La filosofia dell’arte di Evola – Giovanni Sessa
Evola ha sempre attribuito al suo impegno artistico grande rilevanza. Lo dimostra quanto scrisse nella introduzione all’edizione del poema, La parole obscure du paysage intérieur, realizzata da Vanni Scheiwiller nel 1963, in cui sottolineò come tra il momento tradizionale del proprio percorso e quello avanguardistico, non ci fosse alcuna contraddizione. Come ha, con acume, notato Francesco Tedeschi: «nel suo modo di concepire l’idea e la possibilità dell’arte “modernissima”, Evola ha coerentemente sviluppato delle premesse che restano valide nella sua riflessione successiva»[1]. Gli scritti estetici di Evola possono essere distinti in due diversi gruppi: il primo raccoglie due articoli usciti sulla rivista Noi e sul terzo numero di Bleu, oltre al vero e proprio pamphlet di filosofia dell’arte, Arte astratta, uscito nel 1920 per la Collection Dada. Ad essi devono aggiungersi ulteriori interventi, non pubblicati o predisposti per conferenze mirate a promuovere il dadaismo in Italia nella primavera del 1921, oltre al carteggio intrattenuto con Tristan Tzara. Il secondo gruppo, raccoglie saggi pensati quali precisazioni ed orientamenti in merito al dadaismo, che uscirono tra il 1922 e l’anno successivo. Questi scritti: «si possono già considerare alla luce di una lettura retrospettiva di un movimento al quale Evola ha aderito e partecipato, e che considera centrale […] quale antidoto ai formalismi e ai “ritorni” nostalgici di altre posizioni espresse nell’arte di quel momento storico»[2]. Il più importante ed organico di tali scritti è sicuramente, Sul significato dell’arte modernissima, uscito nel 1925 quale Appendice ai Saggi sull’idealismo magico. Dopo la guerra, il filosofo ricorderà in un paio di articoli la figura di Tristan Tzara e il senso del suo dadaismo[3].
Julius Evola
Una cosa è certa, lo ricorda lo stesso Tedeschi, Evola fu il primo nel nostro paese a «teorizzare» l’astrattismo Dada ed a praticarlo in poesia e pittura. Lo fece ponendosi in sequela, nelle opere pittoriche, con le istanze: «a un superamento delle radici figurative che già in area futurista, con Severini, Boccioni, Balla e Prampolini […] si erano espresse nelle opere e nelle idee»[4]. Il confronto evoliano con il futurismo, sul piano teorico, è inaugurato dallo scritto,Ouverture alla pittura della forma nuova, che avrebbe dovuto comparire sulle colonne della rivista, La Folgore futurista e che è stato ritrovato e pubblicato da Giovanni Lista nel 1984[5]. In questo testo è ben presente la tendenza, in seguito sviluppata dal filosofo, a far si che l’arte si spingesse: «oltre il livello del sensibile e del materiale»[6]. Tale aspetto, certamente carico di suggestioni introspettive e psicologiche, tipiche del clima culturale del tempo, verrà radicalizzato da Evola, tanto da far coincidere la ricerca introspettiva: «con la sfera dello “spirituale”»[7]. Tendenza, larvatamente presente nella cerchia di Balla e Depero, che si muoveva sulla scorta dello sviluppo della poetica degli «stati d’animo» di Boccioni. Evola, si adopera al fine di mettere in atto una «rettifica del futurismo» in chiave filosofica e spirituale. Ciò lo indurrà a portare, ma siamo ormai nel 1930, un attacco diretto alle tesi di Marinetti, nello scritto, Simboli della degenerazione moderna: il futurismo, dalle pagine della rivista, La Torre[8]. In esso, l’estetica futurista è letta in termini di istintualità naturalista e quale esaltazione del divenire, aspetti che la ricerca interiore di Evola non poteva sentire a sé congeniali. Ricorda Tedeschi che Evola, fin dal 1919, mentre partecipava alla Grande Esposizione Nazionale Futurista, presentando cinque sue pitture, concentrava il proprio reale interesse verso un’arte che andasse: «distaccandosi da ogni referente immediato, facendo coincidere la sua definizione di “astrazione” in senso spirituale con le sue realizzazioni»[9].
Da ciò l’avvicinamento a Dada, che avvenne nel 1920, in contemporanea con la mostra che l’artista tenne presso la Casa d’Arte Bragaglia di Roma. In tale contesto, è davvero rilevante lo scritto evoliano, L’arte come libertà ed egoismo, comparso su Noi[10]. Si tratta della esplicitazione di una chiarissima volontà di intenti, in quanto in esso si legge: «Là dove l’arte si salva, e lascia intravedere come silenziosi lampi notturni, immense e bianche città insospettate, il fluire della coscienza superiore, è la dove l’arte è al di sopra della naturalezza, del sentimento e dell’umanità: la dove appare come fatto egoistico, come espressione freddamente voluta […] di morte vivente»[11]. Qui il nucleo tematico, per certi versi ancora stirneriano, che Evola elabora in chiave magica, sostenendo che tale Io deve essere rivitalizzato dal fuoco della libertà. Solo il suo calore è in grado di renderci sempre nuovi, disposti alla metamorfosi, mentre: «l’uomo del mercato non sa che farsene del fuoco interno […] siccome quel che ha costruito è indolenza […] elemento simbolicamente statico al luogo dell’elemento vitale […] cerca l’oblio […] il patire»[12]. In queste affermazioni liriche vi è, in nuce, già tutto Evola e la sua irriducibilità alla via sacerdotale.
Tristan Tzara
Nello stesso 1920 vide la luce il trattato, Arte astratta[13]. Qui il filosofo riprende ed amplia le considerazioni presentate nel precedente scritto, individuando gli aspetti del dadaismo a lui congeniali ed allargando le considerazioni sulla funzione dell’arte sotto il profilo spirituale. L’arte è deprivata da Evola delle sue ragioni formali, estetico-espressive, per cui solo in Dada l’arte: «ha […] per la prima volta, trovata la sua soluzione spirituale: ritmi illogici e arbitrari di linee, colori, suoni e segni che sono unicamente segno della libertà interiore e del profondo egoismo raggiunto; che non son mezzi che a se stessi»[14]. A tanto si può giungere in arte agitando: «il contenuto […] oltre le onde illusorie delle superfici: occorre la volontà a base del sentimento estetico. Oltre l’uomo creare il senso dell’Unico»[15]. La volontà, intesa nella sua purità, rende inane il principio di identità e ci immette in un altro ordine di possibilità, nel quale l’Io non subisce più il reale, l’oggetto, ma se ne fa «creatore». Tesi ribadita in, Note di filosofia Dada, in cui a fianco ai riferimenti stirneriani e nietzschiani, riaffiora il tema del superamento della logica eleatica: «Io ho la logica, e non la logica ha me, io ho pensiero e contraddizione, non è che tutto ciò mi abbia»[16]. Il che, induce Evola, nel saggio Dadalogie, a porre una distinzione tra una condizione contingente di Dada ed una trascendente[17]. Ancora nel Manifesto saccaromiceto. Dada non significa nulla, il filosofo ribadisce la necessità, per vedere davvero il reale, di superare la mera condizione razionale, realizzando il vuoto in noi[18]. Eppure, Evola coglie un limite nel dadaismo, esso: «difetta dell’interpretazione mistica»[19]. Nonostante ciò, tra la posizione evoliana e quella di Tzara vi sono coincidenze di rilievo. Innanzitutto, l’insistere dei due: «sullo spirito di contraddizione come suo fattore costitutivo (dell’arte), che conduce ogni affermazione a valere in senso iperbolico e nello stesso tempo a divenire modello di un nichilismo radicale, nel quale anche l’arte […] ha un valore assolutamente arbitrario»[20].
Tale spinta oltre l’estetico era condivisa dal movimento Dada tedesco, in particolare dalla sua corrente superomista, rappresentata da Johannes Baader e dalla teoria dell’arte di Carl Doehmann (Daimonides). Evola avrebbe voluto pubblicare estratti di uno scritto di questo autore, uscito su Dada Almanach, sulla rivista che stava progettando, Malombra. Intenzione del pensatore era quella di far coincidere il Dada con la: «coscienza del vuoto, del nulla, da vivere e attraversare, per riaffermare la propria sufficienza a se stesso, in una direzione che dal punto di vista del misticismo incontra l’interpretazione “centralizzatrice” che Evola dà del pensiero di Meister Eckhart»[21], presente anche nel saggio sul Tao di Lao-tze, nei Saggi sull’idealismo magico, nonché nel successivo libro dedicato a, La tradizione ermetica[22]. Parallelamente a queste posizioni teoriche, Evola andava producendo opere, in quanto le due direzioni, teorica e pratica, non si escludevano. Infatti, rileva Tedeschi: «è la contraddizione […] come modo di agire, che denota un modo di essere, libero da schemi e anarchico nei confronti delle regole poste dal vivere comune»[23]. Solo la realizzazione ermetica, lo si vedrà, avrebbe portato a termine il processo indicato da Evola nelle sue opere pittoriche e poetiche. L’esperienza autarchica del dadaismo evoliano, quale adesione alla volontà pura, implicava tanto il «si» al reale finito (Stirner), quanto il suo superamento. La cosa è ben chiarita dallo scritto, A proposito di “Dada”, comparso nel 1923 su, L’Impero[24]. Si tratta di una lettera scritta da Evola al giornale per rispondere alle critiche che gli erano state mosse, in merito al suo dadaismo, da Gino Gori. In esso, leggiamo: «L’incoerenza, la negazione, la contradizione nel dadaismo non sono altro che il “fenomeno” dell’assoluta autarchia dell’Io che è giunto alfine […] alla persuasione che egli è in se stesso […] il signore assoluto»[25]. Nel Dada, per Evola, non si registra un indeterminato bergsoniano ma, al contrario, l’indeterminato diviene centro: «principio e arbitrio d’ogni determinazione: come l’Unico di Stirner»[26]. Il dadaismo, almeno in quanto esigenza, prelude all’idealismo magico, nel quale il pensare e il fare acquisiscono tratto magico. Per cui, se un valore si afferma, ciò dipende dall’atto di libertà incondizionata che l’ha sostenuto. Conclusivamente, per Evola il dadaismo ha una struttura dialettica di tipo hegeliano. In essa il primo momento è la natura data, il secondo la dissoluzione del dato nell’arbitrio e il terzo il compimento dell’io come libertà e potenza. Ciò implica che al Dada non possa essere rivolta l’accusa di mancata realizzazione artistica, semplicemente perché dada non è arte.
Come si è giunti in Europa a siffatte posizioni, latrici di ulteriori e possibili sviluppi ermetici? Evola lo ha chiarito organicamente in, Sul significato dell’arte modernissima.
L’arte modernissima
Tale saggio, lo si è ben visto, accompagnava come Appendice i, Saggi sull’idealismo magico. In esso, Evola distingue nettamente l’arte moderna da quella delle età precedenti. La «grande arte» del passato, argomenta il filosofo romano, era il risultato di una «possessione» dell’individuo da parte di forze che lo sovrastavano. Aveva, pertanto, come si evince dalla kantiana dottrina del genio e dalla filosofia dell’arte di Schelling, carattere medianico. Ma: «poiché […] in tale situazione non tanto era l’Io che produceva dell’arte, quanto era piuttosto l’arte che si produceva dentro di lui, presso al potenziarsi della coscienza individuale […] si ebbe, secondo logica necessità, una crisi della coscienza estetica», dalla quale sorse l’arte moderna[27]. In essa fu, fin dagli esordi, ribaltato il rapporto fra contenuto e mezzo espressivo poiché: «qualcosa viene manifestata, unicamente in funzione della pura volontà di esprimere, in funzione della forma»[28]. Essa è astratta in quanto non ha più un oggetto o un contenuto da mostrare: essa esprime solo la pura espressività. L’artista moderno invita lo spettatore a percepire nelle sue creazioni i ritmi ed il vago senso cui alludono. Nei tempi passati: «la produzione artistica rivelava e incarnava infinitamente più di quanto era stato voluto dall’artista»[29], ed essa realizzava una «eterogenesi dei fini». Con Novalis e, per certi aspetti, Wagner, di contro all’opera d’arte geniale, si affermò l’opera d’arte quale prodotto della volontà.
Tale processo ebbe delle tappe che Evola, nel saggio, attraversa a beneficio del lettore. Con il simbolismo si mostrò il formalismo moderno: l’esperienza, in esso, è ridotta a materia simbolica e la coscienza è costruita su rapporti e simpatie segrete tra interno ed esterno. Nella sua prima fase (Verlaine) la natura era ancora un dato con il quale la coscienza si confrontava per avere contezza di sé. I poeti maledetti, in particolare Rimbaud, assunsero il ruolo di «consunsori» della scorza esteriore dell’Io, inaugurarono il suo iter di denudamento, per scoprire la potenza quale sua natura profonda (Je sius un autre). Tale fase si esaurì con Mallarmé: nel poeta la realtà era come sostenuta da rapporti simpatetici, analogici, nei quali il principio individuale, anziché trovarsi, si annullava: «nell’incanto dorato dei ritmi e nell’algebra delle immagini»[30]. Il cubismo tentò, al contrario, la via del recupero della concretezza pre-estetica, ricreata dalla coscienza individuale. Tentativo inane, in quanto tale recupero si rivelò fittizio. A tale situazione tentò di dare soluzione il futurismo: «nella vertigine dell’intuizione, della velocità e del sesso […] rinnovando in un certo modo la soluzione di un panteismo dionisiaco»[31]. L’istintività naturale, immediata, del futurismo fece sì che l’Io potesse sporgersi sulle profondità interiori, scoprirsi quale creatore incondizionato.
Da tale contesto poietico si passò all’esperssionismo, ma solo il dadaismo portò a compimento l’arte moderna, centrata sull’individuale. Solo in Dada avvenne: «l’effettivo spostamento dell’Io a centro assoluto»[32]. Il dadaismo tese al recupero del principio primordiale, originario, incondizionato: «Porre questa esigenza, significa porre, dentro la coscienza estetica, il problema della libertà e cioè contrapporre all’Io determinatamente libero […] l’Io come centro e quindi come arbitrarietà o incondizionalità»[33]. Dopo il momento della tabula rasa, della negazione del reale che lo preoccupa, l’Io dadaista, magicamente, si scopre come: «potere di dare a tutto valore o non-valore, di essere e non essere indifferentemente»[34]. Il potere della libertà si mostra pienamente nella capacità di cogliere la coincidenza degli opposti e di porsi al di là della stessa contraddizione: «il fluttuare indicibile nella “grande bouche pleine de miel et d’excrément”»[35]. La coscienza Dada, rileva Evola, è così sintonica a quella dei mistici e, per questo, una logica aliena da quella del senso comune regge i suoi assunti gnoseologici. Ciò che vale per l’uomo comune deve essere bruciato, affinché egli possa rientrare nel: «caos elementare»[36].
Tutto può diventare arte a condizione che a volerlo sia l’artista. Perché, in fondo, artistica è davvero soltanto una data funzione dell’Io, libero e potente: «secondo la quale questi fa divenire un dato oggetto della sua esperienza ciò che poi verrà definito opera d’arte»[37]. L’arte modernissima esige uno spettatore-artista: in ultima istanza, questi dovrà corrispondere al richiamo evocato dal poietes, riconoscendone la qualità d’arte. Quindi: «il valore estetico resta una vuota parola»[38]. L’aspetto più rilevante messo in luce dall’arte modernissima è, per Evola, da individuarsi nella riconquista, messa in atto dall’Io, della propria volontà, di contro a quanto ne condizionava la libera produzione. Il ritmo Dada è sintonico alla ritmica magica e, pertanto, Evola affida al poietes l’ardito compito di applicare le proprie conquiste, come nelle antiche vie iniziatiche, alla: «dimensione più profonda della vita reale»[39]. Dall’arte magica, a-umana e a-sentimentale, al magismo, questo l’itinerario evoliano.
Note:
[1] Cfr, F. Tedeschi, Arte astratta e Dada nella prospettiva degli scritti di Evola, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, a cura di G. de Turris, saggio introduttivo di C. F. Carli, Edizioni Mediterranee, Roma 2018, pp. 21-32, qui p. 21. Il volume raccoglie, per la prima volta in un’unica pubblicazione, tutti gli scritti di carattere estetico e l’intera produzione artistica del pensatore.
[2] Ivi, p. 22.
[3] Tutti gli scritti in questione sono contenuti nel volume, J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit.
[4] F. Tedeschi Arte astratta e Dada nella prospettiva degli scritti di Evola, cit., p. 23.
[5] Cfr. G. Lista, Balla le futuriste, L’age de l’homme, Losanna 1984, p. 142, poi comparso in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, a cura di E. Valento, Fondazione Evola, Roma 1994, pp. 19-21, ed ora in, J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 33-34.
[6] F. Tedeschi, Arte astratta e Dada nella prospettiva degli scritti di Evola, cit., p. 23.
[7] Ibidem.
[8] Pubblicato in, La Torre, n. 6, 15 aprile 1930. Ora in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 127-132.
[9] F. Tedeschi Arte astratta e Dada nella prospettiva degli scritti di Evola, cit., p. 24.
[10] Cfr. J. Evola, L’arte come libertà ed egoismo, in Noi, a. III, n. 1, gennaio 1920. Ora in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 37-40.
[11] J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia,cit., p. 39.
[12] Ivi, p. 38.
[13] Cfr. J. Evola, Arte astratta, Collection Dada, Zurigo 1920. Ora in, J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 147-174.
[14] J. Evola, Arte astratta, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 159.
[15] Ivi, p. 154.
[16] Cfr. J. Evola, Note di filosofia dada, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 35.
[17] Cfr, J. Evola, Dadalogie, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 41.
[18] Cfr. J. Evola, Dada non significa nulla. Manifesto saccaromiceto, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., p. 43-44.
[19] J. Evola, Arte astratta, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., n. 1, p. 159.
[20] F. Tedeschi Arte astratta e Dada nella prospettiva degli scritti di Evola, cit., p. 26.
[21] Ivi, p. 30.
[22] Cfr. J. Evola, La tradizione ermetica nei suoi simboli, nella sua dottrina e nella sua “Arte Regia”, Edizioni Mediterranee, Roma1984, (ultima ed., Edizioni Mediterranee, a cura di G. de Turris, saggio introduttivo di S. H. Nasr, Roma 1996). Le nostre citazioni sono tratte dall’edizione del 1984.
[23] F. Tedeschi, Arte astratta e Dada nella prospettiva degli scritti di Evola, cit., p. 31.
[24] Cfr. J. Evola, A proposito di “Dada”, in L’Impero, 20 aprile 1923. Ora in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 98-101.
[25] Ivi, pp. 98-99.
[26] Ivi, p. 99.
[27] Cfr. J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, in J. Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia, cit., pp. 102-116, qui p. 103.
[28] Ivi, p. 104.
[29] Ivi, p. 105.
[30] Ivi, p. 107.
[31] Ivi, p. 108.
[32] Ivi, p. 109.
[33] Ibidem.
[34] Ivi, p. 110.
[35] Ibidem.
[36] Ivi, p. 111.
[37] Ivi, p. 112.
[38] Ivi, p. 113.
[39] Ivi, p. 115.
Giovanni Sessa
(estratto dal saggio di Giovanni Sessa, L’arte magica di J. Evola. “Sulle terrazze lunari l’iperbole danza”, originariamente comparso sulla rivista, Vie della Tradizione, n. 177, a. XLIX, luglio-dicembre 2019, pp. 3-35 (qui pp. 9-17).