Il vino, dai riti di Roma all’altare cristiano – Paolo Galiano ©
Comunemente si ritiene che l’uva e il vino, sia come bevanda per i rituali conviviali che soprattutto per l’uso sacrificale siano stati introdotti in Italia dalla Grecia tra il 1500 ed il 500 a.C. a partire dal sud della penisola per giungere progressivamente alle regioni del Nord, per cui il suo uso rituale sarebbe derivato agli Italici e quindi ai Romani dalla Grecia, direttamente o tramite gli Etruschi. Lo stesso sarebbe accaduto per il nome stesso della bevanda, da considerare un prestito dal greco όινος, a sua volta derivante da *ϝoino. Storicamente e geograficamente la vite e il prodotto della sua fermentazione hanno origine nelle regioni del sud del Caucaso dove lo si produceva almeno dal IV-III millennio a. C.(1), come dimostra l’esistenza dei termini usati per indicare il vino in popolazioni che parlavano lingue di ceppo indoeuropeo quali georgiano, miceneo, greco e latino, prima che la radice *wyn e suoi analoghi entrassero nell’uso come specifico termine per “vino” presso le nazioni semitiche (2). Recenti acquisizioni in campo glottologico dovute a F. Benozzo (3) smentiscono il passaggio della parola “vino” dalla Grecia all’Italia giungendo ad un risultato opposto, in quanto “per il latino vīnum l’ipotesi di un prestito diretto dal greco appare formalmente improponibile” e, considerata la possibile derivazione della parola vīnum dal latino uva come uvīnum, “bevanda prodotta dall’uva”, analogamente ad altre parole tutt’ora in uso in Italia per indicare prodotti alcoolici derivati dalla frutta, come ad esempio fragolino dall’uva fragola e nocino dalle noci, si tratterebbe “di una parola originatasi presso i produttori stessi del vino, in un’epoca [che risalirebbe]… quanto meno al Neolitico”. Pertanto sarebbe invece “il gr. (ϝ)oinos che andrebbe interpretato come prestito dal latino uvīnum, e dal greco il termine si sarebbe poi diffuso nell’area mediorientale”. Questa priorità dell’area latino-italica comporta, secondo il Benozzo, due risultati: da un lato “i reperti italici preistorici e protostorici attestano una primitiva ritualità del vino, sicuramente anteriore all’introduzione delle forme conviviali greche”, dall’altro si conferma “l’autoctonia dei culti latini del vino”, di cui “è poco plausibile una loro derivazione da quelli greci”, in quanto “il Dio romano del vino è lo stesso Giove (4), vale a dire colui che incarna la funzione della sovranità e non − come nel caso del Diòniso greco − una divinità specificatamente deputata a presiedere la vinificazione”.
L’archeologia (5) ci dà la conferma delle deduzioni glottologiche per quanto concerne i rapporti tra Grecia e l’area latino-italica: almeno fin dall’Età del Bronzo finale nel Lazio era conosciuta una bevanda ricavata dall’uva, il temetum (da cui deriva il nostro “astemio”, da abs, “lontano da”, e *tem, indicante una bevanda inebriante), prodotto legato alla ritualità del consumo sia nei convivii, prima che avesse origine il costume del simposio greco, sia per l’uso religioso e sacrificale. Ciò è dimostrato dalla presenza nelle tombe di questo periodo di una coppia di oggetti in ceramica sconosciuti al coevo mondo greco, denominati dagli specialisti “calefattoio”, un vaso per contenere liquidi di forma globulare ornato con spirali incise, e “tazza-attingitoio monoansata” utilizzata per bere, oggetti risalenti almeno al X secolo ma adoperati ancora nel VI e congelati in quello che il Torelli chiama “un uso fossile”, il che ne contraddistingue la particolare sacralità, essendo tipico del mondo religioso romano mantenere rituali e oggetti adoperati nei riti nella loro forma arcaica (si pensi all’abito dei Sacerdoti Saliari, risalente alla piena Età del Bronzo). La presenza di questi due oggetti, in grandezza naturale o miniaturizzati, nelle tombe di personaggi che per il corredo possono essere riportati ad una classe sociale elevata consentono di ritenere certo il loro significato religioso e sacerdotale in senso ampio, considerato che il ceto sacerdotale comprendeva il pater familias, il quale per le sue prerogative era il sacerdos della propria gens o della familia.
Il vino era conosciuto in Italia, come si è detto, almeno dall’epoca neolitica ma rimase per lungo tempo una bevanda rara e preziosa, tanto che nel periodo arcaico di Roma nelle libagioni e nelle offerte a divinità quali Pales e Bona Dèa come nei riti a Juppiter sul Monte Cavo durante le Feriae Latinae ad esso era preferito il latte. Il sangue delle vittime sacrificate sugli altari costituiva il centro dell’azione rituale, in quanto, come fa notare Schilling (6), il sangue era ritenuto corrispettivo dell’anima: l’anima era riservata agli Dèi, il corpo delle vittime poteva invece essere consumato dagli offerenti o anche venduto, in quanto privo di significato sacrale. Scriveva Gaio Trebazio Testa, giurista del I sec. a.C. amico di Cicerone e di Giulio Cesare e consigliere di Ottaviano, nei frammenti del De religionibus conservatici da Macrobio (7) che “esistono due specie di vittime sacrificali: una in cui si ricerca il volere divino mediante i visceri, l’altra in cui si consacra al Dio solo l’anima ovvero la vita, donde gli Aruspici chiamano queste vittime ‘animate’”.
Il vino era considerato un sostituto del sangue essendo il portatore di una “qualità” magica in quanto prodotto della terra in cui confluivano forze potenti, un “sangue della terra” come lo chiama Plinio (8) riportando le parole di Androcide ad Alessandro: “Vinum poturus, rex, memento bibere te sanguinem terrae… neque viribus corporis utilius aliud neque voluptatibus perniciosius”, cioè al tempo stesso “di nessun altro [alimento] più utile alle forze del corpo e più pernicioso nelle voluttà”, caratteri ambigui che ne fanno un venenum, tanto che ancora nel VI sec. d.C. Isidoro di Siviglia (9) scriveva che “il vino è così chiamato perché quando lo si beve con rapidità riempie le vene di sangue… Gli antichi chiamavano il vino veleno… Scrive Girolamo nel suo libro De virginitate serbanda che ‘Le adolescenti debbono fuggire il vino come veleno, perché a causa del fervente calore dell’età non ne bevano e periscano’. Per tale motivo presso gli antichi Romani le donne non potevano bere il vino, se non in certi giorni nel corso dei sacri riti”.
In Occidente la concezione sapienziale concernente il sangue, che permane tuttora in alcuni àmbiti (10), si può ritrovare nel Pitagorismo in uno scrittore quale Lucio Cornelio Alessandro detto Polyhistor, nato a Mileto e liberto di Cornelio Lentulo, autore nel I sec. a.C. delle Successioni dei filosofi, a cui attinse Diogene Laerzio per le sue Vitae philosophorum (11): “Nelle Successioni dei filosofi Alessandro dice di aver trovato anche questo nelle memorie pitagoriche… Che l’anima comincia dal cuore e giunge al cervello; e che la parte che è nel cuore è anima, quella che è nel cervello intelletto e mente… Che l’anima è nutrita dal sangue; e che i ragionamenti sono respiri dell’anima; e che invisibili sono l’anima e i ragionamenti, perché anche l’etere è invisibile. Che l’anima è vincolata dalle vene, dalle arterie e dai nervi; ma che se ha forza e se ne sta racchiusa in sé stessa, allora la tengono unita i ragionamenti e le opere”.
Così commenta D’Anna (12) le parole di Polyhstor: “L’anima si trova come ‘dispersa’ nei vari organi vitali e sensitivi ma ha il suo supporto per eccellenza nel sangue concepito come il veicolo di manifestazione del calore ’pneumatico’ che circola attraverso tutto il corpo… Questa particolare forma di vitalità ha i suoi ‘canali’, i ‘vincoli dell’anima’ li chiama Polyhistor, ossia le vene, le arterie e i nervi che ‘legano’ l’anima agli organi vitali… Una specie di ‘rete di supporto’ in grado di alimentare la circolazione del ‘sangue caldo’, la cui descrizione sembra scaturire da una precisa radice psico-fisiologica che affonda in primordiali tecniche meditative basate sulla concentrazione sul flusso sanguigno”. Il vino è quindi simbolo di sacralità, perché è la bevanda con cui si onorano gli Dèi, e di potere, nato dalle profondità della terra da cui trae la sua forza magica, ma è anche pericoloso, fa “perdere la testa”, condizione per i Romani del tempo arcaico considerata abietta, al punto che ne proibivano l’uso alle donne con un divieto che si faceva risalire a Numa secondo quanto scrive Plutarco (13): “Numa, pur conservando alle donne sposate dignità ed onorabilità di rapporti coi mariti… impose loro un grande riserbo, tolse ogni ingerenza negli affari pubblici, le ammonì ad essere sobrie e le abituò a tacere, e dovevano astenersi totalmente dal vino”. Andare contro la legge comportava per la donna romana gravi punizioni (14), come attestano alcuni esempi che si possono leggere negli scritti degli storici romani: ad esempio un certo Egnazio Mecennio uccise la moglie a frustate per averla sorpresa a bere (15). La proibizione traeva fondamento da un mito riguardante Faunus e Fauna (sua figlia o sua coniuge), secondo cui Faunus, avendola trovata ubriaca, la percosse fino a farla morire con verghe di mirto, la pianta sacra a Venere, Dèa al tempo stesso delle matrone come Venus Verticordia, la quale preservava i costumi e la buona fama delle donne romane come scrive Ovidio nei Fasti, e delle prostitute come Venus Erucina, la divinità portata a Roma dalla Sicilia e collegata all’aspetto sessuale della femminilità.
Il duplice valore del vino come simbolo di sacralità e come analogo del sangue sacrificale si ritrovano nel modo più esplicito nel Cristianesimo nella transustanziazione del vino offerto sull’altare nel Sangue del Cristo al momento della consacrazione. Trattare di questo argomento in un articolo non è possibile, per cui qui ci preme ricordare solo come nella seconda metà del XII secolo vi sia stata una disputa lunga ma molto significativa tra papa Innocenzo III (Lotario di Segni) e il teologo Pietro Cantore circa il momento preciso della transustanziazione: Innocenzo III affermava nel suo De sacro altaris mysterio che esso coincideva con la benedizione del pane, mentre Pietro Cantore riteneva che ciò avvenisse con la benedizione del vino, la seconda delle specie eucaristiche portate sull’altare. La disputa, apparentemente sottile e “bizantina”, aveva in realtà un significato ben preciso: in pratica la tesi di Innocenzo III portava alla eliminazione della Comunione sotto le due specie del pane e del vino, annullando o comunque diminuendo il significato del vino e di conseguenza del calice nel rito della Messa, mentre Pietro Cantore sottolineava l’importanza del vino e quindi della coppa che lo conteneva, contenitore che i liturgisti a lui precedenti avevano identificato come il sepolcro del Cristo a partire dall’VIII secolo con Rabano Mauro. Non è forse un “caso” se i romanzi del ciclo del Graal, il sacro Calice contenente il Sangue del Cristo crocefisso, ebbero inizio proprio alla fine del XII secolo in coincidenza con questa disputa e, a volte sotto l’apparenza di accettare la proposizione ufficiale di Innocenzo III, prendevano in realtà parte per la tesi di Pietro Cantore (16), né poteva essere altrimenti, visto che il Calice del Graal costituiva il centro di questi scritti e “il rituale del Graal non offre una semplice immagine del sacramento che si celebra sull’altare, ma ne è il prototipo o l’idea platonica”(17). Era così messo in risalto il ruolo del vino-sangue da cui aveva origine il potere del Graal di “ringiovanire” e di “guarire” colui che se ne fosse dimostrato degno con un’impresa guerriera, sottolineando come quella che è stata definita “la liturgia del Graal” fosse propria se non esclusiva della classe dei Cavalieri.
Note:
1- Strategie del cibo, a cura di Di Renzo, Roma 2005, pp. 83-101;
2 – La prima attestazione si ha ad Ugarit nella seconda metà del II millennio (ASPESI Sacro vino p. 6, in Philoin – Scritti in onore di Mario Enrietti e Renato Gendre, Alessandria 2013 p. 6);
3 – BENOZZO Origini italidi e neolitiche del nome del vino, in “Rivista italiana di dialettologia”, n° 34 2010, a cui rimandiamo per le motivazioni delle sue affermazioni;
4 – L’Autore si riferisce alle sacre celebrazioni dei Vinalia, di cui tre sono deidicati a Giove e a Venere mentre il quarto, forse il più antico, è intitolato a Marte (per l’argomento si veda GALIANO Venere, la Grazia divina, Roma 2014 pp. 82-101);
5 – TORELLI La forza della tradizione, Milano 2011 pp. 119-127;
6 – SCHILLING La religion romaine de Venus, Paris 1984 p. 132 e nota 4;
7 – MACROBIO Sat III, 5, 1;
8 – PLINIO Nat hist XIV, 58;
9 – ISIDORO DI SIVIGLIA Etymologiae XX, 3, 2;
10 – Si veda VENTURA Il mistero del Rito sacrificale, s.l.s.d. pp. 39 ss. e GALIANO Raimondo De Sangro e gli Arcana Arcanorum, Roma 2015 pp. 54-57;
11 – DIOGENE LAERZIO VIII, 24-31;
12 – D’ANNA Dall’Orfismo al Pitagorismo, in “Arthos” n° 19 2011 pp. 76-87, e più estesamente idem Da Orfeo a Pitagora, Roma 2011;
13 – PLUTARCO Vita Numae 24;
14 – DIONIGI D’ALICARNASSO Ant rom II, 25, 6 : “Romolo permetteva di punire entrambe queste colpe con la morte, essendo i più gravi peccati femminili, poiché considerava l’adulterio fonte di follia e l’ubriachezza di adulterio”;
15 – VALERIO MASSIMO Factorum et dictorum memorabilivm VI, 3, 9;
16 – Come abbiamo più estesamente scritto nel saggio Il “Giuseppe d’Arimatea” e i segretii del Graal pubblicato sul sito www.simmetria.org,
17 – ZAMBON Robert de Boron e i segreti del Graal, Firenze 1984 p.71.
Paolo Galiano
(fonte: www.ereticamente.net)