Nel Viaggio: esistenze borderline di anima-pensiero (1) – Vitaldo Conte
…come un Cavalcare la tigre
«Vetta e abisso, tutto ciò è ormai racchiuso in uno! Tu percorri il tuo cammino della grandezza: ciò che prima era il tuo ultimo percorso ora è diventato il tuo estremo rifugio!» (Friedrich Nietzsche)[1]
In un momento di post-postmodernità, come l’attuale, ogni lettura del comportamento umano può essere guardata attraverso “passaggi”. Come nel viaggio di esistenze borderline di anima-pensiero. Testi, memorie e citazioni possono rivelare un percorso del fuori confine. Questo diviene richiamo seducente per l’incontro con un oltre, forse attingendo alle nostre possibilità di esseri transeunti. Così potremo divenire anche consapevoli “viaggiatori del nulla”, incarnando la frase finale de L’Unico, il libro di Max Stirner: «Io ho riposto la mia causa nel nulla»[2]. Il viaggio può esprimere un pellegrinaggio, la ricerca di una purificazione o una prova per rivelare la forza interiore di chi cammina, attraversando mondi e culture. Ma può essere anche espressione di avventura e sfida: fino a voler oltrepassare i confini del visibile per conoscere i segreti della vita. Il viaggiatore dell’anima ricerca una suprema libertà di azione: per questo appare talvolta in eroi o in mistici, protesi verso percorsi estremi.
Il viaggio può essere anche una creazione o un percorso-pensiero che diviene processo di auto-guarigione e consapevolezza. Ricerca il divino in noi: così lo sciamano esplora foreste e deserti, montagne e luoghi iniziatici per leggere i segreti dell’anima. Lo sciamano è un maestro del volo magico e del percorso iniziatico, attraverso cui diviene creatore di linguaggi e medico-guaritore di corpi-anime. L’essere creatore, come dice Nietzsche, non è un viaggiatore ma un viandante che ignora la meta. Si aggira smarrito, con le sue espressioni, lasciandosi trasportare dal caso. Il suo continuo interrogarsi – sulla natura stessa del movimento – diviene necessità di vita incontrollata: «Debbo dunque sempre essere in cammino? Preso in ogni vortice di vento, senza posare mai, spinto eternamente di qua e di là? O terra, tu stai diventando troppo rotonda per me!» (Friedrich Nietzsche)[3].
- Il viaggio come anomalia dell’essere creativo
Un’anomalia dell’essere creativo è spesso “incarnata” dal vagabondaggio: fisico, interiore, esistenziale. Questo essere, sollecitato da un’intima inquietudine, è tentato di vagare da un luogo all’altro, da un amore a un altro, da un linguaggio a un altro, procedendo spesso “errante” per tutta la vita. Il vagabondaggio “a tutto campo” rappresenta, per lui, una esigenza di evasione, ricercata talvolta in maniera ossessiva. Il desiderio perenne di libertà può divenire però una integrazione delle varie componenti del sé, magari attraverso una scrittura autobiografica. Bruce Chatwin scrive: «Psichiatri, politici e tiranni continuano ad assicurarci che la vita nomade è un comportamento anormale; una nevrosi; una forma di desiderio sessuale inappagato; una malattia che, per il bene della civiltà, deve essere debellata. (…) Gli orientali, però, mantengono vivo un concetto un tempo universale: che la vita errabonda ristabilisce l’armonia originaria che esisteva una volta fra l’umano e l’universo»[4].
Chatwin è il prototipo e l’essenza del nomadismo creativo in tutti i suoi aspetti e significati: dichiara infatti di voler essere un nomade, fino alla fine dei suoi giorni. Costruisce la sua fama e il suo mito di viaggiatore dell’anima attraverso la propria esistenza, che è intesa come un continuo viaggio senza tappe stabilite. Pur compiacendosi di esprimere le proprie evasioni, «non lasciava mai scivolare la maschera per mostrare l’angoscia che lo spingeva al suo moto perpetuo e che, restando a casa, gli provocava il blocco dello scrittore» (R. Newbury). Per Chatwin l’arte dell’erranza tende a essere portatile, discordante, inquieta, incorporea e intuitiva: solo chi viaggia può conoscere la felicità. L’essere creativo può lasciarsi guidare dal caso e dai moventi della propria anomalia, con cui esprime la propria erranza, anche interiore. Questa risulta continuamente instabile a causa delle emozioni impreviste del momento. Il camminatore ha, come scrive il poeta indiano Tagore, la sua maledizione nel dover lasciare sempre tutto e di non possedere nulla. Il suo mondo è continuamente disperso, lontano dalla propria casa e origine. È proteso però verso un assoluto o un segreto dalla significazione sfuggente, che viene “de-scritta” attraverso frammenti di realtà diverse. Il dolore, in diversi autori maledetti, è la molla inventiva per il proprio errare: linguistico ed esistenziale. La follia d’indipendenza, come la definisce Céline, attraversa i palpiti del delirio con una lucida follia. L’autore si maledice nella propria vocazione luciferina di erranza, rinunciando volutamente a ogni possibilità di salvezza. Vuole percorrere da solo il tormentato Viaggio al termine della notte, titolo del famoso libro di Louis-Ferdinand Céline (1932). Che scrive: «La verità della vita è la morte. Mi sento bene soltanto in presenza del nulla, del vuoto»[5]. Gli inferni della propria storia diventano una “narrazione” che vuole arginare gli incubi interiori attraverso il “viaggio parlato” del testo.
- Il viaggio dell’anima come follia e meditazione
Un viaggiatore dell’anima è anche un “traghettatore” della follia, oltre che di se stesso e delle realtà: per questo ricorre talvolta all’aiuto di una maschera di protezione. Questo essere è indotto a delirare in un continuo vagare senza tregua. Chi si abbandona al viaggio, come anomalia, può divenire un “nomade del vento”. Come lo sono gli erranti del deserto, sempre pronti a muoversi verso i percorsi indicati dal soffio della natura. Similarmente chi scopre il feticcio sacro, guardandolo, vuole votarsi anch’esso alla dispersione errante della follia, in senso materiale e interiore. Ciò significa anche non avere più un luogo dove stabilirsi, né avere un gruppo a cui appartenere: «Costretti all’erranza e alla marginalità, passando di esilio in esilio senza mai riuscire a integrarsi pienamente con gli altri, durante i viaggi trascinano al proprio seguito, senza mai abbandonarlo, quel vecchio xoanon che li rende folli gettandoli nel panico» (Jean Pierre Vernant)[6]. L’erranza diviene però anche un processo di autoguarigione, oltre che essere un modo per pregare e meditare. La meditazione come viaggio trasforma gli esseri in Vagabondi del Dharma: come gli ultimi sufi erranti, sciamani di Allah, fedeli al Corano ma ribelli a ogni dogma. Questi praticano la peregrinazione nei deserti senza confini, camminando in modo da svuotare la propria mente per perdersi nel dio. I sadhu indiani, ritiratisi nelle foreste o erranti intorno ai monti sacri, insegnano ai loro discepoli che non c’è felicità per l’uomo che non viaggia. L’essere, che sa suonare e danzare con il proprio corpo, viaggia nel mondo con la leggerezza dell’uomo dalle “suole di vento” (come Verlaine definisce l’erranza di Rimbaud). Il cammino stesso diviene, per lui, pensiero e meditazione, in cui disperde la propria origine per ritrovarla “purificata”. Piedi e gambe hanno sempre “sorretto” i sogni e i deliri dell’essere visionario e folle. Questo vuole entrare, “spogliatosi” della mente, negli spazi altri per raggiungere i luoghi della libertà immaginata.
Ogni viaggio è una porta per altri viaggi. Il fine del viaggio, come arte e meditazione, è il viaggio stesso: la meta è il viaggiatore e il suo perdersi. Nessuno può suggerire la meta, in quanto la meta è in ognuno di noi. Come dice il maestro spirituale indiano Osho Rajneesch la vita non è un viaggio, né ha una meta, ma un processo, in quanto «Una volta che conosci il cammino, sai che è dentro di te»[7]. Il viaggiatore dell’anima è colui che non cerca risposte ma pone nuovi interrogativi: come Ulisse, Lord Byron, Chatwin, ecc. L’erranza diviene così una metamorfosi continua, una specie di morte, da cui si torna diversi da prima. La mistica dell’erranza interiore è presente nell’inquietudine di Siddharta, il protagonista dell’omonimo romanzo di Hermann Hesse, che cerca di vivere interamente la propria esistenza, percorrendo esperienze diverse. «Questo è il motivo per cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un’altra e migliore dottrina, poiché lo so, che non ve n’è alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta o morire (…). Non vado in nessun posto. Sono soltanto in cammino. Vado errando» (H. Hesse)[8]. Il vero camminatore attraversa le tenebre, pur sapendo cosa sia la luce: è una specie di santo e di folle viandante che ricerca un’essenza. «Ho dovuto essere un pazzo, per sentire di nuovo in me l’Atman. Ho dovuto peccare per poter rivivere. Dove può ancora condurmi il mio cammino? (…) Oh, quanto bene mi fa quest’essere fuggito, quest’essere ridiventato libero!» (H. Hesse)[9]. L’ultimo viaggio visibile è quello di “entrare” nell’acqua, principio di vita, con l’estrema essenza di sé (attraverso la propria cenere o vibrazione): si ricompone così in un armonico fluire senza mete prestabilite. Il viaggio è dunque vita, creazione naturale, verso una estrema “linea di confine”: sfuggente come quella dell’orizzonte.
- Il viaggio come creazione borderline
«Non so perché sto viaggiando. Non so dove vado (..). Viaggio per sapere perché sono invisibile. Sto cercando il segreto della visibilità.» (Ben Okri)[10]
Il viaggio diviene per l’essere creatore: arte, poesia, labirinto, danza, la molteplice maschera, oltrepassando le dimensioni e le lingue rassicuranti. La follia può essere una compagna ispiratrice del percorso. L’invisibile e il vibrazionale esprimono messaggi per i sensi e per l’anima, non certamente per la mente: l’assenza stessa produce seduzione. Il viaggiatore invisibile pratica il silenzio come forma suprema di comunicazione, ignorando il motivo del proprio viaggiare. Così può entrare nei segreti e nelle trasformazioni della propria visibilità.
«La vita è stato selvaggio. Quel che è più vivo è più selvaggio e quello che non è ancora soggetto all’uomo lo rinvigorisce (…). Praticando l’arte del viaggio diventeremo “econauti”, poi “psiconauti” e alla fine “entronauti”, esploratori del Grande Mistero (…). Poi, nel futuro, a cybernauti e econauti rispunteranno le ali» (Italo Bertolasi)[11].
L’artista errante si avventura nei mondi sempre più impalpabili dell’ombra e della luce, del demoniaco e dell’estatico, per trovare, nel percorso stesso, la comprensione del già conosciuto. Può emozionarsi per la scoperta imprevista, l’esplorazione inconsapevole di un mistero. L’incognita tende ad affinare le potenzialità di ricezione e ascolto, ma anche l’irrequietezza verso gli “stati non-vitali”. Il viaggio, senza mete prestabilite dalla mente, è compiuto accettando gli itinerari e gli imprevisti che s’incontrano: diviene così creazione continua che rianima il piacere della libertà selvaggia. Tutto il corpo può divenire arto e vibrazione danzante nell’incontro con le lingue della creazione. L’energia del viaggio è come quella del sogno: non può essere “delimitata” dalla rigidità dei concetti e dei limiti formali, ma può essere vissuta e respirata con tutti i sensi. Chi attraversa terre ricerca talvolta le chiavi e le alchimie per aprire gli invisibili congegni dei segreti: quelli interiori e quelli esterni. Entrambi costituiscono lo “specchio” del nostro sguardo errante. Il passato e gli archetipi “occultati” possono ri-vivere nelle tappe del viaggio e nelle sue seduzioni. Ulisse vuole ascoltare il canto delle Sirene, nel suo viaggio-Odissea di conoscenza, perché sa che questo possiede la malia pericolosa, a cui lui “sfugge” con l’astuzia.
«Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, (…)
ferma la nave, la nostra voce a sentire.
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,
se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce;
poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.» (Omero, Odissea)[12]
Il viaggio esprime anche una lingua borderline di seduzione creativa. Che trova “nuovi segnali” sul filo del confine stesso, in cui può esserci l’irresistibile attrazione per l’abisso. L’attraversamento della linea di confine può, a un certo punto, “sbarrarsi” (un vuoto mentale, un’eclissi visiva, un bianco improvviso): è barrage, come un satori zen.
- Il viaggio-anarchia della Cultura Beat, attraversando la lettura di Evola
A partire dagli anni Cinquanta appare un nuovo genere di viaggiatore, rappresentato da una generazione che fa del viaggio stesso il fine, senza porsi altre mete o limiti che non siano quelli dell’immaginazione o di una esistenza “più autentica”. Nell’erranza della Beat Generation è presente “la mistica del viaggio” con il suo lungo pellegrinare On the road (Sulla strada), il libro di Jack Kerouac[13]. Questo è da considerare il vangelo dei giovani beat con la ricerca «disperata di un nuovo valore morale, di una nuova ragione del mondo, di una nuova spiegazione della vita» (F. Pivano). La Cultura Beat, pur non proponendosi come una filosofia né un movimento politico, vuole essere un vagabondaggio del pensiero-anima. Reagisce alla massificazione e al materialismo della vita moderna percorrendo un diverso viaggio esistenziale. Con questo intende riempire il proprio svuotamento con qualcosa di spirituale, anche praticando la sregolatezza senza però degradarsi (collegandosi così al misticismo orientale). Kerouac, il massimo esponente della Beat Generation, alla domanda di un giornalista su cosa cercasse nella sua erranza, risponde: «Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto». Il suo viaggio interiore e letterario è abbandonato a se stesso dal mondo culturale americano. Il vagabondaggio, attraverso le strade degli Stati Uniti, è ricorrente nella letteratura beat: diviene una opposizione alla società sedentaria piccolo-borghese. L’erranza di Kerouac può avere delle relazioni con l’immagine dell’anarchico di destra. Questa figura è attraversata dal pensiero di Julius Evola nel libro L’arco e la clava (1968)[14], in cui presenta un saggio di estrema attualità: quello appunto su La gioventù, i beats e gli anarchici di destra. Nel testo ne esplicita la differenza: «L’anarchico di destra sa quel che vuole, ha una base per dire “no”»; per il beat, viceversa, «può valere la definizione di “ribelle senza una bandiera” o “senza una causa”». Il libro “diffonde” Evola fra i giovani, anche fra quelli armati di chitarra e sacco a pelo in viaggio per il mondo in autostop, anticipandone bisogni di contaminazione e di andare oltre le ideologie storiche. Evola nel ’68 viene visto come “una specie di maestro segreto”.
Lo scrittore Jack Kerouac accoglie comunque nel suo viaggiare i richiami ancestrali della terra, per opporsi alle forze della loro disgregazione “normalizzante” da parte della società. Il suo viaggiare può costituire, anch’esso, un Cavalcare la tigre: come avviene nel libro di Julius Evola[15]. Uso questo titolo come metafora concettuale nella lettura di un viaggio: ondeggiante fra arte, pensiero, esistenza (individuale e collettiva). Il detto (estremo orientale) Cavalcare la tigre continua a riguardare infatti l’essere che non sente appartenenza profonda, né vincoli interiori, con il mondo circostante. Il suo possibile viaggio può divenire, ancora oggi, “un manuale di autodifesa personale”, se praticato con l’anima-pensiero: nei confronti dell’anima-pensiero, del sociale, della creazione.
Note:
[1] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883-85), Longanesi & C, 1972; Adelphi, 1977.
[2] Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà (1844), Ellegi, 1977; Adelphi, 1999; Bompiani, 2018.
[3] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit.
[4] Bruce Chatwin, Le vie dei canti (The Songlines, 1987), Adelphi, 1988, p. 239.
[5] Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte (1932), Corbaccio, 1933.
[6] Jean Pierre Vernant, Figure, Idoli, Maschere, Il Saggiatore, 2018.
[7] Osho Rajneesch, Le più belle frasi di Osho. Quelle vere, Bompiani, 2016.
[8] Hermann Hesse, Siddharta (1922), Adelphi, 1975, p. 69.
[9] Ibidem.
[10] Ben Okri, Io sono invisibile (Astonishing the Goods, 1995), Bompiani, 1996.
[11] Italo Bertolasi, L’arte del viaggio, Re Nudo n. 7, 1997, pp. 25-28.
[12] Omero, Odissea (VI secolo a.C.), Oscar Mondadori, 1968, p. 205.
[13] Jack Kerouac, On the road (Sulla strada, 1957), Oscar Mondadori, 1967.
[14] Julius Evola, L’arco e la clava, Vanni Scheiwiller, 1968, pp. 211-212.
[15] Julius Evola, Cavalcare la tigre, Vanni Scheiwiller, 1961.
Vitaldo Conte