Mnemosine: “pensiero rimemorante” e conflitto interiore – Daniele Perra
A cavallo tra il II ed il III secolo d. C., Giulia Domna, moglie dell’Imperatore Lucio Settimio Severo e donna ambiziosa e dalla forte personalità, commissionò un’opera agiografica sul filosofo pitagorico Apollonio di Tiana allo scrittore di Lemno Lucio Flavio Filostrato. L’intenzione dell’“Imperatrice filosofa” era quella di rendersi “portatrice di un consapevole programma politico e religioso la cui tendenza assolutistica di stampo orientalizzante pretendeva di venire sanzionata dal monoteismo solare che, fedele alle sue origini etniche e famigliari, Giulia mirava a diffondere” [1]. Questa, infatti, figlia di un sacerdote della divinità solare siriaca el-Gabal ed originaria della città di Emesa (l’odierna Homs), rifletté sul problema dell’unità spirituale dell’Impero diviso tra pratiche e credenze religiose differenti e, alla pari di Giuliano dopo di lei, giunse alla conclusione che fosse necessaria una teologia che legittimasse e sacralizzasse nuovamente lo spazio imperiale di Roma dopo che l’iniziale coincidenza tra diritto, politica e religione era andata lentamente ad affievolirsi. Tale progetto si rifaceva all’idea di Impero ecumenico di Alessandro Magno ed individuava nel “Sole” il simbolo di una potenziale convergenza delle coscienze giovandosi ampiamente dei sincretismi che spingevano differenti culti a riconoscersi nella divinità dell’astro. In questo senso, la figura di Apollonio assumeva un ruolo di contrapposizione alla figura del Cristo. Ad Apollonio, infatti, venivano attribuiti miracoli ed esorcismi e la sua biografia veniva considerata come una sorta di Vangelo pagano. Tanto che, come riporta Claudio Mutti, secondo Eunapio di Sardi, la Vita di Apollonio di Tiana avrebbe dovuto riportare il titolo più adeguato di “Visita di un Dio tra gli uomini”. Il programma di riforma religiosa di Giulia Domna, di fatto, assunse rapidamente i connotati dell’enoteismo: ovvero, della convinzione sostanziale dell’unicità del divino (e del primato dell’Essere Supremo) pur nella molteplicità infinita delle denominazioni e delle sue manifestazioni. In una lettera dello stesso Apollonio a Valerio Asiatico Saturnino si legge:
“Non c’è nessuna morte, di niente, se non unicamente in apparenza, proprio come non c’è la nascita di niente se non unicamente in apparenza. Il passaggio da essenza a natura sembra una nascita ed allo stesso modo il passaggio da natura ad essenza sembra una morte. In realtà nulla nasce e nulla mai muore; solo un essere è visibile e un altro poi è invisibile, uno per via della densità della materia, l’altro per via della sottigliezza dell’essenza, la quale è sempre la stessa e si differenzia col movimento e con la quiete. Questa è necessariamente, in qualche modo, la sua caratteristica propria, poiché il cambiamento non proviene da qualche luogo esterno, ma avviene quando l’intero si trasforma nelle sue parti e quando le parti ritornano all’intero per via dell’unità del tutto […] Perché allora l’errore rimane inconfutato per tanto tempo? Alcuni pensano di essere loro stessi gli autori di ciò di cui hanno fatto esperienza, senza sapere che chi è stato generato lo è stato tramite i genitori, non dai genitori, proprio come ciò che nasce tramite la terra non nasce dalla terra, e senza sapere che nessuno degli esseri che appaiono si rapporta ad una realtà individuale, ma ciascuna realtà si rapporta all’Uno. Quale altro nome si potrebbe dare a questo Uno, se non quello di Essenza Prima? Soltanto essa agisce e subisce, diventando tutte le cose per tutti gli esseri per mezzo di tutti gli esseri: una divinità eterna, alla quale nomi ed apparenze esteriori tolgono la sua singolarità recandole ingiustizia”[2].
In questo passaggio si ritrovano alcuni dei fondamenti comuni a tutte le Tradizioni: l’idea di unità nella molteplicità (ovvero, l’idea che l’Uno si manifesta in forme differenti); la procedenza dall’invisibile, il passaggio al visibile ed il ritorno all’invisibile. Si legge nella Bhagavad Gita (il poema epico-religioso dell’India):
“Chi pensa di uccidere e chi pensa di essere ucciso sono entrambi in errore poiché non esiste né uccisore né ucciso. Chi è venuto all’esistenza mai cesserà d’essere poiché non v’è chi nasce, né chi muore. L’Essere è non nato, eterno, non generato, immutabile e non viene ucciso quando il corpo muore” [3].
A questo proposito lo studioso Mario Polia afferma:
“Chi non conosce da dove l’uomo venga e dove vada, dell’intero percorso potrà percepire solo l’attimo fugace del passaggio nello spazio e nel tempo racchiuso tra due grossolane constatazioni: ‘è nato / è morto’” [4].
Il rapporto tra l’esperimento romano e la Tradizione dell’India è di particolare rilievo e verrà abbondantemente indagato in corso d’opera. Ora, è bene riportare che nella medesima lettera, Apollonio fa un’altra importante affermazione alla quale possono essere attribuiti dei connotati sia politici che più propriamente intellettuali:
“La verità è che tu non devi addolorarti per la morte, ma la devi onorare e venerare. L’onore è bellissimo e confacente se, dopo aver abbandonato a Dio chi è andato presso di Lui, adesso governi gli uomini che ti sono stati affidati nel modo in cui li governavi prima. Sarebbe brutto se tu diventassi migliore col passare del tempo e non grazie al ragionamento, dato che il tempo guarisce dal dolore anche i malvagi. Un governo conveniente è una cosa di somma importanza; il miglior governante è colui che governa se stesso prima di governare gli altri” [5].
Il concetto di saper “governare se stessi” in questo caso è fondamentale. Ma come si diventa capaci di “governare se stessi”? Apollonio, a questo proposito, scrive:
“Se uno frequenta un maestro pitagorico, quali e quante cose riceverà da lui? Io direi: l’arte del legislatore, la geometria, l’astronomia, l’aritmetica, la musica, la medicina, una divina e completa scienza divinatoria, nonché le cose più belle come grandezza d’animo, generosità, perfetto equilibrio religioso, silenzio, conoscenza degli dèi, scienza dei demoni, amicizia con gli uni e con gli altri, autosufficienza, perseveranza, frugalità, riduzione dei bisogni, facilità di respirazione, bel colorito, buona salute, coraggio, immortalità” [6].
Il saper governare se stessi, dunque, è il prodotto di un lento e complesso processo interiore che assume, in tutte le Tradizioni, le sembianze di un vero e proprio conflitto. Le similitudini tra la dottrina pitagorica professata da Apollonio e la Tradizione dell’India, in questo caso, si fanno più evidenti. Non bisogna dimenticare, infatti, che tanto a Pitagora quanto ad Apollonio sono attribuiti viaggi in India ed il confronto intellettuale con i sapienti di quella regione. A ciò si aggiunga che è proprio attraverso la Siria (patria di Giulia Domna) che nell’Antichità si diffusero le dottrine dell’Oriente. E non sorprende che, ancora oggi, due importanti sette islamiche nate nella Siria storica (quella drusa e quella alauita) professino delle dottrine esoteriche largamente influenzate da elementi induisti: in primo luogo, l’idea della trasmigrazione delle anime (metempsicosi).
Ora, per meglio comprendere cosa rappresenti per l’etica tradizionale l’idea di conflitto interiore sarà utile fare riferimento alla già citata Bhagavad Gita ed ai poemi omerici: opere nelle quali si ritrovano i postulati centrali della cultura indoeuropea e dell’idea della realizzazione spirituale attraverso l’azione e la contemplazione. Queste opere, seppur realizzate in luoghi geograficamente distanti all’interno del continente eurasiatico, rappresentano la più perfetta espressione dell’“età degli eroi”: quel breve intermezzo tra l’età del bronzo e quella della ferro che, per quanto glorioso, non ha saputo porre un freno all’inevitabile processo di decadenza dell’umanità. Tanto nell’Iliade e nell’Odissea quanto nella Bhagavad Gita (il cantico del Signore, o del Beato) si ritrova l’idea che il divino è sempre disposto ad assistere l’eroe di fronte al compimento della sua impresa. Atena frena l’ira di Achille di fronte all’ingiusto comportamento di Agamennone. La stessa figlia prediletta di Zeus assiste Ulisse nello scontro finale contro i Proci, espressione della dismisura e della bramosia di potere e ricchezza. Krishna, manifestazione divina dell’Essere supremo, assiste Arjuna nella Dharma Yudda (guerra giusta) contro i Kaurava, anch’essi colpevoli di essere accecati dal desiderio materiale del profitto.
Dai Kaurava prende il nome il campo di battaglia nel quale si svolgono gli eventi della Bhagavad Gita: il Kurukshetra. Qui risulta fondamentale il termine kshetra che indica il campo di battaglia sia sul piano fisico che su quello metafisico. Tutta l’opera è incentrata sul dialogo tra Krishna e Arjuna e sulla tensione ascetica che sorregge e vivifica l’azione di quest’ultimo trasformandola in una vera e propria via dello Spirito. Arjuna, con l’aiuto della divinità, mette in discussione le proprie certezze, domina le proprie passioni e debolezze, e rinuncia all’orgoglio ed alla superbia determinate dalla speranza di un tornaconto personale. Così, l’azione priva di interessi personali ed offerta solo ed esclusivamente alla divinità diventa veicolo di unione (yoga) con l’Assoluto. Arjuna, a differenza del suo avversario Duryodhana (espressione della personalità titanica), sceglie la via della fede. Ma tale scelta impone in primo luogo una lotta per la liberazione dalla tirannia dell’io. La preparazione a questa lotta (interiore prima che esteriore) non può prescindere dall’educazione religiosa. Nel sistema castale indiano, l’educazione religiosa era fondamentale per il guerriero (Kshatria). Questa rendeva l’uomo d’azione pronto a percorrere un viaggio interiore che gli conferiva il titolo di “rinato” o “iniziato”. Il solo coraggio, infatti, non era (e non è) sufficiente a rendere l’azione eticamente corretta.
A questo proposito, nel XX secolo ed in ambito islamico sciita, l’Imam Khomeini parlò di “risveglio” (yaqzah) come primo passo di un viaggio spirituale da compiersi all’interno dell’anima umana. Questo “viaggio”, per il padre della Rivoluzione Islamica dell’Iran, era da interpretarsi come una lotta. Una lotta che dovrebbe portare l’uomo a scacciare dal proprio cuore non l’amore per il mondo (creazione divina), ma l’amore per il proprio io [7]. Egoismo e divinità non possono coesistere. E la meditazione deve sempre e necessariamente precedere l’azione affinché questa assuma valore spirituale e non sia mera agitazione (caratteristica che la Tradizione ellenica attribuiva alle personalità titaniche). Meditazione e azione sono complementari. La perfezione (l’unione con l’Assoluto) non può essere raggiunta rinunciando all’azione. La rinuncia al mondo non garantisce l’unione di per sé. L’unione tra pensiero e azione, incanalate in modo corretto) è necessaria perché nessun essere umano, nemmeno per un solo istante, può rinunciare all’attività intellettuale o all’azione. Anche quando si è fermi, ad esempio, il corpo umano rimane in movimento. Ed anche l’azione più elementare richiede un processo intellettuale che la precede. Il nemico è in primo luogo il proprio io. E lottare contro se stessi, ma a favore di se stessi, è la più grande di tutte le battaglie (il gihad maggiore della Tradizione islamica). Anche il mito fondativo di Roma può essere interpretato in questo senso. Romolo e Remo coesistono nella natura umana. La loro lotta è una metafora del conflitto interiore che può condurre o alla vittoria del principio luminoso (a dischiudere quel divino, latente nell’umana natura, che necessita di una ricerca approfondita per essere messo in condizione di agire), o la vittoria del lato oscuro (della dismisura, delle passioni e degli istinti più bassi della stessa natura umana).
Dunque, se il campo di battaglia è situato all’interno della corazza, a nulla serve vincere i nemici “esteriori” in battaglia. Senza liberarsi dalla tirannia dell’io, non ci si può liberare dalla tirannia dell’ingiustizia sul piano puramente materiale e mondano. Si è scritto in precedenza che al guerriero “devoto” viene attribuito il titolo di “rinato”, “iniziato”, “risvegliato”. Egli accetta la morte come possibilità insita nella sua scelta: percorrere la via dell’azione. Santificando l’azione con la meditazione, vanifica il potere della morte e, ricongiungendosi all’Assoluto, giunge all’immortalità. Spezza le catene del samsara (del divenire). A questo punto si rende utile un breve approfondimento sulla dottrina della metempsicosi. È bene ricordare che l’idea della trasmigrazione delle anime risulta assente nei Veda. Questa compare la prima volta nelle Upanishad ed è riferita solo al sé individuale (jivatman – anima) e mai allo Spirito (atman – essere) che per sua natura partecipa all’Assoluto e non è mai coinvolto nelle vicende che interessano il mondo materiale. Lo Spirito, infatti, liberato dai vincoli e dalle limitazioni della componente terrena e materiale di ogni persona non è mai soggetto a movimento o trasmigrazione. Al contrario, l’anima, vincolata alla leggi che presiedono la realtà manifestata, avendo bisogno di un supporto, migra da una sede all’altra: entra, esce e rientra nel ciclo dell’esistenza procurandosi mente, corpo e, dunque, nuova vita. Scrive Mario Polia a questo proposito:
“Il grado di conoscenza, vale a dire la coscienza della natura trascendente della persona, propizia la possibilità di pervenire alla liberazione (moksha) e alla partecipazione all’Assoluto, oppure determina la permanenza nella condizione di jivatman (soggetta a nascita e morte) e pertanto alla necessità di un supporto materiale” [8].
La metempsicosi si riferisce così ad una forma di trasmigrazione del tutto incosciente dell’anima. Platone nel mito di Er espone una dottrina della trasmigrazione delle anime che ha non poche similitudini con quella propriamente indù. Nella mitologia greca, inoltre, ha una particolare rilevanza il destino dell’uomo nell’oltretomba. Il termine Ade (Aides) indica un luogo dove non si vede. Il similare termine sanscrito avidya indica anch’esso ignoranza e cecità. Si resta prigionieri dell’Ade dopo aver bevuto da Lethe (il fiume della dimenticanza che cancella il ricordo della divina latenza nel supporto del corpo umano). In questo caso, rimanere nell’oblio indica una condizione in cui si è incatenati nel divenire. Al contrario, l’iniziato che giunge nell’aldilà beve dalla fonte di Mnemosine. Questa è la fonte del ricordo. Parafrasando Martin Heidegger, questa è la fonte del pensiero che rimemora il vero. Ed il “pensiero rimemorante” è il pensiero autentico dell’uomo. Il percorso verso questa fonte viene equiparato dal filosofo tedesco ad una “navigazione” in acque pericolose che, in quanto tale, è sempre un conflitto [9]. In questo senso, l’intera Odissea, racconto di un viaggio in mare (espressione della materia) verso la propria Patria (il ricongiungimento con l’Assoluto dopo un conflitto interiore ed esteriore) può essere interpretata in senso iniziatico.
In conclusione, si rende necessaria una breve digressione sul destino dell’eroe in questo mondo. Egli, come è già stato anticipato, accettando di cadere in battaglia nel compimento del proprio dovere, vive nella memoria (diviene esso stesso fonte della memoria e del pensiero rimemorante) ed ispira le azioni dei suoi compatrioti. Il suo sepolcro diviene il cuore del suo popolo ed il cuore della sua Patria. Il mantenere e salvaguardare l’Essere del pensiero rimemorante culmina e si fonda nell’Essere stesso. É una re-istituzione del dominio dell’Essere in quel luogo (la Patria) in cui ogni cuore vibra in quanto sito dell’apparizione degli dèi di un determinato popolo storico. A questo proposito scriveva, ancora una volta, Martin Heidegger:
“Patria è la cerchia storicamente protetta e proteggente, infiammante i cuori e liberante le potenzialità a cui l’uomo appartiene e obbedisce nel senso essenziale dell’udire che presta ascolto a ciò che lo reclama. Il luogo di nascita e il territorio del Paese natio sono il focolare della patria solo se sono – e nella misura in cui sono – attraversati e dominati dall’essenza della patria libera e autentica. Solo allora la patria può dispensare quei doni che l’uomo odierno riconosce e custodisce scarsamente, raramente e troppo tardi” [10].
Note:
[1] Apollonio di Tiana, Epistole (a cura di Claudio Mutti), Edizioni di Ar, Padova 2021, p. 22.
[2] Ibidem, lettera 58.
[3] Bhagavad Gita, Cap. II, 16-21.
[4] M. Polia, L’etica del guerriero. La via dell’azione nella Bhagavad Gita, Cinabro Edizioni, Roma 2019, p. 71.
[5] Epistole, op. cit., lettera 58.
[6] Ibidem, lettera 52.
[7] Si veda R. Khomeini, La più grande lotta. Per liberarsi dalla prigione dell’ego e ascendere verso Dio, Irfan Edizioni, Roma 2008.
[8] L’etica del guerriero, op. cit., p. 62.
[9] M. Heidegger, Hölderlin. Viaggi in Grecia, Bompiani, Milano 2012, p. 55.
[10] M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Bologna 2009, p. 55.
Daniele Perra