Gli appare come l’approdo estremo dell’arte modernissima – cioè astratta – limite insuperabile del nichilismo artistico, non intravedendo nell’ambito della forma, dopo Dada, una possibilità di sviluppo. L’autore arriva agli anni Sessanta con le loro tensioni (politiche, artistiche) e le ipoteche ideologiche. Indica, però, l’esaurimento dei linguaggi delle avanguardie storiche con l’assoluta improbabilità di una loro rinnovabile presenza: «In realtà, i movimenti a cui mi interessai ebbero un valore non tanto in quanto arte, ma appunto come segno e manifestazione di uno stato d’animo del genere, quindi per la loro dimensione meta-artistica e perfino antiartistica»[5].
Evola, abbandonando l’attività artistica e letteraria, conferma la sua estraneità sulla rivista ‘Bleu’ (1921): «Siamo fuori (…) abbiamo esaurite … tutte le esperienze, spremute … tutte le passioni (…). Non è pessimismo: si tratta di aver veduto (…) io, sono al di fuori»[6]. Non rinnega la parentesi artistica, successivamente alla sua conclusione, ma considera impersonalmente il suo autore scomparso. Ci ritorna, sporadicamente a distanza di tempo, con articoli e considerazioni, ma anche, negli anni 1960-70, attraverso “copie” di ciò che aveva già dipinto. Il ricopiare un proprio quadro, realizzato in passato, risulta un sintomatico e ulteriore atto di estraniamento d’identità. Trovo una testimonianza di Arte Ultima, da parte di Evola, proprio su Cavalcare la tigre: «Del resto da una considerazione oggettiva dei processi in corso, si ha il senso netto che l’arte non abbia più un avvenire, che essa si trovi respinta in una posizione sempre più marginale rispetto all’esistenza, il suo valore riducendosi proprio a quello di un genere voluttuario»[7]. Quello stato dell’arte che Evola denuncia nel proprio tempo, oggi, dopo decenni di sua ghettizzazione, ricerca le sue opere di pensiero-arte, magari da lui disperse. Le ricerca proprio come oggetti voluttuari di mercato, enfatizzandone il lavoro e paragoni. Ciò può favorire anche l’affiorare di opere dubbie, in quanto Evola ha una produzione artistica limitata. Il suo Cavalcare la tigre è ancora oggi, forse ancora di più, una possibile indicazione di Arte Ultima.
Il pensiero nichilista di Evola in Dada come riflessione di Arte Ultima[8]
Il “transito dada” di Evola suscita riflessioni, in quanto è difficile separarlo dal suo successivo percorso filosofico. Il movimento dada risulta un’estremità dell’avanguardia, protesa a “recidere” l’arte contemporanea con innocente crudeltà (come, per altri versi, lo è stato il Futurismo), distruggendo miti del passato e presente, per confrontarsi con la sua crisi, i suoi sistemi e la società: «Possedere, non essere posseduto». Il Dadaismo comprende il «bluff dell’arte moderna» e l’illusione della ricerca del nuovo. Qui l’arte trova, «finalmente e per la prima volta», la sua risposta e soluzione spirituale. L’espressione attraversa «ritmi illogici ed arbitrari di linee, colori, suoni e segni che sono unicamente segno della libertà interiore e del profondo egoismo raggiunto»[9]. Evola, ne Il cammino del cinabro, termina il testo dedicato al suo transito dadaista, scrivendo: «Non scrissi poesie né dipinsi più dopo la fine del 1921»[10]. Nello stesso capitolo risultano significative le affermazioni di Tristan Tzara che egli stralcia: «Che ognuno gridi: vi è un gran lavoro distruttivo, negativo, da compiere. Spazzar via, ripulire. La purezza dell’individuo si afferma dopo uno stato di follia, di follia aggressiva e completa, di un mondo lasciato fra le mani di banditi che si lacerano e distruggono i secoli. Senza scopo né disegno, senza organizzazione, la follia indomabile, la decomposizione»[11]. Il pensiero di Evola, negli anni dell’adesione al Dadaismo, è influenzato dall’anarchismo di Max Stirner, anche se sfrondato «da ogni ridondanza polemica e politica» (Roberto Melchionda). Il suo “nichilismo creativo” diviene stile di vita, oltrepassante la ragione e i valori sotterranei dell’atto espressivo. È sensibile all’idea dell’Io come ultima e unica possibilità di espressione, fino alla proclamazione che il nuovo creatore deve “porsi nel nulla” attraverso una “libertà attiva”: «La libertà, la proprietà, è un momento mistico d’illuminazione: una grazia: e, appena pensata, appena pronunciata, essa è già cosa morta, cade scorza sporca ed estranea nella terra dei bruti e dei mercanti»[12]. La significativa radicalità dada esprime la conclusione delle istanze più profonde che alimentano i movimenti d’avanguardia. Può costituire, con la sua proposta di azzeramento, il linguaggio ultimo ed estremo dell’avanguardia novecentesca, proprio con l’esprimere una creazione oltre ogni canone assegnato alle sue forme: non solo dalla tradizione ma anche dalle “rotture” indicate dalle avanguardie storiche. La lettura di Evola può esprimere, ancora di più oggi, un pensiero di Arte Ultima.
Julius Evola – Emilio Villa: avanguardia poesia nel Dada e oltre
Un possibile rapporto, nel nome del Dada, è quello fra Julius Evola (1898-1974) ed Emilio Villa (1914-2003) nella poesia italiana, anche come espressione di avanguardia permanente. Il primo è il principale esponente del Dadaismo italiano. Il secondo è una rilevane presenza che può essere inquadrata nel Neo-Dada. Una buona parte della loro “vita ultima” è vissuta a Roma. La storia poetica di Evola s’incentra negli anni giovanili, quella di Villa si estende per tutta la vita. I due autori – rileva Giovanni Tuzet – possono essere considerati «i soli dadaisti nella poesia italiana. (…) segnalare le somiglianze fra i due non è privo di interesse, se può aggiungere un tassello alla storia delle avanguardie italiane»[13]. Diverse sono le “somiglianze” fra i due autori. Che rappresentano uno spaccato importante della storia-erranza dell’avanguardia letteraria italiana, esprimendo innovazioni e sconfinamenti della parola. Ritengo che i possibili collegamenti fra di loro siano diversi, oltre a riconoscersi nella matrice dada: c’è per esempio comune l’attraversamento del Futurismo. Un punto di contatto, in ambito poetico, è la visionarietà linguistica, ricercante estreme assonanze, anche attraverso le valenze plurilinguistiche (come l’uso della lingua francese). Un’altra significativa convergenza è rintracciabile nel trasferimento del pensiero teorico nello stesso testo poetico. Presento la loro opera-documentazione in Eros Parola d’Arte, titolo di una ampia esposizione che curo sul tema a Lecce (Biblioteca Provinciale ‘N. Bernardini’), nel 2010. La loro parola diviene eros attraverso il corpo della poesia e dell’arte, che sottintende quello del pensiero. Villa è presente con le sue carte-desiderio e con le allusive sfere liquide di parola. Il libro di Evola sulla Metafisica del sesso (1958) diviene riferimento per i suoi nudi di donna.
Le loro influenze, “clandestine” per diverso tempo, sono poi, un po’ alla volta, accettate. Oggi sono celebrate spesso da epigoni con discutibili auto-accostamenti. Scrive al riguardo Giovanni Tuzet: «Credo, per concludere, che il peggior modo di rendere omaggio ai libertari sia quello di consacrarli, di imitarne i modi e le forme, di volerli applicare fuori contesto, di seguirne la lettera anziché lo spirito. Il miglior modo di seguirli, paradossalmente, è tradirli»[14]. Questo spaccato di poesia-arte di avanguardia permanente, in nome del Dada, aspetta una completa rilettura delle sue peculiarità e influenze. Julius Evola ed Emilio Villa risultano comunque presenze contagiose.
[1] Vitaldo Conte, Arte Ultima, Avanguardia 21 Edizioni, Roma 2016, p. 7.
[2] Julius Evola, Cavalcare la tigre, Vanni Sheiwiller – All’insegna del pesce d’oro, Milano 1961; Edizioni Mediterranee, Roma 1995.
[3] A colloquio con Evola, intervista anonima, Ordine Nuovo, Roma gennaio-febbraio 1964, pp. 8-13. Su Julius Evola, Cavalcare la tigre, cit., pp. 207-212.
[4] Marcello Veneziani, Evola spinse la destra a “cavalcare la tigre”, Il Giornale, Milano 4 novembre 1961.
[5] Julius Evola, Prefazione a La parole obscure du paysage intérieur, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1963; Quaderni di testi evoliani n. 27, Roma 1992, pp. 7-8.
[6] Julius Evola, Note per gli amici, Bleu n. 3, Mantova 1921.
[7] Julius Evola, Cavalcare la tigre, cit., p. 137.
[8] Vitaldo Conte, La parola sconfinante di Evola in Dada, in AA.VV., Studi evoliani 2020, Fondazione Julius Evola / Edizioni Ritter, Milano 2021.
[9] Julius Evola, Arte Astratta, Collection Dada, P. Maglione e G. Strini, Roma 1920; Quaderni di testi evoliani n. 3, Roma 1992, p. 13.
[10] Julius Evola, Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano 1963; Edizioni Mediterranee, Roma 2014, p. 28.
[11] Tristan Tzara, ivi, p. 23.
[12] Julius Evola, Arte Astratta, cit., p. 6.
[13] Giovanni Tuzet, I soli dadaisti in Italia, Atelier n. 45, Borgomanero (NO) marzo 2007, p. 78.
[14] Ivi, p. 82.
Vitaldo Conte