1898, Annus Mirabilis del Bardo Crowley – Stefano Eugenio Bona
Non si poteva dir di no.
Aperto lo scatolone in arrivo da Londra, ancor più nitido mi fu il motivo dell’accensione subitanea, fulminea, che mi colpì alla vista di questo oggetto, già rarità all’uscita. Per la forma stessa in cui si presenta, decadenza obbligata deluxe, accorpata ad una volontà ben precisa da parte della Kamuret Press: rendere giustizia all’epoca d’oro del libro di lusso. Quella fine Ottocento di anime ormai sature di disillusione, non poteva concepire l’utilizzo di un solo supporto commerciale, e d’altra parte l’edizione che esula dal libro come mero prodotto, è comunque una consuetudine rinascimentale e rappresenta una vera e propria forma di art pour l’art, in anticipo sui Poe e sui Baudelaire; essa giunge ampiamente fino a metà Novecento. Nel periodo del Crowley studente e poeta, operò la Kelmscott Press del preraffaellita William Morris che, svincolandosi dalla produzione in serie, donò alcuni dei libri più belli di tutti i tempi: The Works of Geoffrey Chaucer (con 87 xilografie dell’amico Burne-Jones), definito anche il volume più elaborato del XIX secolo, testi di Morris stesso come The Wood Beyond The World, The Nature of Gothic di Ruskin, raccolte di Coleridge, Keats, etc. Questi scrigni vennero alla luce tra il 1891 e il 1898 (curiosamente la data dell’esordio poetico del Nostro), poi la Kelmscott serrò i battenti. Ma il libro di lusso non passò di moda come invece sembrerebbe al giorno d’oggi, a testimonianza di ciò pensiamo a “The Tower” di Yeats del 1928 per la Macmillan (con rilievi dorati disegnati da Thomas Sturge Moore), oppure alla lussuosa edizione in folio di “A Draft of XVI Cantos” di Pound, in 90 copie e carta filigranata (Three Mountains Press, 1925). Iniziative come questa portano avanti una tradizione importante. Chris Giudice ha curato, commentato e introdotto il volume, mentre le note a piè pagina sono quelle di Ivor Back, dall’edizione del 1905, probabilmente supportato dallo stesso Crowley nell’esegesi dei punti più oscuri. Da sole, le cinquanta pagine d’introduzione, sono un ottimo trampolino per comprendere un mondo, coagulato tout court nel libro da collezione: il primo nome da farsi è Aubrey Vincent Beardsley, re degli illustratori decadenti, artefice di splendidi volumi come la Salomè di Wilde, la Lisitrata di Aristofane e The Yellow Book, il trimestrale dove trovava spazio il gotha dei poeti maledetti albionici. Beardsley fu molto amico di Herbert Charles “Jerome” Pollitt, attore del Cambridge University Footlights Dramatic Clube e principe del travestitismo, passione condivisa con la Bestia 666: tra i due si stabilì un rapporto di natura omosessuale, di breve (ma intensa) durata, rimpianto successivamente da Crowley. Pollitt commissionò a Beardsley prima un ex libris, poi l’illustrazione per la copertina della prima raccolta dell’amato: “Aceldama”. In questo intreccio di artisti, una lettera di Beardsley è emblematica: Il tuo bardo di Cambridge deve essere davvero decorato e pubblicato dall’Arcadia (1). Lo custodirò con il rivestimento più raffinato. La marcia del gusto era in moto a ranghi compatti e si doveva avere sempre un’edizione di raro pregio da proporre nei circuiti che contano, come fosse opera nell’opera, valutabile a sé stante. Però Beardsley morì poco dopo di tubercolosi (marzo 1898) e Giudice si chiede quanto avrebbe potuto incidere su un diverso destino del Crowley poeta, un connubio di tale risma. Sarebbe stato quantomeno il biglietto da visita per esser diffuso negli ambienti giusti.
Trentun copie, nell’esclusività la loro stessa intima sostanza. È il Crowley decadente a ricevere le premure e le cure qui, e non ci poteva esser miglior celebrazione di questa edizione (ne esiste anche una versione standard, identica nei contenuti testuali): raffinatissima pelle di capra nigeriana ad avvolgere il tutto, in total black, dorsi arrotondati e rinforzati con rilievi in lamina dorata, sedici pagine di foto inusuali di Crowley, Pollitt, Beardsley, Smithers, alcune mai pubblicate prima (più due cartoline di Pollitt, una per la prima metà delle copie, l’altra per la seconda), ma il colpo finale lo danno poi i risguardi e il nastro segna-pagina, in quel violetto sì luminoso da catalizzare l’attenzione. “Vestendo” propriamente la decadenza, come un guanto. Il curatore si è sobbarcato un grande lavoro, particolarmente ficcanti riteniamo siano le contestualizzazioni iniziali, qui Crowley è inserito in un’epoca senza mitizzazioni, usando grande premura nel rispettare criteri storici e al contempo innervando con perizia esoterica la critica letteraria intorno. Viene fornita una rassegna dei personaggi cruciali per il primo Crowley, e tra gli altri spicca il pittore Gerald Festus Kelly (il ritrattista preferito della Famiglia Reale), raro amico della prim’ora ad aver mantenuto in maniera continuativa una stima intatta, anche dopo che venne eletto alla Royal Academy. Inoltre fu sua sorella, Rose Edith, la prima moglie di Crowley. Poi Leonard Smithers, l’editore di Aceldama, personaggio eccentrico e anche coraggioso in quanto non si fece impaurire dallo scandaloso Wilde, a seguito del famoso processo, e lo pubblicò. Per lui fu naturale accettare senza remore lavori come White Stains. Giochi di frontiere, uomini-limite che incarnano l’Età della Decadenza, basta scavallare l’anno 1900 e molti dei grandi esteti scompaiono (compreso lui): tra l’anno cruciale 1898 e il 1900 sfilano epoche, nel salone del gusto.
L’introduzione, così ha necessitato una immersione nel decennio decadente, quel fin de siècle inglese in cui particolarmente importanti sono due opere di Symons e Dowson: il primo licenziò “London Nights” e il secondo “Dilemmas, Stories and Studies in Sentiment”. L’anno è il 1895, lo stesso in cui A.C. iniziò gli studi al Trinity College di Cambrige. Poco oltre, nel 1898, Crowley pubblicò tutte e quattro le opere qui raccolte. Il lettore viene guidato e si fissa un punto principale sul concetto dell’art pour l’art, Seguendo questo filo d’Arianna che tanto cambiò i destini della fruizione estetica, Giudice cita due fonti, alla radice: una è Benjamin Constant, il precursore del romanzo moderno a tinte psicologiche. L’arte eclissa ogni intento didattico o ancora meno morale e nella sua essenza porta avanti una “fluenza” libera, epifania di se stessa per se stessa, come in Edgar Allan Poe, per il quale “this poem which is a poem and nothing more, this poem written solely for the poem’s sake”. Il primo grande amore di Crowley sgorgò alla fonte di Percy Bysshe Shelley, nell’atteggiamento, nell’entusiasmo e nello spirito poetico da incarnare, ne fu un estimatore per tutto il resto della sua vita, ritenendolo al pari di Nietzsche un profeta sulla perdita di peso del cristianesimo nel mondo moderno, arrivando ad identificare la sua missione in accordo con il loro spirito (2). A livello stilistico fu invece il magistero di Algernon Charles Swinburne a convincerlo a spiccare il volo. La sfrontatezza contro i tabù si travasa e le tematiche usate per scioccare i benpensanti vittoriani (lesbismo, sadomasochismo, ecc), saranno una costante nella vita del mago, fino alla fine dei suoi giorni, nota Giudice. Del resto è vero che non possedeva la musicalità di Swinburne, come afferma Wilson nella sua succinta biografia del Nostro, ma qui siamo ad un livello così alto, che non è il caso di forzare oltre il paragone. La poesia dell’autore di “Poems and Ballads” essendo marmo purissimo e impossibile da imitare…Si riportano interessanti stralci del saggio di Fuller (3) ove la figura di Swinburne risalta in quanto portatrice di una grecità diretta, non mediata dagli spiriti dei poeti della post restaurazione Wordsworth e Coleridge. Crowley si inserisce in questa linea: come Beardsley proseguirebbe Rossetti, Crowley proseguirebbe Swinburne…
Colin Wilson è piuttosto caustico sul Crowley poeta (ma del resto anche sul Crowley uomo): La letteratura sembrava essere la scelta naturale per lui – visto che far poesia gli veniva così facile – ma anche in ciò, non riusciva a risolversi fra l’essere poeta e indulgere all’affettazione (4). Anche affermazioni vanagloriose e tronfie come quelle delle Confessioni, riportate subito dopo, sono esemplificative: “Nell’Aceldama […] io raggiunsi, in un balzo, la vetta del Parnaso. Nel senso che non avevo mai scritto prima nulla di più bello”(5). Wilson ricorda come si ritenesse il più grande poeta dei suoi tempi, unitamente all’estrema arroganza nei confronti di Yeats, non riconosciuto come il sommo poeta che fu, sempre per uno spirito di competizione divorante, da sfogare verso tutti quelli che non gli si sottomettevano. L’inquadramento di questa e di altre biografie (pensiamo al Symonds) non sono però sufficienti a contestualizzare l’estro poetico, esso merita a nostro avviso di essere affrontato ulteriormente, in primis attraverso nuove comparazioni critiche e nuove edizioni come quella di cui parliamo. Si inserisca anzi Crowley più spesso nel novero della grande poesia esoterica, ce ne occupiamo personalmente da tempo e possiamo dire che i significati allusivi di alcuni poeti (pensiamo ai Rilke, Valéry, Mallarmé, Stefan George, etc.) si completano con quelli più marcati di un Crowley (e del resto di un Pessoa , Onofri,etc.).
Nell’Introduzione Giudice esprime la motivazione più importante a livello globale, dietro questo mancato riconoscimento: i decadenti inglesi dell’ultimo decennio dell’Ottocento furono visti come una sorta di cuscinetto tra due periodi culturali più significativi, quello Vittoriano (Tennyson, Browning, Matthew Arnold,etc.) e quello Modernista (Eliot, Pound, Frost, Bunting). E se ciò può esser pur concesso, Decadentismo ed Estetismo, intrecciati come le spire delle serpi del caduceo di Hermes (osserva il curatore), sono da andare a sondare, poiché non è concepibile comprender i poeti balzati alla ribalta nel periodo, continuando a riferirli al pre e al post come unica pietra di paragone (errore usuale, del resto). Gli unici due sommi nomi da non perdere di vista per il Crowley esteta sono Swinburne e Pater. Quei prodromi dell’art pour l’art che si trovano già in Gautier e Poe, in Swinburne trovano l’incarnazione estrema, e come giovane demoniaco e come pura e semplice fluenza poetica. Pater, del resto, fu nientemeno che l’ombra lunga sul Decadentismo del Vate nostrano, il maestro del di lui maestro Angelo Conti (il teorico dell’Estetismo italiano). Invece di continuare a considerare marginale l’attività poetica in Crowley, proviamo ora ad ascoltarlo dalla propria viva voce, attraverso le quattro raccolte contenute nel tomo, tutte dell’anno di grazia 1898. Rimane fuori la raccolta pornografica “White Stains”, sempre di questo annus mirabilis, un po’ perché ha goduto di molte più ristampe, un po’ perché non rientra nell’ottica decadente in cui s’inscrive il libro come prodotto stesso d’arte. Opera in cui si sentì di operare una confutazione delle opinioni di Richard von Kraft-Ebing (autore di Psychopathia Sexualis, 1886) sulle perversioni e anomalie sessuali, per il mago inglese affermazioni magiche di punti di vista perfettamente comprensibili (6).
Lo pseudonimo per la prima raccolta, “Aceldama”, rivela la profonda influenza di Shelley, che nel 1811 aveva pubblicato il romanzo gotico “St. Irvyne; or, The Rosicrucian” e il saggio “Poetical Essay on the Existing State of Things” firmandosi “un gentiluomo dell’Università di Oxford” – da cui deriva il “gentiluomo dell’Università di Cambridge” con cui esordì. Al solito caustico il biografo Symonds, giudica anche questa volta severamente la Bestia 666: Aceldama può esser liquidato come un vano tentativo di introdurre il satanismo di Baudelaire in Inghilterra, un’impresa che non riuscì neppure a Swinburne(7). Proseguendo su questo tono: Gli esperti di poesia che hanno letto i versi di Crowley lo collocano tra i poeti minori della sua epoca, o come Mario Praz lo espellono addirittura dal Parnaso…(8). Il grande critico italiano sembra qui esser in un pre-giudizio e se sottolinea una mancanza di maturità immaginativa (sicuramente Crowley ha composto senza troppo labor limae oraziano, la ipertrofica del 1898 lo attesta…), dall’altro non si premura troppo di spiegare il perché di questa noia di fondo nell’uditorio dei raffinati. Lo sciabordio dei sensi in questa prima raccolta è notevole, nella lirica 28 parrebbe d’esser interni ad un Alma-Tadema, appaiono sinestetiche quelle Rose di Eliogabalo, spuntano dalle labbra voluttuose e ricamano la scena, ma invece son cataste di donne…V’è lo struggersi parossistico (XXX): I am poor Marsyas; where shall I find / A wise Olympas and a lover kind / To teach my mouth to sing some secret sin… – Richiama una raffigurazione di satiri palustri à la Böcklin o à la von Stuck…L’aura è quella, ma il decadentismo inglese è differente, al simbolismo preferisce l’estetizzazione forzata. Una raccolta, per altro, dove Cristo è invocato in quanto Master…Ovvero la ribellione viene autoimbrigliata e acquisisce potere solo se contestualizzata e circoscritta. L’epilogo è colpo di coda maudit: Finisca il nostro amore mentre gli altri amori iniziano, / Altrimenti trucidami nel Momento, ignaro. / O baciami in reciproco morso mortale, se osi – / O un giorno ti strangolerò / Pel mio crine possente!
“Jezebel and other tragic poems”, la seconda, fu invece firmata “Count Vladimir Svareff – Edited, with an introduction and epilogue, by Aleister Crowley” e dedicata a Gerald Kelly. Il gioco di specchi dell’eteronimia è in qualche modo una morte iniziatica, per osservare la realtà con una individuazione differente (vero Fernando?). Come da nota introduttiva, ci troviamo nell’ultima opera solo e soltanto figlia del Decadentismo, poiché sarà con “Songs ot the Spirit” che si vedrà sopraggiungere un’accentuata ricerca spirituale. Canti di maledettismo swinburniano, l’immersione nella lussuria a farla da padrona lungo lo scenario sulfureo e spasmodico di Jezebel: Perfino le mie lacrime sono lacrime di fuoco, / per disgusto, pazzia e desiderio – Il vortice della sua giovane vita confitto in un satanismo forse alla Rapisardi e Carducci, eppur molto più carnalmente compiaciuto, sul finale il rapporto masochistico è evidente, fintanto che la brama diviene di morte, per ritrovar la donna-prostituta in un al di là fatto di peccato: My sin is perfect in thy blood, / And thou and I have conquered God” – Now let me die, to mate in hell / With thee, O harlot Jezebel. In “Concerning Certain Sins” potrete trovare uno dei tanti rovesciamenti netti (puerili e romantici quanto si vuole, ma non per questo senza effetto), e la certezza è quella di un paradiso che non può bastare, nella sua purezza, a comprendere le sublimi vette di certi peccati.
“Songs of the Spirit” la terza raccolta, innervata in più alte aspirazioni, come abbiam detto supra. Si rintraccia un certo baluginio d’esperienze variegate: The atmosphere of the old street of Amsterdam, of the colleges of Cambridge and of the mountains, lakes, forests and rivers, among which I wandered solitary, is evident in every stanza(9). Pur essendo Swinburne certamente ovunque, curiosamente il Manchester Guardian recensì l’opera intravedendo maggiori reminiscenze di Goethe, dei Romantici, di Baudelaire e dei Preraffaelliti. John Davidson dello Speaker (10) suppone un Crowley sulla linea di Swinburne non solo per ricalcarne pedissequamente le orme, ma anche per uno stile consonante a priori, innato. Una direzione di visione simile, anche se differente nei toni e nella qualità, insomma. È parere anche di chi scrive. Raccolta di maggior corpo (la migliore delle quattro), da gustare appieno: “The Quest” tra gli esemplari migliori di una poesia esoterica che non sia però solo esoterismo in poesia, altrimenti risulterebbe ben più rigida di così. Possiamo dire che la torsione nel rendere una materia d’arte sia connaturata in Crowley, nonostante le forzature evidenti…”The Alchemist” – dove la coscienza dei propri meandri tocca l’Infinito: I gaze upon the abyss, / Look down into the black unfathomed vault / Of starland and behold – myself. – Lo slancio rispecchia gli ardori di tutta un’epoca…L’anima che anela e si apre come fiore verso la conoscenza: Thou, First and Last, most inconceivable / All-radiating Unity, thou sphere / All-comprehensive, all-mysterious…Chiosando con un accenno che vale più di molte parole sulla propensione del Crowley mago, questa volta: Spirit of Life and Death, bow down and hear! – In quel “bow down” (inchinati) c’è un forzare la dimensione spirituale, un atto energetico che non chiede potestà, bensì ordina di farsi ascoltare.
Tra i punti più alti troviamo “The Philosopher’s Progress”, ove in epigrafe compare il motto ermetico par excellence: “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso” – La poesia parte con questo adagio e si unisce ad un barocco ancheggiare decadente, nella forme più raffinate. Il dandy trafitto dalla melanconia, il romantico-satanico corrosivo, si incammina insieme al ricercatore spirituale: Ciò che è supremo è risolto come il fondo, la profondità come il sovrastante: / il volto della Morte è il volto del Sonno; / la lussuria è l’amore più gradevole. // Come gli angeli stanno in piedi uno ad uno / supremi e supremi con lumi d’oro: / così i diavoli fulgidi: nessuno / può fissare la loro luminosità. // Ho preso la mia vita, come uno che reca / oro giovane da sciupare e spendere; / ricercai i loro golfi e gli ignei laghi / e perseguii nessun lieto fine. // Ho detto: la cima è come il fondo, / seni gemelli d’una bianca colomba; / il volto della Morte è il volto del Sonno, / la lussuria è l’amore più gradevole. Presenza soffusa di una certa tradizione britannica vampirista (Le Fanu/Polidori/Stoker), nel torpore dei sensi estenuati, poi subito dopo un riferimento alla Binah, come riportato in nota: quel Beyond the wide supernal sea letto in questa precisazione rende più scorrevole la comprensione stessa (sefirotica) e l’azione in scena: Le forti braccia di Dio poste sotto di me/sollevarono il mio spirito attraverso l’aria. Quindi una consapevolezza sopra la mutevolezza, come vuole il riferimento alla terza Sephirot. Mentre nel finale si rammenta la valenza della decima lettera ebraica “Yod” dietro “For Those Hands” e la spiegazione è che esse sono usate come simbolo del Punto Infinito sopra la mente, essendo Yod traducibile con Iota: mano, per l’appunto. A seguire, uno spostamento compositivo della quartina di prima: Il Fondo è uno con quella Cima, / E Sonno e Morte e Vita sono morte, / E Lussuria e Amore sono Uno.
Emblema di un parossismo cromatico la lirica “The Violet’s Love-Story”: Only the purple blossom there, that had / No kindred by the stream, let fall a tear, / Half wishing for the autumn of the year. Crowley ama sempre giocare con le sue ascendenze e “The Farewell of Paracelsus to April” risente chiaramente del Paracelsus di Robert Browning. Qui v’è spazio anche per un topos del dominio lunare dai sentori novalisiani, declinati nel turbine dei sensi: I know not, care not, only trust that soon / The sun’s dominion may be overthrown, / And o’er the wilderness appear the moon / With cold lips to bestow th’ inestimable boon. A “Spring Snowstorm in Westdale” trae sicuramente origine dal suo pionerismo alpinistico sulle alture della Cumbria. In “Succubus” troviamo un notevole finale che sembrerebbe vicino allo stile gotico: Driven back the demons yield, falter and cease; / For a little while the shield of sleep is peace. / Clear and bright the lamp burns; clean and sharp the sword, / While I watch their paths between before the Lord. Con nota esplicativa per il significato magico: la lucerna significa Illuminazione e la spada Volontà. Qui e là una musicalità notevole, come nei lazzi di “A Ronde”.
Infine “The Tale of Archais”, che reca il 1898 come data di pubblicazione, ma che comparì nei negozi solo a gennaio 1899, come rilevato dallo studioso Kaczynski. Opera di transizione e non del tutto riuscita anche a detta dello stesso Crowley, che nella sua autobiografia la commenterà come una sciocchezza puerile di cui scusarsi. Quivi sono contenuti clichés sempre figli di una certa affettazione ellenistica, per Giudice le smancerie presenti sono da far risalire a qualcosa della Lycidas di Milton e dell’Adonais di Shelley, Fu lodato dall’Oxford Magazine per aver svicolato le acque della corruttela di “Songs of the Spirit”; The Academy strinse il punto quando parlò di Ellenismo sì, ma di quello della pura decadenza, troppo sensuale per poter esser olimpico,…E non si va lontani dalle intenzioni dell’autore, sostenendo che così fu…Non potendo concepire l’idilio al di fuori dell’Impero della Decadenza (e del bagaglio maudit che sta dietro questo riferimento). Nei Tales of Archais, Swinburne viene inserito nel Prologo, poi una posa floreale tipica, sentenze preraffaellite: Love a lure, and life a treasure… Il commento di Giudice aiuta ad entrare nei pertugi dell’anima in cammino del mago-poeta: “In the shadow of thy wing” è una interpretazione del motto Rosacruciano, ispirato dal Salmo 53: “Sub umbra alarum tuarum, JHVH”. Richiami vari inseriti un po’ caoticamente (la Lamia di Keats, il Giardino delle Esperidi, etc.) l’onnipresente Swinburne citato come Bard of Fate che lamenta l’odio di Dio per il genere umano, l’atmosfera pastorale di una falsa quiete d’Arcadia estenuata (Quiet woods and streams and all the mountains tall, / Cool valley, silver-streaked with waterfall, / Came in his slumbers, chaste and musical…). Il paesaggio brulica di spiriti elementari, molto forte il fattore visivo e cromatico, reiterazioni sul peccato come martellanti eufonie lamentose (da ascoltare in lingua): The sin that loves the hollows of the night, / The sin that fears; the sin that hates the light; / The sin that looks with wistful eyes; the sin / That trembles on the olive of the skin; / The sin that slumbers; these divide the day / And all the darkness, and deceive, and slay.
Esondano gli arcaismi, alcuni in aiuto formale allo svolgimento del cantare, altri più tirati per i capelli, così dopo l’opportuna deambulazione si chiude questo poemetto, sicuramente non riuscito del tutto, dai troppi cali di tensione, e dopo i consueti interventi delle divinità nelle vicende umane, si giunge ad una fusione iper-romantica dei protagonisti. Il solco in cui iniziava a ritagliarsi uno spazio, venne però tracciato da liriche come “The Initiation”(d’altronde in un anno sì prolifico può capitare una caduta d’ispirazione), la forza della terza raccolta catafratta nel nostro volume, mette riga per riga la direzione della volontà: Beyond all named desire, / To pass the envious bounds of air and fire, / And penetrate the bosom of the night… Stand on the forehead of the rock; I saw / The armies of unalterable law / Shudder within their spheres…Visione di lingua di fuoco sopra il neofita, al quale cadde il velo dei sensi e proseguì il cammino apparentemente distanziandosi da queste prove liriche, in realtà serbando in cuor suo una missione che prende il via dalle fenditure aperte da Shelley e Nietzsche, eroici liberatori (in modo certamente differente) dai vincoli della schiavitù cristiana. La volontà del mago e la vocazione a risvegliare del poeta in connubio, al di là dei giudizi di valore.
Note:
1 – Aleister Crowley, Early Poetic Works – Introduction by Chris Giudice (cita il libro Perdurabo di Richard Kaczynski), Kamuret Press, London, 2019, p. 30;
2 – Parla dell’importanza dei due e della missione profetica del poeta nel Liber Aleph;
3 – Si tratta del capitano John Frederick Charles Fuller, abbacinato dall’astro nascente di Crowley, sul quale scrisse appunto il “The Star in the West”. Presentato ad un concorso ove fu l’unico partecipante, vinse e fu pubblicato immediatamente (senza ricevere il premio di 100 sterline promesso da Crowley, che voleva solo fare pubblicità alla propria attività di poeta, trovando quasi inaspettatamente un ammiratore delle sue opere);
4 – Colin Wilson, Aleister Crowley: La Natura della Bestia, Ghibli, Milano, 2015, p. 38
5 – Ibid;
6 – Ibid, p. 40;
7 – John Symonds, La Bestia 666, Edizioni Mediterranee, Roma, 2006, p.27;
8 – Ibid., p. 29 – Il giudizio su Crowley dell’insigne dandy e anglista è nel capitolo 5 n.64 de “La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica”, Firenze, 1930;
10 – Dall’Introduzione di Chris Giudice, il quale riporta le Confessions di Crowley;
11 – Gli estratti dai giornali si trovano sempre nell’Introduzione.
N.B. Nel testo si è usato un preciso criterio per quanto riguarda le citazioni dalle liriche: ove necessitava ricrearsi la musicalità iniziale, si è lasciato il testo in lingua inglese, altrimenti si è operata una traduzione in italiano.
Stefano Eugenio Bona